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Parole, parole, parole…

Da Psytornello @psytornello

Non ci sono più le mezze stagioni! Eh sì, questo post inizia male, con una frase simbolo di quegli scambi di parole senza apparente scopo né vero contenuto informativo che a volte (anzi, più spesso di quanto notiamo) intratteniamo con gli altri. Conversazioni di questo tipo capitano continuamente, in particolare quando si ha poca confidenza con l’interlocutore. Sotto l’ombrellone (“Che caldo oggi, eh?“, “Eh, pensi che questo inverno ci lamentavamo per il freddo“), col vicino di casa (“Tutto bene in famiglia?“, “Sì, grazie. Voi?“), tra chi si incontra a una festa (“Quanta gente stasera!“, “Davvero non ci si muove“). Chiacchiere formali e inutili? Solo in apparenza: questi scambi sono importanti per rinsaldare i rapporti sociali e per gestire le conversazioni. Perché diciamo molto anche quando…non parliamo di nulla.
Spreco di fiato?
“Quelli che potrebbero sembrare dialoghi inutili, prevedibili, superficiali, nei quali non si pongono reali interrogativi e non si attendono risposte originali, sono invece fondamentali per la gestione e la costruzione delle relazioni umane” chiarisce Valentino Zurloni, docente di Psicologia delle Organizzazioni e della Comunicazione all’Università di Milano-Bicocca. La prima funzione? “Rappresentano il segnale che la comunicazione tra due persone è aperta” dice Zurloni. Espressioni come “Allora, eccoci qui” o “Come andiamo?” servono cioè a stabilire un contatto quando ci si trova di fronte: sono l’analogo del “Pronto?” al telefono. Gli studiosi la chiamano “funzione fàtica” del linguaggio (dal latino fari, pronunciare, parlare): il termine è stato coniato dall’antropologo polacco Malinowski. Si riferisce a quei messaggi che hanno lo scopo di stabilire, verificare o interrompere un contatto. Si va dalle formule di saluto alle frasi per rompere il ghiaccio. “Ci sono tre fasi della conversazione: apertura, sviluppo e chiusura” aggiunge Carlo Galimberti, docente di Psicologia Sociale della Comunicazione all’Università Cattolica di Milano. Uno scambio di battute può così funzionare da “antipasto” per entrare nel cuore della discussione. “Anche tra amici non si entra a gamba tesa in un argomento, serve la fase di passaggio dei saluti e dei convenevoli” continua Galimberti. Funziona così anche, per esempio, nei colloqui di lavoro. (“Ha trovato traffico per arrivare?“). Allo stesso modo, quando la conversazione va verso la chiusura, non si può troncare di punto in bianco: per congedarsi senza strappi, usiamo infatti formule come “Vedremo come andrà a finire” o “Ne riparliamo presto“.
Non ci sono solo le formule d’esordio o chiusura. Le chiacchiere di cortesia – la conversazione fine a se stessa che in inglese è definita small talk – rispondono a molti nostri bisogni sociali. Le battute che scambiamo con un negoziante o alla macchinetta del caffè, anche se non trasmettono alcuna informazione pratica, sono essenziali per entrare in contatto con gli altri, confermare o rafforzare relazioni. “Il linguaggio è un bisogno profondissimo: non possiamo farne a meno” dice Ludovica Scarpa, docente di teorie e tecniche della comunicazione interpersonale all’Istituto Universitario di architettura di Venezia. Ecco perché ci piace tanto chiacchierare, anche quand’è fine a se stesso.
E Robin Dunbar, antropologo dell’Università di Oxford, sostiene che “rivolgersi la parola in modo cortese è un po’ l’equivalente di ciò che fanno gli scimpanzé quando alzano le labbra e mostrano i denti chiusi ai loro simili. Il senso è: “Non ti mordo, non ho intenzioni aggressive” aggiunge Zurloni. La conversazione, insomma, aiuterebbe a sgombrare il campo da pensieri ostili.

Scambio obbligato. Anche perché, se s’incontra qualcuno, si deve avere uno scambio: in alternativa si aggredisce o si fugge, ma non ci si può ignorare. Ecco allora che scattano formule di circostanza e si chiacchiera del più e del meno. “Quando si è costretti in uno spazio ridotto, come in un’auto, in ascensore o al ristorante, il silenzio prolungato tra due individui può risultare intollerabile” chiarisce Zurloni. Pur di cavarsi d’impaccio, si parla: non importa di che. “Nella nostra cultura, il silenzio è vissuto come imbarazzante, non parlare significa quasi non considerare l’altro un essere umano” puntualizza Scarpa.

Pazienza, insomma, se la conversazione non raggiunge grande profondità: il linguaggio non serve solo a comunicare contenuti, ma anche a modellare le relazioni: persino la conversazione più vacua è in grado di mettere in luce che relazione e che grado di confidenza ci sono con l’altro, attraverso segnali verbali e non, dalle espressioni usate al timbro e tono della voce alla distanza fisica.

 

Fonte: Focus. Scoprire e capire il mondo. N. 251 – Settembre 2013


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