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Nothing Has Changed. David Bowie is…

Creato il 06 novembre 2014 da Oggialcinemanet @oggialcinema

David Bowie si guarda allo specchio, come per inquadrare tutti i suoi alter ego. Ci sono tutti. Audaci, imprevedibili, visionari. Dal Major Tom di “Space oddity” a “Ziggy Stardust”, dal Thin White Duke di “Station to Station” al diafano post-rocker di “Heroes” fino ai trionfi di “Let’s dance” e del più recente “The next day”. La sua immagine riflessa galleggia in una dimensione parallela, onirica, dalla quale ha catturato tutto ciò che fluttuava nell’aria per creare i suoi personaggi, trasformando se stesso negli eroi delle sue esibizioni, alieni, marziani, uomini che vanno nello spazio e si perdono. Protagonisti del suo universo artistico popolato, da clown, malinconici freaks e gentiluomini androgini. E da quello stesso specchio sgorgano le note delle canzoni che hanno reso David Bowie un’icona di tutti i tempi, i testi dei suoi indimenticabili brani ricompongono i pezzi del puzzle sparpagliati in maniera analitica negli angoli del tempo. Lo specchio sconfina in un’unica lunga visione.

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Senza limiti o definizioni. Bowie non può essere relegato in un confine. Musicista, interprete, artista, attore, precursore di avanguardie, un personaggio capace di dettare le nuove regole della cultura di massa. Esploratore e creatore di stili sfacciati e sfrontati, rompe con la tradizione del rock e che sancisce il passaggio a un nuovo futuro, postmoderno e pop, dove regnano il glamour, l’androginia e lo scandalo.

Un’icona visionaria, aliena, decadente e liberatoria. La sua polvere di stelle completa l’effetto immersivo: ci sediamo sulle poltroncine della sala buia del cinema, per entrare davvero dentro Bowie.

Sul muro una frase ripresa dai suoi scritti ci aiuta ad orientarci nei contenuti: “Tutta l’arte è instabile. Il suo significato non è necessariamente quello implicito dell’autore. Non c’è una voce autorevole. Ci sono soltanto molteplici letture”. Si passeggia in compagnia di ospiti speciali, come Kensai Yamamoto, celebre stilista giapponese, o Jarvis Cocker, frontman dei Pulp, tra oltre 300 oggetti di Bowie, che includono filmati, fotografie, manoscritti, storyboard per video, bozzetti di costumi e scenografie per scoprire le sue idee sulla musica, l’arte e la performance.

Sicuramente, la mostra David Bowie Is, organizzata al Victoria & Albert Museum di Londra ha fatto numeri da record. In pochi mesi ha superato i 3100 visitatori per poi partire per un vero e proprio tour nelle più importanti istituzioni museali del mondo. E ora il regista Hamish Hamilton ha diretto e girato un film per visitare la mostra rimanendo seduti al cinema. Così David Bowie Is è diventato un vero e proprio viaggio lungo i 50 anni di carriera del camaleontico Duca Bianco. Il New York Times l’ha definita “elegante e oltraggiosa”. L’artista più eclettico della storia della musica può essere afferrato, almeno in parte, il 25 e 26 novembre nelle sale italiane.

Perché David Bowie è molto più di un semplice divo del rock. La sua musica è indissolubilmente legata al suo stile. Glielo ha riconosciuto in mondovisione Jean Paul Gaultier, introducendolo agli Mtv Award del 1995: “Questo artista è una perenne fonte di ispirazione, un punto di riferimento per tutti gli stilisti del mondo”.

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Un camaleonte dalla classe innata cui si sono ispirati designers, registi, pittori e gente comune, affascinata dalla sua natura multiforme. Assimilatore di culture, maestro di forme tra moda e sessualità, erede di Andy Warhol. Nessuno, nella storia del pop, ha avuto un’uguale capacità di giocare con il travestimento e la sartoria, violando i codici morali di un’epoca.

La prima figura a bucare gli occhi è un manichino con la tuta in Pvc disegnata da Kansai Yamamoto per il Tour di Alladine Sane del 1973. Un essere alieno piantato coi pantaloni a sbuffo che sembrano due grandi orecchie mentre la figura intera è una pera cotta di Alice nel paese delle meraviglie.

L’estro della pop star è impresso nella memoria universale, nell’esuberante tuta in vinile nero Tokyo Pop, uno degli abiti più appariscenti della sua carriera da “trasformista”, creato da Kansai Yamamoto per il tour Aladdin Sane (1973) e, poco più avanti, la famosa tuta multicolore, disegnata da Freddie Burretti per l’album The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars (1972), che richiama alla mente i costumi già ideati da Stanley Kubrick per i personaggi di Arancia Meccanica. Non ultimo il provocante cappotto disegnato per la copertina dell’album Earthling (1997), che combina elementi del design tradizionale, rappresentato dall’Union Jack che rimanda alla firma sartoriale di Alexander McQueen a Saville Row, con un’estetica punk dal tono iconoclasta e sovversivo. Ma l’immagine che evoca Bowie nella mia testa è il ricordo della figura onirica dai capelli tinti in un brillante color aranciata. Indossa una tuta monomanica (anche monogamba) e ha il viso dipinto come una tela espressionista. Proprio questo è ciò che Bowie cerca di ripetere nel rock, interpretandolo come uno schermo vuoto su cui dipingere il teatro della società. Ecco perché la musica, da sola, non basta a dar un senso compiuto alla sua arte.

Di Valeria Ventrella per Oggialcinema.net

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