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Oscar Wilde – Il ritratto di Dorian Gray 10

Creato il 02 settembre 2012 da Marvigar4

wilde vignolo

Capitolo X

   Quando il maggiordomo entrò, lo scrutò in viso e si chiese se gli fosse venuto in mente di sbirciare dietro il paravento. L’uomo era del tutto impassibile e attendeva i suoi ordini. Dorian si accese una sigaretta e andò allo specchio dandogli una occhiata. Poteva vedere il riflesso del volto di Victor perfettamente. Somigliava a una maschera placida di servilismo. Non c’era niente di cui avere paura. Eppure penso che fosse meglio stare in guardia.
   Parlando molto lentamente, gli disse di riferire alla governante che voleva vederla, e poi di andare dal corniciaio per chiedergli mandare subito due dei suoi uomini. Gli sembrò che nel lasciare la stanza l’uomo avesse rivolto lo sguardo in direzione del paravento. O era soltanto una sua fantasia?
   Dopo poco, vestita col suo abito di seta nero, con le muffole di filo fuori moda sulle sue mani rugose, Mrs. Leaf irruppe nella biblioteca. Le chiese la chiave dello studio.
   «Il vecchio studio, Mr. Dorian?» esclamò la donna. «Ma è pieno di polvere. Dovrò sistemarlo e riordinarlo prima che lei ci entri. È bene che non lo veda così, signore. No davvero.»
   «Non voglio riordinarlo, Leaf. Voglio solo la chiave.»
   «Bene, signore, si riempirà di ragnatele se ci entra. Perché sono quasi cinque anni che è chiuso – da quando è morta sua signoria.»
   Trasalì a sentire nominare suo nonno. Aveva ricordi pessimi di lui. «Non importa» rispose. «Voglio semplicemente vedere la stanza – tutto qua. Mi dia la chiave.»
   «Ecco la chiave, signore» disse la donna anziana, passando in rassegna il mazzo di chiavi con mani tremanti e incerte. «Ecco la chiave. La tolgo subito dal mazzo. Ma non pensa mica di andare a vivere lassù, signore, con tutte le comodità che ha qui?»
   «No, no» esclamò con petulanza. «Grazie, Leaf. Va bene così.»
   La donna indugiò qualche minuto ciarlando su alcuni dettagli della casa. Il ragazzo sospirò e le disse di fare come meglio credeva. La governante lasciò la stanza, tutta un sorriso.
   Quando la porta si chiuse, Dorian mise la chiave in tasca e guardò in lungo e in largo la stanza. Gli cadde l’occhio su un grande copriletto di raso purpureo pesantemente ricamato in oro, uno splendido pezzo del tardo diciassettesimo secolo veneziano che suo nonno aveva trovato in un convento vicino Bologna. Sì, sarebbe servito ad avvolgerci quell’orribile cosa. Forse era servito spesso come drappo funebre. Adesso doveva occultare qualcosa che aveva in sé la propria corruzione, peggio della corruzione della morte stessa – qualcosa che avrebbe generato orrori e che non sarebbe mai morto. Quello che il verme era per il cadavere, i suoi peccati sarebbero stati per l’immagine dipinta su tela. Avrebbero deturpato la sua bellezza e divorato la sua grazia. L’avrebbero sfigurata e resa obbrobriosa. Eppure quella cosa avrebbe continuato a vivere. Sarebbe stata sempre viva.
   Rabbrividì, e per un istante si pentì di non aver detto a Basil la vera ragione per cui aveva voluto nascondere il quadro. Basil lo avrebbe aiutato a resistere all’influenza di Lord Henry, e alle influenze ancor più venefiche della sua propria indole. L’amore che gli portava – perché era davvero amore – non aveva nulla in sé che non fosse nobile e intellettuale. Non era quella mera ammirazione fisica della bellezza che nasce dai sensi e muore quando i sensi sono stanchi. Era un tipo di amore come Michelangelo, Montaigne, Winckelmann, e lo stesso Shakespeare avevano conosciuto. Sì, Basil avrebbe potuto salvarlo. Ma era troppo tardi ormai. Il passato si poteva sempre annientare. Il rimpianto, la negazione, o l’amnesia avrebbero potuto farlo. Ma il futuro era inevitabile. C’erano passioni in lui che avrebbero trovato il loro terribile sfogo, sogni che avrebbero reso reale l’ombra della loro malvagità.
