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Partito come "ditta"? #diktatdelladitta #mamifacciailpiacere

Creato il 02 ottobre 2014 da Alessandro @AleTrasforini
Come potrebbe comportarsi la (vera o presunta) minoranza del Pd in un eventuale voto di fiducia per la delega relativa al (non meglio precisato) Jobs Act? Quanto finirebbero per contare i paletti innalzati nelle discussioni, a più ripresi, da leader e protagonisti fino ad ora dissidenti (a parole, in un dibattito già di per sé proteso all'appiattimento)?
In altre parole, quanto conterebbe alla prova dei fatti il peso delle intenzioni manifestate?
A queste domande risponde (o cerca di farlo, al meglio che può/possibile) una dichiarazione attribuita all'ex-Segretario Pier Luigi Bersani:
"[...] [sul voto finale] certamente non mancherà la lealtà verso il Partito e il Governo. [...] Che sia ben chiaro che quando voto non ho bisogno di farmi spiegare cosa è una ditta dai neofiti. [...]"
Ritorna un'altra volta una metafora che, tanto appannata quanto irreal(izzabil)e, prova ad assimilare il Partito ad una non meglio precisata ditta.
Ditta che è lecito mettere davanti agli interessi dei singoli, in quanto luogo finalizzato al creare sintesi utili alla collettività. Ditta dove, nel modo migliore possibile, si cerca di portare un non meglio precisabile "proprio contributo" alla discussione.
E' la ditta a costituire il luogo adeguato a formulare proposte, a presentare osservazioni e a produrre quant'altro di utile alla collettività.
Fin qui, metafora (teoricamente) ineccepibile. Nella pratica, però, sembra inevitabile produrre scontri su un'ulteriore serie di questioni importanti.
Argomenti direttamente proporzionali alla complessità del tempo che stiamo vivendo, parimenti ad un periodo di crisi senza precedenti: quale prodotto potrebbe generare la ditta qualora i contributi (costruttivi e non distruttivi) dei singoli non vengano ascoltati e ponderati a dovere?
Cosa potrebbe accadere qualora l'opinione maturata dalla sintesi della ditta risultasse in netta controtendenza con quella che si è provato a portare avanti attraverso il contributo personale fornito? Cosa accadrebbe nel caso in cui gli ideali percepiti della ditta risultassero nettamente differenti da quelli personali e/o individuali? Uscire dalla ditta sarebbe l'unica scelta, direbbe qualcuno.
Stare dentro la stessa ditta, masticando amaro per provare a migliorare le cose "da dentro": questo lo direbbero altr(ettant)i.
Poco o nulla importa di quali prezzi si possano pagare per sottostare a quelle due parole. Poco o nulla importa del fatto che la ditta, incarnando di fatto la realizzazione della governance della res publica, possa e debba essere una delle questioni più fragili ed importanti che l'uomo possa costruire.
Poco nulla importa se, nell'ubbidire alla (presunta) sintesi della ditta, si possa finire per far precipitare i propri livelli di credibilità, coerenza, affidabilità e competenza nell'incarnare le volontà di un elettorato (già mortalmente sfiduciato).
Gli esempi sono infiniti, anche ponendo lo sguardo alle battaglie recenti: dall'ambiente al dibattito (tanto elusivo quanto assurdo) attorno all'Articolo 18, dalle discussioni sul confine fra precarietà e flessibilità alle battaglie fatte nel campo dei diritti civili, dalle politiche per il lavoro a quelle per l'energia, dai provvedimenti in materia di sviluppo economico a quelli in materia di welfare e/o tutela delle fasce deboli, [...].
Si potrebbero fare infiniti esempi, a corredo di una ditta che dovrebbe avere il compito di (contribuire a) governare il cambiamento nel mondo.
Senza contare, inoltre, il terreno ampliamente pericolante sul quale strutturare il paragone fra ditta e (disciplina di) Partito: la ditta è un termine riconducibile al settore commerciale, non certo ad un insieme di millemila settori riconducibili al controllo ed alla cura della stessa res publica.
Anche su questo primo eventuale piano di discussione, pertanto, tale accostamento si conferma come un paragone tanto azzardato quanto illusorio.
