di Claudio Bertolotti
Non posso nascondere la mia preoccupazione
in merito ai recenti sviluppi "siriani" e alla volontà tutta
statunitense di punire - a prescindere da oggettive responsabilità - il
regime del presidente della Siria Bashar al-Assad, sostenendo
(in)direttamente i gruppi di opposizione armata siriani, tra i quali
radicali jihadisti stranieri e reduci delle guerre di Iraq, Afghanistan,
Libia, ecc... Interessi politici di parte e un
inquietante approccio sbrigativo lasciano trasparire i pericoli di un
intervento militare in Siria; detto in altri termini, il pericolo di una
guerra che potrebbe allargarsi a livello regionale (e oltre) provocando
migliaia di morti. Ripropongo l'aggiornamento di pensiero già espresso
in altra sede alcune settimane fa, riconfermando ancora una volta la mia totale avversione all'intervento armato unilaterale degli Stati Uniti ai danni della Siria
(pronto invece a discutere l'opportunità di un impegno anche militare
contro quelle forze - governative o di opposizione - che si fossero
dimostrate responsabili dell'utilizzo di armi chimiche).
Mi occupo prevalentemente di guerra afghana; oggi parlerò di un'altra guerra, quella siriana. Una guerra civile che, iniziata con una protesta anti-governativa nel marzo del 2011, ha provocato la morte di 100.000 persone e la fuga di oltre un milione di civili.
La guerra in Siria è in parte combattuta da gruppi di
opposizione armata siriani, sebbene sia accertata una significativa componente
di ribelli stranieri e proprio su questi ultimi potrebbe cadere il sospetto di aver
utilizzato contro inermi civili (tra cui donne e bambini)
il gas nervino.
È di alcuni mesi fa la notizia dell’assenza di prove nell’utilizzo
di armi chimiche da parte del governo siriano. Alcune testimonianze raccolte dagli
ispettori delle Nazioni Unite tra la popolazione civile e le stesse vittime hanno già in passato confermato
la mano dei ribelli, e non del regime siriano di Bashar al-Assad, dietro
il possibile utilizzo del gas nervino Sarin.
Non
si tratta di un’informazione non controllata o parziale, delle tante
che si sono alternate sul web e successivamente riprese dai media
nazionali e internazionali, bensì l’ammissione di un alto diplomatico delle Nazioni Unite (Reuters,
The
Washington Times).
Carla del Ponte, membro della
Commissione internazionale indipendente
d'inchiesta dell’Onu sulla Siria (U.N. Independent
International Commission of Inquiry on Syria) e già a capo del tribunale
dell’Onu per i crimini di guerra in Jugoslavia e Ruanda, ha dichiarato alcuni mesi fa alla TV svizzera che «ci
sono forti sospetti, ma non ancora prove incontrovertibili, che i ribelli abbiano utilizzato il gas nervino» con l’intento di
riversare la responsabilità dell’atto sul governo siriano –
così da indurre le potenze occidentali, Stati Uniti e Gran Bretagna in testa (e
Francia in coda) ad accelerare un possibile intervento militare, in queste ore
da più parti paventato.
Intanto, facendo seguito dell'ispezione tecnica da parte di specialisti dell'Onu del 26 agosto, il segretario di stato americano
John Kerry ha accusato il regime siriano di aver "sistematicamente
distrutto le prove" nell'area in cui sarebbe avvenuto l'attacco, "un
atteggiamento", ha proseguito Kerry "che non è quello di un governo che
non ha nulla da nascondere" (CBS News); con ciò giustificando il probabile intervento militare, sebbene in assenza di prove.
Una
razionale scelta politica, dunque, potrebbe essere
dietro alla vicenda dell’utilizzo di un arma di distruzione di massa (il
Sarin)
contro la popolazione civile, non escludendo responsabilità da parte
dell’opposizione armata siriana, verosimilmente (ma questo è da
verificare) una delle fazioni maggioritarie
fortemente ideologizzate e radicali in qualche modo collegate
all’organizzazione
transnazionale qaedista.
Louay Almokdad, portavoce di uno dei gruppi ribelli, nega
che da parte del Free Syrian Army siano
state utilizzate armi chimiche, questo anche per ragioni di impossibilità
pratica, ossia la disponibilità di vettori di lancio. Ma il Free Syrian Army è solamente uno dei
tanti e incontrollati gruppi di opposizione armata impegnati nel tentativo di
abbattere gli al-Assad. Ma il fatto che qualche gruppo ribelle - e non le forze governative siriane -
possa aver utilizzato armi chimiche, sebbene non ancora confermato, non
stupisce.
Rimane inspiegabile perchè le forze governative avrebbero avuto
bisogno di utilizzare armi chimiche in un momento in cui avevano il
vantaggio sul campo di battaglia, provocando poche vittime tra
i ribelli e molte tra i civili. Rimane difficile comprendere il senso di una simile iniziativa.
Preoccupa, poi, l’approccio radicale e ideologico di
alcune fazioni ribelli, per lo più elementi esogeni non siriani – per questo
non legati al “territorio” sociale e culturale siriano.
E non stupisce l’effetto emotivo che ha investito l’opinione pubblica
globale, conseguenza del sapiente utilizzo dell’«informazione 2.0» (web, social
network in primis), dei
media
tradizionali e del processo di amplificazione massmediatica, che
avrebbero consentito ai governi di prendere posizione, sostenuti dal
pensiero generale e
diffuso ma pericolosamente lontano da un approccio razionale e
lungimirante
volto a risolvere la guerra siriana: l'emozione si è sostituita alla
ragione, consentendo ai principali attori pro-intervento di perseguire
propri obiettivi e agende nascondendoli dietro il velo dell'aiuto
umanitario.
