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Olio di palma: business devastante per foreste e oranghi

Creato il 04 maggio 2015 da Scienziatodelcibo @scienziatodelci

Da dicembre 2014 tutte le aziende alimentari europee sono obbligate a specificare in etichetta la tipologia di olio vegetale utilizzato: così l’olio di palma è venuto alla ribalta prepotentemente. Deforestazione, scomparsa degli oranghi, anche Report su Rai 3 ci ha dedicato una puntata. Su questo blog, già da un pò era pronta un’analisi dettagliata del fenomeno e l’accusa alla ridicola certificazione di Sostenibilità RSPO dove produttori, industrie e ispettori, se la cantano e se la suonano.

Carrefour e altri colossi della distribuzione organizzata stanno chiedendo alle aziende produttrici di fare chiarezza sulla eventuale provenienza da filiere sostenibili e certificate degli oli vegetali di palma usati come ingredienti. Il WWF nel 2009 ha lanciato una campagna per il consumo responsabile di olio di palma (RSPO) stilando addirittura una classifica delle principali aziende/multinazionali, importatrici di olio di palma (source). Perché tutti questi riflettori sull’olio di palma? L’olio di palma si trova nella maggior parte dei prodotti alimentari elaborati con oli vegetali. Fino a dicembre 2014 sulle etichette bastava scrivere “oli vegetali” anche se questo significava che dentro probabilmente c’era olio vegetale di palma, perché è meno costoso, meno pregiato (il più ricco di acidi grassi saturi) e quello più resistente ai processi di cottura. Si trova dappertutto, dalle margarine ai formaggi “alleggeriti” (cioè dove il latte viene sostituito da grassi vegetali), alle merendine, prodotti da forno, prodotti fritti. E allora? dove sta il problema? Il consumo dell’olio di palma aumenta esponenzialmente, sia nell’industria alimentare, sia nei nuovi impianti energetici da biocombustibili, e i palmeti vengono piantati al posto delle foreste pluviali di tutto il Sud-est asiatico. Risultato: tonnellate di anidride carbonica e altri gas serra liberati nell’atmosfera. Ma non solo: piantagioni di palma stanno degradando la zona delle torbiere indonesiane, uno straordinario magazzino naturale di CO2. Col rischio che miliardi di tonnellate custodite nel sottosuolo si riversino nell’aria. Già oggi quasi la metà dei 22 milioni di ettari di torbiere indonesiane è stata eliminata e prosciugata: è la terza causa di emissioni di gas serra del pianeta, dopo gli Usa e la Cina. E poi, oltre a fare merendine e altri prodotti alimentari, l’olio di palma è particolarmente indicato per l’utilizzo energetico, per diventare biodiesel o combustibile per centrali elettriche.

Le stime dicono che la domanda raddoppierà entro 20 anni, e triplicherà entro il 2050. Intanto nuove piantagioni sorgono dall’Africa all’America Latina. In tutto questo l’Italia gioca un ruolo di primo piano. Con oltre 40mila tonnellate (10mila in più rispetto al 2006) il nostro Paese si è confermato nel 2007 terzo importatore europeo di olio di palma, soprattutto da Papua Nuova Guinea e Indonesia, un po’ meno dalla Malesia (dati Istat). L’85% è finito all’industria alimentare, e infatti la palma è dappertutto. C’è olio di palma in tutte le bottiglie rosse di olio per friggere, nella “croissanteria” e nelle margarine, nel Kitkat e nelle Pringles. Usano olio di palma la maggior parte delle friggitorie che vendono patatine e fritti vari e tutta la panificazione pronta, quella da scaldare, tipica dei bar. Il più grande importatore (e raffinatore) di olio di palma è la Unigrà di Conselice (Ra), che oggi raffina oli e grassi e produce margarine, semilavorati in polvere, cioccolato e surrogato, creme vegetali. Al secondo posto, la Ferrero, quella della Nutella. Altri grandi consumatori sono Barilla e Bauli, questa, specie dopo l’acquisizione della Casalini, uno dei maggiori produttori italiani di merendine.

