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"Olimpia" di Luigia Sorrentino - Nota di lettura di Gabriele Gabbia

Da Mauro54

  LUIGIA SORRENTINO - OLIMPIA  (Prefazione di Milo De Angelis - Postfazione di Mario Benedetti) - INTERLINEA EDIZIONI  «L’antro custodisce ciò che il vedere non sopporta». – Occorre partire da questa perentoria riflessione di Flavio Ermini per scrivere sensatamente intorno alla complessità e alla molteplicità semantica di Olimpia, ultima silloge poetica di Luigia Sorrentino, edita da Interlinea Edizioni, con prefazione di Milo De Angelis e postfazione di Mario Benedetti.
Il testo, distinto in otto misteriose sezioni (L’antro; La città; Il lago; La discendenza; Il confine; La deformazione; Il sonno; L’ingresso alla montagna; La città nuova), «tocca in profondità» – come scrive De Angelis nella presentazione – «le grandi questioni dell’origine e della morte, dell’umano e del sacro, del nostro incontro con i millenni», e lo fa – verrebbe da aggiungere – lambendo un’alta atmosfera metafisica, attraverso uno sguardo «ampio, prospettico», e a tratti inquietante e incorporeo: «lei era lì / non era più la stessa / il volto sbiancato nell’intangibile / nulla più le apparteneva / si rivoltava in un’altra che l’offendeva / nell’involo mostruoso in lontananza / lei era un soffio chiuso / tutto era in sé pieno, attaccata / alle pareti, lei era ormai radice».
Il libro è interamente attraversato da questa «creatura intermedia» che – sospesa a mezz’aria – sfiora la morte, da questo spettro che «a volo d’aquila» si abbatte sulle pagine e qui tenta di radicarsi, per lasciare traccia di – per farsi radice guadando (al contempo) l’arcana e aleatoria città di Olimpia, «una città antica e nuova, vissuta nello scorrere del tempo ma non in modo unidirezionale, (…) mossa e non solida» – come osserva Benedetti nella postfazione – in «un viaggio soprattutto nel morire», in cerca dunque di ciò che nel tempo è andato perduto di noi stessi in noi stessi – «al servizio di ciò che siamo stati»: «il volto si profila / (…) incarnato nel rito che si consuma qui / (…) la sua giovinezza / si spense / (…) poi solo una voce, un soffio / divenne».
E l’univocità di questa voce non è, in realtà, che il coro con le polivalenze e le sfumature di tuttele sue voci; degli incontrati, degliincreati, «dei vivi e dei morti» – a confermare la complessità e la molteplicità semantica ed omnicomprensiva di cui all’inizio si è accennato, ulteriormente enfatizzata dall’apparentesemplicità del dettato, spesso aggraziato, ma talvolta di ctonia occulta e violenta  compattezza: «Chiamava da una cavità morbida e sotterranea, vivente nella furia / di un amore che atteneva soltanto lei. Pulsava l’essenza perenne, / rigenerandosi da sola, senza interruzione. Al taglio improvviso della / carne, ci gettò, contro le nostre stesse viscere, i nostri organi, con gli /  escrementi. Ci tenne lì, in una lunga attesa, ci nascose, mentre lei si / espandeva larga, liquida e piena. In sé contenne l’umido spazio della notte».
Un viaggio dunque nell’oscurità dei propri visceri e nelle interiora di una città, «sempre sulla soglia di una scoperta cruciale», nell’antro del corpo e nelle subsidenzenotturne da cui la materia testuale deriva, con le sue «creature dell’attimo» e le simultanee agnizioni, e al contempo, un viaggio scritto all’interno di una città reale e immaginaria, fluttuante e transeunte, così lontanamente attraversata da esservi dentro: «La prima volta che la vidi era pallida. Sovrastava tutto quel bianco. / (…) Bianca / era lei, e io ero insieme a lei l’attesa e il compiersi nello stesso istante. / Comprendevo e riconoscevo proprio quanto di più raro era lei per / essersi così improvvisamente aperta, impallidita da tanta immotivata / bellezza (….) / in quel gorgo di luce (…)», «(…) solo un sorriso chiaro, una gratitudine»: tutto ciò che l’antro non ha potuto non dire.
 
   Gabriele Gabbia
 
La citazione in apertura e la «creatura intermedia» menzionata appartengono al libro Il moto apparente del sole – Storia dell’infelicità (Moretti&Vitali, 2006), di Flavio Ermini; le citazioni restanti sono invece desunte dalla silloge Olimpia, di Luigia Sorrentino.
 