   Prese dal divano il grande tessuto di porpora e d’oro che lo ricopriva e, tenendolo nelle mani, oltrepassò il paravento. Il volto sulla tela era più disgustoso di prima? Gli sembrò che non fosse cambiato, eppure il ribrezzo che gli suscitava s’intensificò. Capelli d’oro, occhi azzurri e labbra rosse come una rosa – era tutto lì. Era semplicemente l’espressione ad essersi alterata. Era orribile nella sua crudeltà. A paragone della condanna e della disapprovazione che vi vedeva, come erano state superficiali le rampogne di Basil su Sibyl Vane! – superficiali e di poco conto! La sua anima lo stava guardando dalla tela e lo chiamava a giudizio. Un’espressione di dolore lo invase, e scagliò sul quadro il drappo prezioso. Non appena lo ebbe fatto, bussarono alla porta. Uscì da dietro il paravento mentre il domestico entrava.
   «Gli inservienti sono qui, Monsieur
   Sentiva di doversi sbarazzare di Victor. Non doveva permettere di sapere dove sarebbe stato portato il quadro. C’era un che di scaltro in lui, e aveva uno sguardo pensieroso, infido. Sedendo alla scrivania scarabocchiò un biglietto per Lord Henry, chiedendogli di mandargli qualcosa da leggere e di ricordarsi che quella sera si dovevano vedere alle otto e un quarto.
   «Aspetta la risposta,» disse Dorian porgendogli il biglietto, «e porta qui gli uomini.»
   Dopo due o tre minuti bussarono di nuovo, e Mr. Hubbard in persona, il famoso corniciaio di Audley Street, entrò con un giovane assistente dall’aspetto un po’ rozzo. Mr. Hubbard era un ometto in carne, con le basette rossicce, la cui ammirazione per l’arte era considerevolmente temperata dall’inveterata mancanza di soldi della maggioranza degli artisti che avevano a che fare con lui. Di regola, non lasciava mai il negozio. Aspettava che la gente venisse da lui. Ma faceva sempre un’eccezione per Dorian Gray. C’era qualcosa in Dorian che incantava tutti. Era un piacere persino vederlo.
   «Cosa posso fare per lei, Mr. Gray?» disse, sfregandosi le grasse mani lentigginose. «Pensavo di concedermi l’onore di venire personalmente da lei. Ho giusto acquistato una cornice che è una bellezza, signore. Presa a un’asta. Stile fiorentino antico. Proveniva da Fonthill, credo. Stupendamente adatta per un soggetto religioso, Mr. Gray.»
   «Mi dispiace tanto che si sia data la pena di venire, Mr. Hubbard. Passerò certamente al negozio a dare un’occhiata alla cornice – anche se al presente non m’interessa molto l’arte religiosa – ma oggi vorrei solo portare un quadro all’ultimo piano. È piuttosto pesante, così ho pensato di chiederle di prestarmi un paio dei suoi uomini.»
   «Nessuna pena assolutamente, Mr. Gray. Sono felice di esserle utile in qualche modo. Dov’è l’opera d’arte, sir?»
   «Questa» replicò Dorian, scostando il paravento. «Può spostarla, coperta e tutto, così com’è? Non vorrei che si scalfisse salendo le scale.»
   «Nessuna difficoltà, sir» disse il gioviale corniciaio, iniziando, con l’aiuto del suo assistente, a sganciare il quadro dalla lunga catena d’ottone a cui era appeso. «E adesso, dove lo dobbiamo portare, Mr. Gray?»
   «Le mostrerò la strada, Mr. Hubbard, se vuole gentilmente seguirmi. O forse sarebbe meglio che andiate avanti voi. Temo sia proprio all’ultimo piano della casa. Saliremo per lo scalone d’ingresso, che è più largo.»