L’Autocertificazione Etica delle multinazionali

Unilever, Nestlé, Kraft e Procter&Gamble: i colossi dell’industria alimentare sono responsabili della conversione di oltre il 1,4 milioni di ettari della foresta di Riau, nell’isola di Sumatra, in palmeti per la produzione di olio da cucina. Da sola, Unilever ne usa 1,2 milioni di tonnellate l’anno, il 4% della produzione mondiale (28 milioni di tonnellate: è l’olio più prodotto dopo quello di soia). Finisce nella margarina Flora, nel formaggio Philadelphia o nelle Pringles. Il mercato dell’olio di palma è controllato da una manciata di aziende: Cargill, Adm-Kuok-Wilmar e Synergy Drive. Per far fronte alle critiche hanno dato vita al RSPO (Roundtable on Sustainable Palm Oil): ne fanno parte 219 membri, che rappresentano il 40% del mercato. Per l’Italia sono presenti Ferrero e Unigrà. Anche se al tavolo partecipano anche 18 ong, nella pratica si tratta di un organismo di autocertificazione, dove controllore e controllato coincidono. Il rapporto di Greenpeace “Come ti friggo il clima” dimostra che, a causa della crescente domanda sul mercato internazionale di olio di palma, le più grandi industrie alimentari, cosmetiche e di biocarburanti distruggono le torbiere e foreste pluviali indonesiane, mandando il clima del pianeta a farsi friggere. Alle stesse conclusioni sono arrivati gli scienziati del Comitato intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc) dell’Onu. Le piantagioni di olio di palma indonesiane soddisfano le richieste del mercato globale di olio vegetale a poco prezzo da utilizzare nella produzione di cibo, cosmetici e carburanti.

Olio di palma: business devastante per foreste e oranghi

L’approvvigionamento di olio di palma certificato proveniente da piantagioni controllate è cresciuto sensibilmente rispetto ai dati 2009, ed è attualmente pari a 5 milioni di tonnellate, rappresentando il 10 per cento della produzione mondiale di olio di palma. Ma ancora oggi, come nel 2009, solo la metà dell’olio di palma sostenibile prodotto viene effettivamente venduto. Con il Palm Oil Buyers’ Scorecard WWF 2011 – un aggiornamento del report pubblicato la prima volta nel 2009 – si monitorano oltre 130 produttori e distributori illustrando il loro impegno futuro e l’utilizzo attuale di olio di palma certificato, secondo gli standard internazionalmente riconosciuti della RSPO (source).

A livello internazionale hanno raggiunto i punteggi più alti sull’utilizzo di olio di palma sostenibile imprese come Unilever, IKEA, Tesco, Findus, L’Oréal o Body Shop, dimostrando che per le aziende assumere un impegno significativo è possibile, indipendentemente dalla quantità di prodotto che utilizzano. Noi italiani non ne veniamo fuori affatto bene. Spiega Massimiliano Rocco, Responsabile Foreste del WWF Italia: Il WWF chiede a tutte le aziende del mercato, e per l’Italia in particolare a Ferrero e Barilla che hanno scelto di aderire a questo processo di valutazione globale, di rafforzare il percorso intrapreso per migliorare le proprie performance dando anche un segnale di attivazione sul tema della trasparenza. Se chiediamo ai coltivatori di agire con responsabilità, è necessario che le aziende che acquistano olio di palma dichiarino chiaramente le quantità di prodotto che utilizzano e utilizzeranno in futuro. Solo così sarà possibile orientare il mercato dell’olio di palma verso la sostenibilità.

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Dopo una durissima campagna di Greenpeace contro la distruzione dell’habitat naturale degli oranghi, Nestlé aveva annunciato nel 2010 che non userà più prodotti che provengono dalla distruzione delle ultime foreste del Sud Est Asiatico. Nestlé si è impegnata a identificare, e a escludere dalla sua filiera, quei fornitori che sono proprietari o gestiscono “piantagioni ad alto rischio o legati alla deforestazione”. Questa esclusione si applica in particolare ad aziende come Sinar Mas, il più noto produttore di olio di palma e carta dell’Indonesia e ha implicazioni anche per quei commercianti di olio di palma, come Cargill, che continuano a comprare da Sinar Mas. La decisione di Nestlé è un chiaro messaggio al campione della deforestazione Sinar Mas e a tutto il comparto delle industrie dell’olio di palma e della carta: la distruzione delle ultime foreste tropicali non può essere accettata dal mercato globale. Per disinnescare l’eco-bomba Indonesia, Greenpeace si pone l’obiettivo di una moratoria sulla conversione delle ultime torbiere indonesiane e dell’elaborazione di standard per la coltivazione di palma da olio che possano davvero essere considerati sostenibili sia da un punto di vista ambientale sia da un punto di vista sociale.