Gli Stati Uniti, inizialmente sostenuti anche dalla Gran Bretagna, si sono riservati di valutare un
intervento militare, prevalentemente aereo, mentre una consistente flotta
navale delle due potenze è già operativa nel Mediterraneo. Ma l’esperienza “politico-militare”
presa in maniera assai infelice a modello dagli Stati Uniti di Obama è quella
che portò l’allora presidente Clinton a intervenire nella guerra in Kosovo, nel
1999 (allora come oggi, nonostante l'opposizione della Russia).
A distanza di 14 anni da quella scelta i problemi kosovari non sono risolti,
nonostante una presenza continua di truppe della Nato; con ogni probabilità non
lo sarà quella siriana, ben più complessa a caratterizzata da equilibri interni
assai più fragili di quelli kosovari (e Jugoslavi ) degli anni Novanta.
E se il
ministro degli esteri Emma Bonino ha bollato come non
praticabile un intervento militare in Siria senza la copertura legale del Consiglio
di sicurezza dell'Onu, il Presidente del Consiglio Letta, in
seno alla riunione dei G20 del 6-7 settembre, ha formalmente aderito
alla condanna nei confronti della Siria per l'utilizzo di armi chimiche
(senza però una conferma ufficiale, nè una prova concreta) e inviato due
navi da guerra al largo del Libano (ufficialmente per la sicurezza del
contingente miliatre italiano li schierato); tutto sembra muoversi verso
un'azione offensiva e punitiva.
Ma un intervento militare unilaterale degli
Stati Uniti (e dei suoi alleati, della Nato e non) non sarebbe una scelta
razionale, risolutiva, bensì sbagliata, miope, che
precipiterebbe la Siria in una situazione certamente non migliore di quella
afghana, irachena, libica, paesi accomunati dalla politica dell’intervento
armato statunitense (e occidentale in genere).Considerati
i divergenti interessi dei Paesi che sostengono i ribelli, l’invasione
agevolerebbe l'espansione dei gruppi radicali jihadisti a livello
regionale e contribuirebbe alla
frammentazione del Paese - così come accaduto in Iraq.
I paesi della
Nato, così come quelli arabi del Golfo - ad esclusione
dell'Iraq - auspicano uno scenario caratterizzato da un Iran privato del
sostegno siriano, (benchè paradossalmente l'Iraq post-Saddam si sia
avvicinato a proprio a Teheran). Nel conteggio degli svantaggi di un
intervento militare in Siria vanno
poi ad aggiungersi il rischio di una destabilizzazione a livello regionale, conseguenza
del possibile allargamento del conflitto (Libano, Iran, Israele), e la frattura
dei già incerti equilibri internazionali nelle relazioni diplomatiche tra Stati
Uniti, Cina e Russia; quest'ultima fermamente impegnata a contrastare un'azione unilaterale di Washington.
Bashar al-Assad
dovrà lasciare, questo è assai probabile, ma il
sostegno indiscriminato (così come quello indiretto) ai gruppi di
opposizione armata va evitato, così come
il ricorso a un frettoloso e dubbio – benché mediaticamente appagante –
“ricorso ai principi della libertà e della democrazia” limitato a un
mero esercizio elettorale (e i paesi
travolti dalla primavera araba ne sono un esempio, Egitto in primis). La ricetta da seguire per il processo di risoluzione
della guerra siriana? Pochi e certamente non semplici (ma necessari) passi:
1. Cessate il
fuoco generale,
2. disarmo condiviso
delle parti contrapposte e
3. contemporaneo
(e condiviso) schieramento di una forza neutrale di interposizione tra le parti con mandato delle
Nazioni Unite, seguito da una
4. transizione
morbida verso un governo di transizione in grado di mantenere in essere gli instabili
e precari equilibri etno-politico-confessionali siriani.
Non
sarà facile, ma è pur sempre meglio tentare piuttosto che contribuire,
attraverso un intervento armato unilaterale, all’involontario suicidio
di massa
del popolo siriano, della sua cultura, delle sue ricchezze materiali e
immateriali. A ciò si unisce il rischio della conseguente, e probabile,
incrinatura degli equilibri diplomatici e delle relazioni internazionali
così come le conosciamo oggi. Una soluzione basata sulla guerra può
sembrare la più efficace, è invece un errore strategico dalle
conseguenze non prevedibili e incontrollabili.
articolo pubblicato il 26 agosto 2013 e aggiornato il 7 settembre
vai all'articolo originale
Magazine
Oltre l'Afghanistan... Siria: cosa c'è dietro all’attacco chimico di Damasco?
Creato il 26 agosto 2013 da AsaI suoi ultimi articoli
-
Afghanistan: Obama ci ripensa. E anche Renzi (L'INDRO)
-
La frammentazione del fronte insurrezionale afghano: da guerra di liberazione nazionale a jihad globale? (CeMiSS 8/2015)
-
Verso una nuova fase della guerra in afghanistan: la competizione per il potere nell’epoca post mullah omar
-
La ricerca di una nuova strategia per l’Afghanistan: l’ufficio politico dei taliban e lo scontro militare. Quattro ipotesi di scenari futuri (CeMiSS)