   Tenne loro aperta la porta, passarono per l’ingresso e cominciarono a salire. Lo stile elaborato della cornice aveva reso il ritratto estremamente massiccio, e ogni tanto, nonostante le ossequiose proteste di Mr. Hubbard, che da commerciante provetto non amava vedere un gentleman fare qualcosa di utile, Dorian dava loro una mano per aiutarli.
   «È un bel peso da portare, sir» sbuffò l’ometto arrivati all’ultimo pianerottolo. E si asciugò la fronte lucida.
   «Ho paura che sia un po’ pesante» mormorò Dorian apprendo la porta della stanza che avrebbe custodito il singolare segreto della sua vita e nascosto la sua anima agli occhi degli uomini.
   Non entrava in quel posto da più di quattro anni – cioè da quando l’aveva usato prima come stanza dei giochi quando era bambino, e poi come studio una volta diventato più grande. Era una stanza ampia, ben proporzionata, costruita appositamente dall’ultimo Lord per il suo nipotino, il quale, per la sua strana somiglianza con la madre, e anche per altri motivi, l’aveva sempre odiata e desiderato tenere a distanza. A Dorian sembrò solo un po’ cambiata. C’era l’enorme cassone italiano, con i suoi pannelli fantasticamente dipinti e le modanature di oro brunito, in cui spesso si era nascosto da bambino. C’era la libreria in legno d’oriente piena dei suoi libri di scuola con le orecchie. Alla parete dietro era appeso lo stesso logoro arazzo fiammingo dove un re e una regina sbiaditi giocavano a scacchi in un giardino, mentre una compagnia di falconieri passava vicino, portando sui pugni guantati gli uccelli incappucciati. Come ricordava bene tutto! Ogni momento della sua infanzia solitaria gli tornò in mente a guardarsi intorno. Ricordò la purezza immacolata della sua vita di ragazzo, e gli sembrò orribile proprio qui dovesse essere nascosto il ritratto fatale. Quanto poco aveva pensato, in quei giorni morti, a tutto quello che era in serbo per lui!
   Ma nella casa non c’era un altro luogo come questo così al sicuro da sguardi indiscreti. Aveva la chiave, e nessun altro poteva entrarci. Sotto il drappo purpureo, il volto dipinto sulla tela poteva diventare bestiale, fradicio e impuro. Che importava? Nessuno poteva vederlo. Lui stesso non l’avrebbe visto. Perché avrebbe dovuto osservare la raccapricciante corruzione della sua anima? Lui conservava la sua giovinezza – questo bastava. E inoltre, la sua natura non avrebbe potuto diventare più bella, dopo tutto? Non c’era motivo perché il futuro dovesse essere così pieno di vergogna. Un amore poteva entrare nella sua vita e purificarlo, e difenderlo da quei peccati che sembravano essere già in agitazione nello spirito e nella carne – quei peccati curiosi e non delineati il cui vero mistero arrecava loro la sottigliezza e il fascino. Forse, un giorno, lo sguardo crudele sarebbe scomparso dalla bocca scarlatto e sensuale, e lui avrebbe potuto mostrare al mondo il capolavoro di Basil Hallward.
   No, era impossibile. Di ora in ora, e di settimana in settimana, la “cosa” sulla tela sarebbe invecchiata. Forse avrebbe fuggito l’orrore del peccato, ma quello dell’età era lì che lo aspettava. Le guance sarebbe diventate infossate o flaccide. Gialle zampe di gallina sarebbero avanzate intorno agli occhi smorti rendendoli orribili. I capelli avrebbero perso la lucentezza, la bocca si sarebbe spalancata o afflosciata, diventando demente o volgare, come sono le bocche dei vecchi. E il collo sarebbe stato grinzoso, le mani fredde e piene di vene bluastre, il corpo curvo, che ricordava nel nonno così severo con lui nella sua infanzia. Il ritratto doveva essere nascosto. Non c’era scampo.
   «Lo porti dentro, Mr. Hubbard, per favore» disse stancamente, voltandosi.
