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Omero e la Musa

Creato il 26 agosto 2010 da Bruno Corino @CorinoBruno

Omero e la Musa
Omero (o chi per lui) al principio dell’Odissea invoca la Musa al fine di narrargli gli eventi della storia. Ebbene, questo tipo di invocazioni di solito non vengono prese molto sul serio, e sono scambiate come formule di circostanze o come auguri affinché la narrazione vada a buon fine. In realtà, queste invocazioni dovrebbero essere interpretate alla lettera: il poeta deve narrare fatti e personaggi che non ha mai visto o conosciuto di persona. Il poeta si pone come un narratore/esterno, cioè come un personaggio che non ha vissuto personalmente gli eventi narrati. Quindi, la storia narrata deve averla ascoltata o da un agente/interno o da un agente diretto. Siccome i personaggi che interagiscono sulla scena sono tanti, egli non poteva averla appresa da un solo agente/interno o diretto. Se l’avesse appresa da uno o più agenti/interni o diretti, allora il poeta doveva temporalmente essere contemporaneo dei protagonisti. Collocando la storia in un’epoca remota, è escluso che il poeta sia contemporaneo dei protagonisti.
Inoltre, in questa narrazione sono presenti addirittura dialoghi tra gli dei, dialoghi che si svolgono nella sede celeste degli dei. Se un mortale riferisse di persona questi dialoghi, come se si fossero svolti davanti a lui, il poeta si troverebbe nella posizione di un osservatore/diretto, ossia nella posizione di chi ha osservato direttamente come dei si comportano. Il poeta quindi peccherebbe di presunzione perché si dichiarerebbe capace elevarsi sino al punto di poter stare in mezzo agli dei. Invece, invocando la Musa con quel “Narrami, o Musa”, il poeta diventa un ascoltatore/indiretto che ascolta ciò che la Musa, osservatore/diretto, ha visto e sentito personalmente. Quindi, a narrare la storia al poeta è la Musa stessa, e la narra come narratore/diretto. Il poeta la narra come un narratore indiretto.
La Musa, grazie ai suoi poteri divini e quindi eccezionali, può essere presente in ogni luogo fisico e psichico. Gli dei, si ripete più volte nel poema, sono coloro che tutto sanno. Insomma, la Musa può essere un osservatore/onnipresente ed onnisciente, può essere in tanti posti diversi, ma anche leggere i pensieri negli uomini, l’animo di Telemaco o di Penelope, ecc. perché è un essere divino. Dopo di che, per mezzo dell’“ispirazione”, può penetrare nell’animo del poeta, ossia di altri esseri speciali ma mortali, e cominciare a narrare ciò che lei ha visto o sentito: «Proprio in rapporto all’idea, secondo la quale il poeta non concepisce se stesso come creatore autonomo ma come il depositario di un “patrimonio” culturale appreso dall’esterno, si definisce il concetto di ispirazione divina, quasi che il fare poetico non sia attribuibile al singolo cantore, ma discenda direttamente dall’intervento della divinità preposte al suo canto, le Muse o Mnemosyne (la Memoria)» (Gentili, 2006, p. 23).
Come il poeta, anche noi ascoltiamo la storia di Odisseo come se la sentissimo dalla voce di una divinità, sempre presente agli eventi. Nel lungo racconto che Odisseo fa alla corte dei Feaci, Odisseo, quando narra le sue peregrinazioni, si trasforma in un narratore/interno, che ha vissuto direttamente gli eventi narrati, mentre gli abitanti dell’isola dei Feaci sono ascoltatori/esterni; rispetto al suo pubblico che ascolta le sue avventure, Odisseo ha molte più informazioni per aver vissuto direttamente ciò che narra. In questo racconto, il narratore/interno riporta a un certo punto un dialogo Padre Zeus e Helios, in cui quest’ultimo chiede di punire i compagni di Odisseo per aver ucciso le vacche sacre. Ebbene, alla fine di questo dialogo il narratore/interno, essendo un “mortale”, si premura di precisare che questo dialogo l’ha udito da Calipso, la quale «diceva d’averlo saputo a sua volta da Ermete, il messaggero» (Odissea, XII, 389-390).
L’ascoltatore rappresenta per il narratore il suo interlocutore complementare. La figura del lettore è nata soltanto con l’introduzione della scrittura. Voglio dire, quando un tempo le storie erano raccontate oralmente, sia il fabulatore che l’ascoltare dovevano necessariamente essere compresenti. Quando la mediazione tra la divinità e il poeta salta, nasce la figura del narratore onnisciente e onnipresente: da un lato come narratore si pone all’esterno alla materia narrata, dall’altro – in quanto in grado osservare direttamente tutto ciò che i personaggi fanno e pensano, di leggere nei loro pensieri, di descrivere i più segreti moti dell’animo, di penetrare nei loro sentimenti, di vedere cosa accade tra le pareti domestiche come se queste fossero trasparenti – si pone come un osservatore/onnisciente. Questa capacità onniscienza tradisce la vocazione metafisica del narratore.


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