Anno: 2013
Nazionalità: Italia
Durata: 96’
Genere: Commedia
Regia: Matteo Vicino
Distribuzione: AI Entertainment
USCITA: 28/03/ 2013
Fare a meno dei soldi pubblici, potendo contare unicamente su capitali privati di produttori coraggiosi pronti a scommettere sul giovane regista di turno e su contratti di sponsorizzazione racimolati qua e là e raggiungere comunque le sale con un numero importante di copie, è quanto di più sensato e meritevole di attenzione possa esserci, specialmente in un periodo di recessione come quello che stiamo vivendo in questo momento, dove ogni centesimo risparmiato può risultare vitale. Questo non significa però che lo Stato non debba investire risorse economiche nella cultura, piuttosto che le commissioni preposte ad assegnarle le affidino a progetti davvero meritevoli. Fa piacere che tra queste non figuri Outing – Fidanzati per sbaglio, opera seconda di Matteo Vicino (ancora in ghiacciaia l’esordio Young Europe), distribuita a partire dal 28 marzo in 200 copie dalla AI Entertainment, che per la sua realizzazione non ha potuto attingere a piene mani dal portafoglio ministeriale e regionale. Non lo ha potuto fare perché evidentemente più di qualcuno non glielo ha permesso.
Resta il fatto che il film è stato portato a termine e al di là che sia riuscito oppure no, lo sforzo e la caparbietà dei produttori e di tutta le gente che vi ha lavorato vanno comunque sottolineati. Non rimane allora che restare alla finestra per vedere come risponderà il pubblico, ma nel frattempo da parte nostra ci limiteremo a giudicarlo sul piano prettamente analitico, mettendo in evidenza i pochi pregi e i tanti difetti riscontrati. Il tutto solo dopo avere messo bene in chiaro una cosa: Outing è quel tipo di film che getta letteralmente al vento lo spunto drammaturgico intorno al quale ruota l’intero plot, che a differenza del risultato finale meritava ben altro sviluppo. L’idea che due amici si fingano una coppia gay per accedere a un bando pubblico destinato alle coppie di fatto per finanziare progetti di imprenditoria è senza alcun dubbio interessante e ricca di potenzialità, nonostante gran parte di essa richiami alla mente Marito e Marito di Dennis Dugan. Anche se quella che viene messa in atto dai due protagonisti è a tutti gli effetti una truffa, in una parte del nostro inconscio finiamo con l’assolverli perché i soldi ottenuti grazie ad essa potrebbero essere ben spesi da persone sulle quali pende la spada di damocle della disoccupazione e del precariato , ma come è lecito che sia il fine non deve giustificare i mezzi. Il film di Vicino non può che condannarlo ovviamente, altrimenti sarebbe un chiaro incitamento all’emulazione, ma non ha la solidità e lo spessore necessario utile a trasferire sullo schermo il sottile equilibrio che si dovrebbe venire a creare in una storia nella quale si fronteggiano ciò che è giusto e ciò che non lo è. Questa lotta intestina nello script viene solo in minima parte raccontata, davvero troppo poco rispetto allo spazio e al ruolo che avrebbero dovuto ricoprire nel complesso. Se voleva essere una provocazione o un tentativo di trattare il tema in maniera politicamente scorretta, allora si è andati molto lontani dal bersaglio, che poi è una costante dell’intera operazione. Tra il serio e il faceto si sollevano questioni e nodi spinosi, utilizzando male le armi a disposizione della commedia.
Purtroppo come accade spesso all’idea potenzialmente vincente non corrisponde un risultato altrettanto vincente come nel caso della pellicola scritta, diretta e persino montata dal tuttofare Matteo Vicino. A lui dunque il demerito di aver curato l’intera filiera creativa, lasciando germogliare sin dal processo di scrittura le basi instabili di una commedia degli equivoci che prova a veicolare attraverso la risata, che si materializza sulle labbra ma non abbastanza (i due protagonisti con la suora, l’intervista con la caporedattrice), una serie di temi cruciali che risultano però appena abbozzati: dalle coppie di fatto alla corruzione, dalla manipolazione e strumentalizzazione della carta stampata alla mancanza di meritocrazia, passando per il paraculismo tipicamente italiano. Peccato che il tutto venga gettato in un gigantesco calderone che produce una minestra riscaldata e insipida, depotenzializzata ulteriormente da una regia che va al ritmo di un videoclip, di una musica invadente che toglie spazio ai dialoghi e da un cast altalenante che dà vita a una galleria di macchiette.
Francesco Del Grosso