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Parigi, le ferite aperte e il mappamondo che gira.

Creato il 25 gennaio 2015 da Ilariadot @Luna84
Ci sono almeno due modi per capire che stai arrivando a Parigi. Il primo è un SMS della Vodafone, che ti dà il benvenuto in Francia nel bel mezzo di un verdissimo nulla. Il secondo è l'affatto pacifico ingresso del mondo nel tuo spazio personale. Chè, voglio dire: già sei stordita dai circa cinquemila gradi centigradi di un treno ad alta velocità (avrei dovuto insospettirmi nel momento in cui la tizia davanti a me è rimasta in canottiera); in più ti ritrovi al centro di una delle stazioni più grandi d'Europa, pressata dal viavai incessante di persone frettolose che ti spingono e borbottano in un flusso incontrollato alla fermata del metro. 

Vagano perse dietro alle loro vite, quelle persone, agli schermi degli e-reader, isolate dalle cuffie e dagli sguardi distratti, assurdamente simili nelle loro diverse etnie. In mezzo a loro ti senti oppressa, con tua madre che ti chiede al telefono come sia il tempo e tu che non lo sai, perché da un'ora sei chiusa e schiacciata nei cunicoli sotterranei di una Metropoli che mai come adesso riconosci tale. E pensi alla sovrappopolazione del pianeta. Al crocevia di pensieri personali. A com'era diverso il Belgio, col suo passeggiare pacifico e i tanti posti vuoti sul vagone. Con la ragazza che suonava country in centro, le persone che si fermavano ad ascoltare, la commessa da cui compravi cioccolata che ti elargiva l'omaggio di due bon bon in più. A Parigi manca, questa dimensione umana. O almeno così mi sembra adesso, nel contrasto duro dell'arrivo. Almeno finché l'aria pungente non mi schiaffeggia il viso davanti a un murales di Borondo (spagnolo, guarda caso!) e tutto acquista un senso, di nuovo. 


Parigi, le ferite aperte e il mappamondo che gira.


É diversa da come la ricordavo, Parigi. Certo, ci sono le crepe buonissime e gli scorci suggestivi di Bercy. I chioschi a bordo Senna. I tavolini ravvicinati nei bar. E io l'adoro, quando dá il meglio di sé nel cielo azzurro, con le case allineate, i tetti caratteristici, Notre Dame che sembra sorriderti benevola come una sorta di seconda madre. Ogni strada é un deja vú, qui in mezzo. Impregnata di ricordi, di sorrisi e videoclip. Quante volte, come oggi, si é fatta cornice di re-incontri! Quante volte ho pensato che il suo essere di tutti la renda rassicurante anche nel fascino snob! Però qualcosa la turba, questa volta, nonostante le luci sui palazzi e lo stupore dei bistrot. Si percepisce, brucia come una ferita ancora aperta che nascondi alla bell'e meglio sotto ad un cerotto color carne; E fingi che non faccia male per non deludere chi ti vuole felice. Non parlo delle bandiere a mezz'asta, degli stendardi neri visti al Tg, dei fiori deposti in un vicolo. Quello è solo il segnale più evidente, spicciolo. Il Pont de l'Alma del nuovo millennio a cui i turisti possono regalare un "oh" prima di tornare a fotografare la Tour Eiffel. No. Io parlo di Céline, che ha paura di uscire di casa per frequentare zone più vistose. Dei membri dell'esercito che imbracciano il mitra davanti agli edifici. Dei sussulti spaventati ad ogni sirena della polizia. Parlo, ancora, di una Domenica pomeriggio con troppa poca gente in giro. Di un mood impalpabile ma esistente che mi fa pesare addosso tutta la rabbia dell'umanità. E "attenta a non mollare la valigia, ché te la distruggono". E "dobbiamo perquisirti" prima di entrare, banalmente, in un supermercato. 


Parigi, le ferite aperte e il mappamondo che gira.