Dalla sezione L’antro
lei era lì
non era più la stessa
il volto sbiancato nell’intangibile
nulla più le apparteneva
si rivoltava in un’altra che l’offendeva
nell’involo mostruoso in lontananza
lei era un soffio chiuso
tutto era in sé pieno, attaccata
alle pareti, lei era ormai radice
 
 
*
 
il volto si profila
il volto che siamo stati è istintivo
incarnato nel rito che si consuma qui
nella consolazione siamo venuti
mutarono i suoi occhi quando chiese
la vita eterna
la sua giovinezza si spense
divenne una cicala
poi solo una voce, un soffio
divenne
 
*
 
ancora più in alto
in mezzo alle querce
non c’è altro che querce
siamo sempre più vicini al cielo
poiché nessuno è giunto alla sua fine
prima di morire
su quelle rovine vedemmo
ciò che di noi viene disperso
 
*
 
come grembo che si prepara
a ritornare estraneo ad ogni flutto
nell’uliveto deposto ogni possesso
lei chiese
sul lago conducimi con te
poi vide la giovane a lei rivolta
che l’abbracciava tante volte
non vide più nulla dopo
solo un sorriso chiaro,
una gratitudine
 
Dalla sezione La città
 
La prima volta che la vidi era pallida. Sovrastava tutto quel bianco.
Scendeva verso noi che avanzavamo, si allargava così pacatamente
quel luogo di bagliore e di sonno si spargeva tutto intorno. Bianca
era lei, e io ero insieme a lei l’attesa e il compiersi nello stesso istante.
Comprendevo e riconoscevo proprio quanto di più raro era lei per
essersi così improvvisamente aperta, impallidita da tanta immotivata
bellezza, lei era giovane e vecchia. L’austero profilo batteva l’agile
volto in quel gorgo di luce abbracciava.
 
*
 
il sole alle spalle cancella
i nostri volti
veniamo da troppa lontananza
lungo quella discesa
nel porticato
alte colonne ci avvolsero
con le loro braccia
 
simultanea la superficie
il movimento attorno al proprio
asse, in rotazione
 
all’ampiezza
offriamo il soffio qui adagiato
la bellezza che ci fu tolta
nella luce inesorabile
dello spegnersi
 
*
 
la soglia era ciò
che a noi stessi fu ignoto
per molti anni
come le cose
che invecchiano e si annullano
 
poi qualcosa chiamò
precipitata e muta
lasciò che altri sapessero
 
– siamo colui che se ne va
abbiamo le sue gambe
le spalle, l’incedere veloce
la traccia di un saluto
siamo colui che sprofonda
a un passo da noi –
 
 
Dalla sezione Il lago
 
ritornammo dove eravamo
solo il nome tremato
 
lo spazio fu questo sprofondare
in un tempo in cui furono solo
il saccheggio e la voce
 
l’uno al cospetto dell’altro
l’uno l’altro assaltava
trasportato nell’enorme radice
nella forza di ciò che era voragine
rotolò giù come massa informe
si lacerava e ricacciava
più dentro si accovacciava
 
 
*
 
lei stava su un piano mobile
quando sospesa vide
l’insegna dei volti
qui visse la donna diceva
ma tutto era già stato
 
sulle rovine del nostro essere
rimbombava sola la domanda
è quella la porta?
 
 
 
Dalla sezione La discendenza
 
tutto stava su di lei
e lei sosteneva tutto quel peso
e il peso erano i suoi figli
creature che non erano ancora
venute al mondo
lei stava di sotto e dentro
 
questa pena l’attraversava ancora
quando venne meno qualcosa
 
le acque la accolsero
 
e quando si avvicinò alla costa
della piccola isola, tutti
portava nel suo grembo
 
 
Coro 1
 
Dalla sezione Il confine
 
nella sua sostanza di silenzi
eseguiti, lei era immobile e armata
sotterranea presenza di tutte le cose
centro
congiunzione tra spazio e tempo,
colossale dentro la superficie,
simile a una guglia rocciosa,
incarnata
 
nella forza
trattiene o separa
afferra dalla profondità
il sottosuolo unisce al cielo
risale tra cespugli
fino alla vetta più alta del monte
 
in basso spinge creature dell’attimo
 
 
 
Dalla sezione La deformazione
 
Sempre di più, il morire. Fluttuando nella sostanza emotiva che preserva
e cura, svanisce la memoria di ciò che siamo. La transizione nella morte
da vivi, provoca spaesamento. In un grumo di forze distese, avviene lo
smantellamento, lo spostamento, l’inversione. Ritorniamo arcaici, al
servizio di ciò che siamo stati.
 
 
 
Dalla sezione  L’ingresso alla montagna
 
tutta la nostra attesa era
in una madre che ritorna
nel regno dei vivi e dei morti
frantumato dinnanzi a lei
 
tutto si era placato fra i tronchi
dei lecci
senza steli stavamo sulla spianata
trasportati qui dove si tace di gioia,
tace su tutto chi possiede
quello spirito del futuro
sopra le rovine

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