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Oldboy: Corea-America solo andata. Originale e remake

Creato il 16 dicembre 2013 da Fascinationcinema

CHAN WOOK-PARK: IL SANGUE E LA VENDETTA

 

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Il nome di Chan wook-park, nato a Seul da famiglia di estrazione cattolica nel 1963, è legato, quasi per automatismo, alla tematica della vendetta, ricorrente nella cinematografia sudcoreana e centrale in quelle che sono considerate le sue opere più celebri, il trittico conosciuto come La trilogia della vendetta: Mr. Vendetta (2002), Oldboy (2003) e Lady Vendetta (2005) ; in realtà, la poetica del cineasta asiatico si spinge oltre il semplice pattern dell’occhio per occhio, presentandosi articolata in senso più ampio e stratificato. Park nasce in primis come appassionato di cinema e come critico (non manca mai di menzionare l’hitchcockiano La donna che visse due volte come film per lui determinante), background ravvisabile da un gusto pressoché scientifico verso la perfezione analitica dell’immagine; successivamente, si dedica al ruolo di sceneggiatore, e anche in questo caso le sue storie solide e rigorose ne sono prova evidente. A partire dall’esordio nel 1992 con Moon is the sun’s dream, love story che si giostra fra registri differenti, la poetica del cineasta coreano si è delineata in modo sempre più definito e personale. La già citata trilogia della vendetta vede al centro (anche cronologicamente) il celebre Oldboy, che si erige a pellicola-simbolo della sua intera cinematografia, in primis per popolarità ma anche e soprattutto per il discorso che conduce: se il precedente Mr. Vendetta non lasciava vie di fuga, mostrando il lato oscuro e sanguinario della nemesi, senza alcuna possibilità di redenzione, Oldboy narra di colpa ed espiazione, seguendo i canoni della tragedia classica e proseguendo l’excursus sulle tematiche di carne e sangue, che torneranno in tutti i titoli successivi, da Lady Vendetta a Thirst (2009), in cui il vampirismo è sottofondo per una vera e propria dissertazione sulla mutazione corporea. Prima di Thirst, troviamo l’atipico I’m a cyborg but that’s ok (2006), poetico e iper-stilizzato, tecnicamente prossimo a quello che sarà il suo primo film in terre statunitensi, l’affascinante Stoker (2013), ambiguo e ammaliante discorso sul Male, il cui visivo simmetrico e impeccabile è stato erroneamente scambiato per virtuosismo fine a se stesso. L’immagine, in Park, non è mai isolata dal discorso, bensì sempre funzionale al testo, dunque semioticamente completa: la bellezza delle visione è utilizzata con scopi differenti, sia in quanto ossimoro che piuttosto con la funzione di porre l’accento su un determinato discorso/sequenza. Oldboy è compendio del cinema di Park chan-wook, in quanto vi sono insiti tutti i topòi principali della sua poetica, ma al tempo stesso è scheggia impazzita: struttura una storia contemporanea in patterns teatrali antichi (l’incesto, la vendetta, la colpa, l’autoflagellazione), senza la catarsi di Lady Vendetta, il male ancestrale di Stoker o la carnalità marcescente di Thirst; la sua unicità sta nel saper colpire lo spettatore nei tre punti cruciali, pancia, cuore e cervello, mossa da maestro che lo rende, a tutti gli effetti, capolavoro.

Chiara Pani

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OLDBOY (2003)