   «Mi scusi se l’ho trattenuto a lungo. Stavo pensando ad altro.»
   «È sempre un piacere riposare, Mr. Gray» rispose il corniciaio, che ansimava ancora. «Dove dobbiamo metterlo, sir?»
   «Oh, dove vuole. Qui: qui va bene. Non voglio appenderlo. Lo appoggi solo alla parete. Grazie.»
   «Si potrebbe dare un’occhiata all’opera, sir?»
   Dorian trasalì. «Non la interesserebbe, Mr. Hubbard» disse tenendo gli occhi sull’uomo. Era pronto a balzargli addosso e buttarlo a terra se avesse osato sollevare quella splendida stoffa che occultava il segreto della sua vita. «Non voglio più disturbarla ancora adesso. Le sono molto grato per la sua gentilezza nel venire qui.»
   «Non c’è di che, non c’è di che, Mr. Gray. Sempre pronto al suo servizio, sir.» E Mr. Hubbard scese con passo pesante le scale, seguito dall’assistente, che si voltò a guardare Dorian con un’espressione timida meraviglia sul viso rozzo e sgraziato. Non aveva mai visto nessuno così meraviglioso.
   Quando il rumore dei loro passi si dileguò, Dorian chiuse la porta e mise la chiave in tasca. Ora si sentiva al sicuro. Nessuno avrebbe mai guardato l’orribile cosa. Nessun occhio se non il suo avrebbe mai visto la sua vergogna.
   Raggiungendo la biblioteca, s’accorse che erano appena passate le cinque e che il tè era già stato portato. Su un tavolino di legno scuro profumato intarsiato di madreperla, un dono di Lady Radley, moglie del suo tutore, una graziosa invalida di professione che aveva passato l’inverno precedente al Cairo, c’era un biglietto di Lord Henry e, accanto, un libro rilegato in carta gialla, la copertina leggermente logora e i bordi sporchi. Una copia della terza edizione del The St. James’s Gazette era stata messa sul vassoio. Era evidente che Victor fosse tornado. Si chiedeva se avesse incontrato gli uomini nell’ingresso mentre lasciavano la casa e gli avesse cavato di bocca che cosa avevano fatto. Di sicuro si sarebbe accorto che mancava il quadro – senza dubbio se n’era accorto già quando aveva posato il tè. Il paravento non era stato rimesso a posto, e uno spazio vuoto era visibile sul muro. Forse una notte lo avrebbe colto mentre saliva sopra furtivamente per tentare di forzare la porta della stanza. Era una cosa orribile avere una spia in casa propria. Aveva saputo di uomini ricchi ricattati per tutta la vita da servi che avevano letto una lettera, o origliato una conversazione, o scovato un biglietto con un indirizzo, o trovato sotto il cuscino un fiore appassito o una striscia di pizzo sgualcito.
   Sospirò e, versatosi del tè, aprì il biglietto di Lord Henry. Era solo per dirgli che mandava il giornale della sera, e un libro che avrebbe potuto interessargli, e che sarebbe stato al club per le otto e un quarto. Aprì languidamente The St. James’s e lo sfogliò. Un segno a matita rossa sulla quinta pagina lo colpì. Attirava l’attenzione sul seguente trafiletto:

INCHIESTA SU UN’ATTRICE.

Questa mattina alla Bell Tavern, Hoxton Road, Mr. Danby, Procuratore distrettuale, ha aperto un’inchiesta sul corpo di Sibyl Vane, una giovane attrice recentemente scritturata dal Royal Theatre, Holborn. La morte è stata dichiarata accidentale. Molta comprensione è stata espressa alla madre della scomparsa, profondamente abbattuta durante la propria deposizione e quella del Dr. Birrell, che ha eseguito l’esame postmortem della defunta.