Dal 2000 le esportazioni dall’Indonesia sono cresciute del 244%. Le multinazionali si riparano dalle accuse di Greenpeace dietro il debole scudo della RSPO, presieduta da Jan Kees Vi di Unilever e creata con l’obiettivo di “promuovere lo sviluppo e l’uso sostenibile dell’olio di palma”. Ma non è abbastanza. Le ricerche sul campo, infatti, rivelano che gli affari dei membri della Rspo dipendono da fornitori attivamente implicati nella deforestazione e conversione agricola delle foreste torbiere, e fino a quando la Rspo non inserirà tra i propri standard il divieto ai propri membri di convertire aree di foreste e torbiere in piantagioni la loro certificazione non potrà essere considerata in alcun modo sostenibile.

Ma è nel campo energetico che le cose si muovono di più. Oggi in Italia esistono poche centrali elettriche che bruciano olio di palma, ma le previsioni sulla crisi petrolifera e l’aumento dei consumi hanno spinto in molti a investire sugli impianti di questo tipo. In progetto ci sono non meno di 25 centrali in tutta Italia, e alcune sono già in corso di realizzazione. Sul business si sono lanciati in molti, a partire dalla Unigrà, che ha in progetto una centrale a Conselice. Un altro impianto è quello di Monopoli, progetto della Casa olearia italiana, oleificio del gruppo Marseglia, già grande importatore alimentare. Tra i vari nomi spunta quello della Fri-el, azienda che appartiene ai tre fratelli altoatesini Ghostner. Fri-el è nata investendo nell’idroelettrico, per passare poi all’eolico. Cinque anni fa l’intuizione: buttarsi sull’olio. Una prima centrale è in via di realizzazione ad Acerra (sì, quella dell’inceneritore), avrà una potenza di 70 MW – non poco per essere una centrale a biomassa-  e dovrebbe essere operativa entro un anno e mezzo. È solo il primo di una decina di impianti in progettazione, la cui convenienza è strettamente legata al meccanismo italiano di incentivazione delle fonti rinnovabili. Perché l’olio di palma è una fonte rinnovabile e da noi i cosiddetti “certificati verdi”, cioè i soldi che lo Stato versa a un’azienda in funzione dell’energia pulita prodotta, valgono il triplo della media europea. Per questo un impianto, che costa circa un milione di euro a MW, si ripaga velocemente e fa guadagnare molto. Nessuna distinzione viene fatta sulla provenienza del combustibile: anche se l’olio di palma arriva dall’altra parte del mondo, e contribuisce alla distruzione delle foreste indonesiane, è una fonte rinnovabile da premiare. Non importa se le palme sottraggono terra all’agricoltura destinata all’alimentazione umana. I fratelli Ghostner hanno anche investito in piantagioni: Congo, Malesia, Indonesia; in Romania hanno già piantato 10mila ettari di palme, in Etiopia sono pronti i primi 2mila (e hanno una concessione per 60mila); in Gabon c’è un progetto da 100mila ettari. Un’altra grande centrale da 90 MW della Fri-el dovrebbe sorgere a Grosseto, ma tardano le autorizzazioni. Anche perché lo scorso anno la Regione Toscana ha approvato una mozione che pone una moratoria su impianti di questo genere. L’unico che di sicuro si farà sarà a Piombino: 22 MW, l’azienda è la Seca dell’imprenditore Bruno Pietrini. Il panorama si completa con la Miro Radici, che ha invece in programma la costruzione di un impianto (il primo di quattro) a Martignana Po, mentre la famiglia Clivati di Bergamo, che fa tubi a Suisio e a Oliveto Citra (Sa), vuole realizzare un impianto a olio a Ottana, nel nuorese. Il futuro dell’olio di palma è scritto. La crescita della domanda ne ha fatto impennare i prezzi, raddoppiati in un anno. Solo chi si è assicurato negli scorsi anni la fornitura, o produce in proprio, è però sicuro dell’investimento. Il clima non è una voce del conto.

Fonti:


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