Un incipit fulminante, un protagonista iconico e una storia di vendetta, amore e prigionia: questi, in pillole, i tratti salienti di Oldboy (2003), la pellicola più celebre del cineasta sudcoreano Chan wook-park, il suo film-simbolo. Il film narra, com’è ben noto, la storia di Oh Dae-su (lo strepitoso Choi min-sik, che ricordiamo anche in I saw the devil, 2010) e della sua prigionia durata 15 anni, dopo un rapimento del quale non immagina il motivo; alla straniamento che segue la liberazione, alienato e stordito in un mondo che stenta a riconoscere, il suo unico desiderio è la vendetta. Trova, nella giovanissima Mi-do (Kang hye-jeong) l’amore che potrebbe salvarlo dal suo stesso odio, ma il destino si sa, segue sentieri diabolici e in questo caso ha il volto ammaliante di un nemico. Oldboy è tratto da un manga in otto volumi pubblicato dalla Futabasha tra il 1996 e il 1998, ma il film di Chan wook-park si allontana dal fumettistico, per assumere i contorni del melo’ a tinte forti e, in primis, quelli tipici della tragedia greca: Sofocle è l’esempio più lampante e paradigmatico dei meccanismi alla base del plot, dunque è pressoché inutile menzionare l’Edipo Re, sia a livello tematico che puramente strutturale. Per citare Aristotele, nella sua Poetica: “la situazione più adatta alla tragedia greca è quella di un uomo che non abbia qualità fuori dal comune né per virtù né per giustizia, e che si ritrovi a passare da una condizione di felicità ad una di infelicità, non per colpa della propria malvagità, ma a causa di un errore. Questo mutamento può avvenire a causa di una peripezia o di un’agnizione (riconoscimento), oppure, nei casi migliori, di entrambi.” .Ciò che differenzia la tragedia Sofoclea dal capolavoro del cineasta coreano è il discorso sulla conoscenza della propria identità: Edipo è teso, nel corso dell’intera opera, verso la verità sulle proprie origini, mentre Oh Da-su è determinato a individuare chi nutra verso di lui un odio tale da spingerlo a imprigionarlo per 15 anni, e cosa l’abbia motivato a farlo. La natura del protagonista e del suo legame con Mi-do compare come verità che annichilisce, e proprio in essa risiede la vera punizione da parte del villain, ma non è mai stata ricercata coscientemente da Oh Dae-su. Dunque, i meccanismi tragici vengono, in un certo qual modo, ribaltati, in modo che il ruolo di vittima del personaggio principale risulti ancora più accentuato, poiché la colpa è di gravità mortale, ma compiuta in maniera inconsapevole. A tutto questo si uniscono carne e corporeità (la mutilazione della lingua), citazioni musicali alte (l’Inverno di Vivaldi, che si fonde al magnifico score composto da Jo Yeong-wook) e rimandi al cinema americano classico, in primis nella figura del villain, Lee woo-jin (Yu Ji-tae), altolocato e smagliante rampollo che sembra preso di peso da una commedia anni ’40. Cinematograficamente perfetto in ogni singola inquadratura, Oldboy rappresenta un caposaldo nel cinema contemporaneo, vetta talmente alta da essere considerata praticamente intoccabile.

Chiara Pani

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OLDBOY (2013)

Ormai è uno stucchevole luogo comune quello di sottolineare, rispetto ai remake, l’atteggiamento selvaggio, o presunto tale (molti tendono ad ignorare che il rubinetto hollywoodiano dei rifacimenti è aperto dal 1904), da parte delle major americane. In effetti, però, quello di Oldboy è un’anomalia. La mecca del cinema ha, seppur generici, dei parametri di giudizio nello scegliere le pellicole da rifare: il film deve essere vecchio o un horror. Il sudcoreano Oldboy (2003) di Chan-wook Park non rientra in nessuna di queste categorie, ed è oltretutto amatissimo da un pubblico mainstream. Le reazioni, infatti, da parte degli appassionati sono state, da subito, per un violento “no”, anche se molti erano fiduciosi che il film non sarebbe mai arrivato a vedere la green light. Poi, l’annuncio, dopo anni di ipotesi e indiscrezioni (è dal 2008 che si parla di questo progetto), della Mandate Pictures, a Luglio del 2011, che il regista sarebbe stato Spike Lee e l’attore Josh Brolin. A quel punto, svanito ogni dubbio, le voci contrarie al rifacimento del secondo capitolo della “trilogia sulla vendetta” si sono moltiplicate e fatte più veementi, con tanto di petizioni e pagine Facebook. A rafforzare le perplessità è stata anche la scelta del regista. Dopo il botto con La 25ma ora (2002), Lee, con l’eccezione di qualche documentario per niente distribuito e Inside man (2006), non ha convinto nessuno. Tra un Lei mi odia, un Il miracolo di Sant’Anna e mille sterili polemiche e Tweet rancorosi, la reputazione di Lee ha toccato, negli ultimi anni, il suo punto più basso. Diciamo da subito che con questo film, di certo, non si rialzerà, ma questa affermazione non deve far pensare che tutto sia da buttare.