Mi dispiace, Parigi. Perché meriteresti di parlare d'arte. Di cultura. Meriteresti che quella gente, in metro, andasse solo un po' più piano. Che fermasse i pensieri, anche soltanto un attimo, per assaporare quel che c'è di bello in te. Lo meriterei anch'io, se posso essere egoista. Ma almeno da Ciao Gnari le stragi e il terrorismo restano chiusi fuori. Annientati dall'atmosfera intima e suggestiva di una saletta arredata di lucine e divanetti in pelle. Annegati nel Sangiovese e nella mia soddisfazione. Piccolo consiglio off topic: non fatevi mai delle foto subito dopo aver bevuto del vino. 


Parigi, le ferite aperte e il mappamondo che gira.


Ho scelto di seguire Il Cile nelle sue prime due date all'estero dopo essermi resa conto che, tutto sommato, di una festa in grande stile non mi importava granché. Certo, era tra i miei propositi per il duemilaquattordici. Ché un cambio di decennio va sottolineato per bene. Volevo gli applausi. La scena madre. Ma non sono mai stata brava ad accaparrare l'attenzione. Poi, sotto sotto, preferivo viaggiare. Chessò, magari la Spagna. O forse Londra. Oppure... ho visto quel post mentre ci stavo pensando. I concerti cadevano appena due settimane dopo le mie trenta candeline. Era perfetto. A fine Novembre avevo già tutti i biglietti tra le e-mail. 

Può sembrare strano, lo so. Eppure per me la Musica resta in assoluto il miglior pretesto per viaggiare. Ricordo che da piccola, quando leggevo Topolino, pensavo che mi sarebbe piaciuto diventare una di quelle persone che possono permettersi di chiudere gli occhi, girare un mappamondo, e puntarci un dito sopra lasciando che il Destino decida per loro dove andare. Ecco: ogni tanto penso che, in fondo, i musicisti siano la mia personale versione di quel mappamondo. Solo che il dito lo puntano i promoter, i manager e chissà chi altro ancora.

C'è sempre un attimo, prima di partire, in cui prendo in considerazione l'idea per cui chi mi guarda male abbia assolutamente ragione. Forse sono pazza, o sbagliata, che ne so. Però rimane il fatto che non me ne pento mai. Che sono felice, felice da morire, quando posso coniugare le cose che più amo. In effetti sarebbe bellissimo se potessi essere pagata per seguire un tour con il fine di documentarlo in un libro. Mi è stato fatto notare da un'amica che, in quel caso, sarebbe meglio se fosse di qualcuno che non ammiro. "I pass all areas danno accesso a segreti che forse una fan non vorrebbe sapere". Vero. Ma é anche vero che se seguissi Gigi D'Alessio la mia esperienza finirebbe prima del tempo, in galera, accusata di omicidio plurimo. Comunque. Il fatto é che a Parigi quelle "cose" hanno una colonna sonora di acustica migliore che a Bruxelles. Un pubblico più attento. Un grado di emotività maggiore. A Parigi mi incasinano i neuroni perché devo destreggiarmi tra l'inglese, lo spagnolo e l'italiano a seconda dell'interlocutore delle mie conversazioni; peró che soddisfazione, quando un'amica di nazionalità diversa ti dice che "grazie per avermi portata", che "non ho capito tutto ma ha una voce molto particolare, un talento da vendere e un modo di raccontare incredibile"! Che meraviglia quando una compagna dell'Erasmus, trovata il giorno dopo davanti a quella creperie a Bercy, ti dice che "mi hai incuriosita e ho cercato su Youtube: Cemento Armato é proprio bella!". E d'improvviso ti senti quasi la padrona del mondo. Orgogliosa senza motivo. Vincitrice di una sfida che non sapevi neanche di esserti lanciata. Ché quando hai sentito dire ad un cantante che "lo promuovi un sacco" non capivi bene che diavolo intendesse dire. Io mica faccio niente, pensavi. Io parlo delle cose che mi piacciono, solo perché le emozioni belle acquisiscono piú senso quando sono condivise. Ma quando mi accorgo che questo ha in qualche modo delle conseguenze, che forse c'era del vero in quelle parole...beh, allora capisco che forse non sto solo rompendo (un sacco) i coglioni al prossimo, e che non deve essere per forza sempre vero che chi mi guarda male abbia ragione. Perché io sono tornata da Parigi, ma quel mappamondo sta girando ancora.



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