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Non sono d'accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu possa dirlo.

Creato il 29 aprile 2015 da Freeskipper
Non sono d'accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu possa dirlo.di Grazia Nonis. Ero una ragazzina quando il Sergio Ramelli morì ammazzato. Il 29 aprile del 1975. Lui aveva quasi vent’anni, studiava e viveva a Milano, come me. Ricordo bene la vicenda perché per la prima volta toccai con mano le bruttezze della censura. Fu la censura alle sue idee e alle sue opinioni, e un tema svolto in classe a decretarne la morte, ad armare la mano dei vigliacchi che gli tesero l’agguato sotto casa. Il comando fu impartito dal più codardo, il gruppo dei “Re” della censura, che dette l’ordine ai suoi fidati e vili “sudditi”, i vassalli, i valvassini e i valvassori di punire il reo del libero pensiero.
Una lezione in grande stile per chiudergli la bocca, e un monito per gli altri: “Ecco cosa facciamo a quelli che osano criticare le valorose Brigate Rosse”. Prima di ucciderlo e per convincerlo a tacere, il Sergio lo scalcagnarono per bene, con atti che oggi definiremmo di bullismo ma che io preferisco giudicarli per quello che sono: atti di delinquenza allo stato puro. Sputi, insulti, scritte intimidatorie davanti ai muri di casa: “Ramelli, fascista, sei il primo della lista”. Perfino il tema, causa della sua morte, fu rubato al professore ancor prima che questi potesse leggerlo. Testo che fu subito esposto sulla bacheca della scuola ed intitolato “Ecco il tema di un fascista”. Lo perseguitavano il Sergio, fuori e dentro l’Istituto tecnico Molinari di Milano. Isolato e solo contro i vigliacchi della cosiddetta “Avanguardia operaia”. Pensava di farcela, il Sergio. Spalle grosse il Sergio. Fino all’agguato, ai colpi dell’Hazet 36, la chiave inglese da tre chili e mezzo che gli fracassò il cranio, lo lasciò a terra in una pozza di sangue. Morì dopo 48 giorni di agonia. L'atrocità della censura raggiunse il suo apice al funerale. La bara sfilò sotto le finestre della Facoltà di Medicina e qualcuno, da lassù, fotografò i partecipanti. Foto poi ritrovate in un “covo rosso” di Viale Bligny, insieme ai dati di 10.000 persone considerate militanti neo fascisti e quindi potenziali obiettivi da colpire. Dovettero passare dieci anni prima di beccare i colpevoli e con loro qualche mandante. Alcuni furono accusati anche di altri reati, tentativi d’omicidio ed aggressione. Ovviamente sempre per lo stesso motivo: spaccare la testa a chi non la pensava come loro. Rabbrividisco leggendo le dichiarazioni degli imputati, il loro pensiero prima e dopo l’assassinio: "Andiamo via, non facciamone nulla, in quell'istante Ramelli non era più un fascista, un simbolo odiato, ma un uomo" “Non ebbi il coraggio di guardare negli occhi mio padre, uscii di casa. Cambiai genere di attività politica ...” Tutti pentiti prima, dopo e durante. Coscienze ambigue, dato che l’anno seguente una parte del gruppo devastò ed incendiò un locale: sette feriti e tra questi un uomo che resterà invalido a vita. Le pene per la morte del Sergio furono lievi, perché in Italia funzionava e funziona così. Anzi, mentre per i più è difficile trovare lavoro dopo il carcere, i colpevoli di questo vile omicidio ottennero incarichi di tutto rispetto, di prestigio. A questo si aggiunge la cronaca “di parte” dei giornali dell’epoca, a proteggere i “compagni”, a giustificare gli assassini, a scrivere falsità: il “morto” era un neofascista (e quindi doveva morire ?!). Sergio Ramelli aveva semplicemente deciso di iscriversi ad un partito, destra o sinistra poco importa. Non era un “noto estremista” e non aveva mai fatto male a nessuno. Era solo un ragazzo mite e perbene che è morto per difendere la sua libertà di pensiero. Riflettiamo attentamente: da una parte ci vogliono imbavagliare con le leggi, mentre dall’altra con le botte o con le pistole. La libertà di pensiero va difesa, protetta. Non uccisa.

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