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Il plot è lo stesso identico dell’originale. Dall’incipit, che vede un uomo d’affari essere rinchiuso da forze oscure in una stanza per vent’anni, fino allo scioccante finale. Mai, però, è stato così fondamentale per un remake parlare del suo contesto. Se prendiamo per assodato che gli elementi del “dove” e del “quando” sono alla base di qualsiasi regola interpretativa, allora siamo d’accordo che il contesto, sia geografico, che storico, modifica in primis l’opera stessa. Tornando, quindi, ai remake: porsi verso un’opera “bendati”, si vuole dall’emotività che ci lega all’originale, si vuole per preconcetto, dunque, senza collocarla all’interno di un qualche contesto, vuol dire condannare a prescindere. Inoltre, ciò che un’opera significa, in quanto dichiarazione effettuata all’interno di un contesto, non sempre coincide con quelle che erano le intenzioni dell’artista nel realizzare la sua opera. Il concetto di remake può essere interessante proprio per questo. Lo stesso tema ha, per così dire, un diverso valore semantico ed espressivo a seconda del contesto, diacronico o sincronico, in cui figura. Nonostante la narrazione identica, il film di Spike Lee è un film sull’America. Un film profondamente politico. Non mi riferisco unicamente alle sequenze delle torri gemelle e di Bush al telegiornale (in parte presenti anche nell’originale), viste dal protagonista, durante il periodo di prigionia, che anzi risultano posticce e forzate, ma alla metamorfosi del protagonista che con pennellate assai larghe, all’inizio del film, è dipinto come la quinta essenza dell’americanismo spiccio. Anche perché è un film in cui l’America non c’è. Tanti esterni, ma mai un posto iconico, mai un luogo riconoscibile. Alienante e alienato, il film si svolge in un non-luogo. Il volto di Brolin e la sua storia di violenta redenzione e rinuncia finale si prestano con grazia alla parabola americana degli ultimi anni, la crisi governativa e sociale che gli Stati Uniti sta tutt’ora vivendo. Il Joe di Brolin incarna una classe dirigente autodistruttiva e obsoleta. Impariamo, quindi, da Duchamp e consideriamo la manipolazione che deriva dalla decontestualizzazione di un opera. Detto ciò, le scene d’azione non convincono, il villain (Sharlto Copley ormai sulla cresta dell’onda dopo District 9) sembra il cattivo di un James Bond con Roger Moore, e alcuni dialoghi sono imbarazzanti (la citazione su Edmond Dantes è sottile quanto una badilata in faccia), rendendo il risultato quello di un exploitation. Oldboy è questo: un involontario exploitation d’autore, sia nella maniera di trattare la violenza che nel macchiettismo dei comprimari. Infatti riallacciandoci al discorso fatto prima si potrebbe considerare dire che questo remake è fortemente politico, esattamente come lo erano certe pellicole di Corman, Bartel o alcuni titoli appartenenti alla blackspolitation.

Brolin è incredibile. Ovviamente i transfert non bastano a salvare un film che di difetti ne ha da vendere; a farlo, o comunque a quasi riuscirci, è Josh Brolin. La mimica fisica e le sottigliezze recitative restano impresse ben oltre la visione del film. Il protagonista di W (2008), con la sua faccia da ranchero a stelle e strisce puro sangue, sembra unire due tradizioni recitative e generazionali. Una sorta di Lee Marvin moderno su cui si regge tutta l’impalcatura del film. Brolin gioca con i silenzi, trasformando il suo volto e passando da granito a lacrime in maniera fluida ed ineccepibile. Comunque l’odio per Oldboy non farà altro che crescere con il tempo. Su questo non ci piove. Odio che in questi ultimi giorni si è trasformato in silenzio. In massa stanno ignorando il film. Ma sarebbe bello se si cogliesse l’occasione, con questo “piccola” pellicola deforme e informe, di capire quello che dice, magari involontariamente, al di là degli sterili giochi da settimana enigmistica, del “trova la differenza”. Ogni studioso d’arte pittorica sa che la storia si può raccontare tanto con i capolavori quanto attraverso i falsi e i falsari.

Eugenio Ercolani

 


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