   Aggrottò le sopracciglia e, strappato in due il giornale, attraversò la stanza per gettarlo via. Com’era brutto tutto ciò! E come la bruttezza rendeva orribilmente reali le cose! Se la prese un po’ con Lord Henry per avergli mandato la notizia. Ed era stato di certo stupido da parte sua segnarla con la matita rossa. Victor avrebbe potuto leggerla. Conosceva abbastanza l’inglese per capire. Forse l’aveva letta e cominciava a sospettare qualcosa. Eppure, che gliene importava? Che aveva a che fare Dorian Gray con la morte di Sibyl Vane? Non c’era niente di cui temere. Dorian Gray non l’aveva uccisa. Gli cadde l’occhio sul libro in carta gialla che Lord Henry gli aveva mandato.
   Il suo occhio cadde sul libro dalla copertina gialla che Lord Henry gli aveva mandato. Si chiese che cosa fosse. Andò verso il piccolo tavolo ottagonale color perla, che gli era sempre sembrato l’opera di qualche strana ape egiziana che lavorasse l’argento, e, preso il volume, si buttò su di una poltrona e iniziò a sfogliarlo. Dopo pochi minuti divenne assorto.
   Era il libro più insolito che avesse mai letto. Gli parve che, in paramenti preziosi e al suono delicato dei flauti, i peccati del mondo sfilassero davanti a lui in muta processione. Cose che aveva vagamente immaginato all’improvviso presero corpo. Cose che non aveva mai sognato gli si rivelavano gradualmente.
   Era un romanzo senza trama, con un solo personaggio, essendo in effetti soltanto uno studio psicologico di un giovane parigino, che trascorse la sua vita cercando di realizzare nel diciannovesimo secolo tutte le passioni e i sistemi del pensiero che appartennero a ogni secolo eccetto il suo, e di riassumere in sé, così com’era, le varie disposizioni d’animo attraverso le quali lo spirito del mondo era passato, amando per la loro pura artificiosità quelle rinunce che gli uomini hanno stolidamente definito virtù, come pure quelle naturali ribellioni che gli uomini saggi continuano a chiamare peccati. Lo stile in cui era scritto era il curioso stile ingemmato, vivido e oscuro insieme, pieno di argot e di arcaismi, di espressioni tecniche e di parafrasi elaborate, che caratterizza l’opera di alcuni fra gli artisti più raffinati della scuola francese dei Symbolistes. In esso c’erano metafore mostruose come orchidee, e altrettanto sottili nel colore. La vita dei sensi era descritta con il linguaggio della filosofia mistica. Si capiva difficilmente se si stava leggendo le estasi spirituali di qualche santo medievale o le morbose confessioni di un moderno peccatore. Era un libro velenoso. L’odore pesante di incenso sembrava attaccarsi alle sue pagine e danneggiare il cervello. La semplice cadenza delle sentenze, la sottile monotonia della loro musica, piena com’era di refrains complessi e movimenti ripetuti elaboratamente, produsse nella mente del giovane,
passando da un capitolo a un altro, una forma di abbandono fantastico, una malattia onirica, che lo rese inconscio del tramonto e dell’insinuarsi delle ombre.
   Senza nubi, e trafitto da un’unica stella solitaria, un cielo verde come il rame luccicava tra le finestre. Leggeva alla sua fioca luce finché non poté più leggere. Poi, dopo che il suo maggiordomo gli ricordò parecchie volte l’ora tarda, si alzò e, passato nella stanza accanto, posò il libro sul tavolino in stile fiorentino che stava sempre vicino al suo letto e iniziò a vestirsi per la cena.
   Erano quasi le nove quando giunse al club, dove trovò Lord Henry seduto da solo, nel salottino, con l’aria annoiatissima.
   «Scusami tanto, Harry,» esclamò, «ma è davvero tutta colpa tua. Il libro che mi hai mandato mi ha così affascinato che ho dimenticato che il tempo passava.»
   «Sì, pensavo che ti sarebbe piaciuto» replicò il suo ospite alzandosi dalla sedia.
   «Non ho detto che mi è piaciuto, Harry. Ho detto che mi ha affascinato. C’è una grande differenza.»
   «Ah, hai scoperto questo?» mormorò Lord Henry. E passarono nella sala da pranzo.



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