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Obama attacca le politiche di austerità dell'Europa: ne va della sua rielezione

Creato il 05 giugno 2012 da Pfg1971

Obama attacca le politiche di austerità dell'Europa: ne va della sua rielezione

Obama attacca le politiche di austerità dell'Europa: ne va della sua rielezione

 

Proprio quando sembrava che con l’elezione del socialista Francoise Hollande alla presidenza francese, le due sponde dell’Atlantico potessero riavvicinarsi, le recenti prese di posizione della Casa Bianca rischiano di allargare a dismisura le distanze tra Europa e Stati Uniti.

 

Nei giorni scorsi prima Barack Obama, poi il suo portavoce, Jay Carney, hanno alzato la voce contro le politiche di austerità adottate da quasi tutti i paesi europei per fronteggiare la crisi economica sempre più grave in cui il Vecchio Continente continua ad avvitarsi.

 

Secondo la Casa Bianca, se gli europei continueranno a perseguire scelte economiche fondate solo su tagli al bilancio e su nuove tasse, potrebbero precludersi ogni residua speranza di avviare una ciclo economico virtuoso, in grado di creare crescita, occupazione e stabilità monetaria.

 

Non solo, quello che più preoccupa Obama è la prospettiva che se l’Europa dovesse restare al palo, a pagarne le conseguenze non sarebbero solo le classi medie dei paesi europei, ma anche la crescita e l’occupazione americana che sembrava sempre più robusta.

 

Le economie delle due sponde dell’Atlantico sono infatti strettamente legate le une alle altre, poiché ognuna rappresenta un mercato di sbocco dei prodotti dell’altra. Se il tasso di disoccupazione statunitense non dovesse continuare a scendere dall’8,2, 8,3% attuale, il presidente potrebbe rischiare di non essere rieletto il prossimo 6 novembre.

 

In effetti, nessun occupante della Casa Bianca è stato riconfermato con tassi di disoccupazione superiori al 7% nel giorno delle elezioni. Sicuramente Obama non riuscirà a perseguire un traguardo così roseo, ma deve perlomeno riuscire a imprimere nelle menti degli elettori l’idea che la disoccupazione continuerà a calare e che le cose potrebbero migliorare.

 

Tale obiettivo minimo potrebbe diventare un miraggio se il Vecchio Continente continuerà a rimanere impigliato in una politica economica impostata sui tagli e contro la crescita in grado di creare nuova occupazione. Non a caso, le pressioni americane sull’Europa hanno assunto un carattere quasi spasmodico proprio venerdì scorso, quando sono stati resi noti i risultati dell’occupazione statunitense.

 

Secondo il dipartimento del Lavoro, nel secondo trimestre del 2012 sarebbero stati aggiunti solo 69.000 nuovi occupati, al netto dei licenziamenti, contro una attesa di almeno 150.000, un numero in grado di equiparare la crescita del primo trimestre dell’anno.

 

Le incertezze economiche europee potrebbero quindi ricreare le stesse condizioni di rallentamento della crescita americana già verificatisi all’inizio del 2009 e del 2010. Con una differenza però fondamentale. Allora si era all’inizio dell’esperienza presidenziale di Obama e molti a avevano continuato a dare credito alle sue scelte perché comprendevano la difficoltà di fare uscire gli Usa dalla più grave crisi economica dagli anni trenta del XX secolo.

 

Oggi, quegli stessi osservatori ed elettori che allora avrebbero potuto giudicare l’operato di Obama in base a varie attenuanti, non gli useranno la stessa gentilezza. Tre o quattro anni fa lo stato poco salutare dell’economia avrebbe potuto essere addossato alle errate scelte di George W. Bush, oggi, se l’economia non aggiunge posti di lavoro, la responsabilità non può che essere di Barack Obama.

 

Ecco perché l’attuale presidente non ha più remore nel bacchettare le scelte di austerità della Vecchia Europa, di cui la maggiore responsabile resta la Germania di Angela Merkel, contraria a garantire con i propri fondi le richieste di denaro fresco da parte delle nazioni europee più in pericolo di ricadere nella più buia recessione.

 

Ne va della sua sopravvivenza politica. A trarne vantaggio non potrebbe essere che il suo sfidante ufficiale, quel Mitt Romney, che dopo essersi assicurato i delegati del Texas, è diventato il principale rappresentante del partito repubblicano.

 

Un avversario che potrà contare sui rilevanti finanziamenti di Wall Street, poco incline a sostenere un presidente in carica visto come una sorta di nemico di classe, malgrado i milioni di dollari spesi per salvare le banche dal default e sottratti a una vera strategia di stimolo all’occupazione tramite un livello di spesa pubblica adeguata.   


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