Il richiamarsi al conoscere la "ditta" presuppone, in termini chiari, il richiamo ad un altro campo di pressoché sterminata discussione: disciplina di partito, appunto.
In altre parole, la (cosiddetta) disciplina di Partito dovrebbe tradursi in una serie di step successivi:
  1. Portare le proprie proposte e/o le proprie perplessità nelle (presunte) sedi opportune;
  2. Incrementare la discussione nelle (presunte) sedi opportune;
  3. Valutare e/o decidere a maggioranza come predisporre la sintesi che dovrà diventare "made in ditta";
  4. Far diventare propria la (presunta) sintesi finale;
  5. Divulgare e difendere la (presunta) sintesi finale in tutti i luoghi predisposti, dal piano istituzionale a quello "di Partito".

Le zone d'ombra presenti in questi cinque step sono notevoli, ad una prima analisi: come si fa ad inserire le proprie proposte se l'apertura alla discussione è solo strumentale e non reale? Come fare ad incrementare la discussione se quello di cui si deve discutere coincide con troppo fumo?
Come valutare nel concreto una serie di provvedimenti redatti sotto forma di relazioni piene di slogan e di pochi punti seri su cui concentrare le proprie attenzioni? Il punto più importante dovrebbe essere non solo votare il qualcosa, ma anche deliberare da subito (e in maniera chiara, senza giri di parole) sul come raggiungere quel qualcosa che ci si propone come obiettivo da conseguire.
Dal punto 4 in poi (anche prima, senza culto dell'apparenza) chi pone domande (scomode?) è considerato, in libero ordine: sbagliato, troppo critico, gufo, rosicone, interessato al culto dello sfascio perenne, interessato alla devastazione del proprio Paese, [...].
Tutto questo, ovviamente, per il rispetto della ditta: predisposta per tutelare gli interessi della cosa pubblica e non certo pensata per la tutela del lavoro in ambito privato e/o commerciale, è sempre meglio precisarlo.
Da questo fronte, emerge una volta di più quanto lo spirito incarnato dalla ditta e dalla disciplina di Partito possa finire per costituire un cancro capace di produrre danni incalcolabili per il futuro e la sostenibilità di un Paese: chi può assicurare, fino a prova contraria, che la decisione presa dalla ditta sia la sola utile e (pro)positiva per un Paese? Chi può assicurare, fino a prova contraria, che seguire la ditta nei suoi deliri non finisca per condurre lo stesso Paese a sprofondare in un baratro peggiore del precedente conosciuto?
Tutto quel che partorisce la ditta è sempre buono, in quanto frutto del dibattito collettivo?
Senza contare, inoltre, i rapporti che (a livello nazionale) dovrebbero esistere fra ditta e Governo di un Paese: è la ditta a proporre qualcosa al Governo? Oppure è il Governo che deve inoculare alla ditta un qualcosa di non meglio precisato/precisabile da validare ed approvare?
In tal caso, pertanto, il confronto interno alla ditta diventerebbe formale e non più sostanziale: la stessa diventerebbe passacarte di un qualcosa di buttato già da (presunti) piani alti. Quando quel qualcosa di inoculato è somministrato sotto forma di #millegiornidislogan, la fase di approvazione della ditta perde ancora di ulteriore importanza: dal voto al diktat della ditta, dunque.
Come porre rimedio, in chiave futura, ad eventuali diktat per la ditta sbagliati?
Da cosa ripartire, quando uno sbagliato diktat può causare perdite di credibilità, fiducia ed affidabilità nei confronti di chi ha votato sottostando ad una sempre più antiquata e ridicola disciplina di Partito-ditta? Il perpetuarsi di azioni simili può causare, inevitabilmente, un ulteriore allontanamento da una classe politica (giustificabilmente) percepita come ridicola, vergognosa e/o non all'altezza del compito assegnatole.
Per informazioni (pur)troppo emblematiche e significative del punto di bassa a cui è possibile arrivare, si guardi al contesto di pessima richiamato dal frammento di articolo seguente:
"[...] Il senatore Ugo Sposetti, depositario di memorie e patrimoni comunisti e diessini, non contesta la percentuale: il 99,7% delle volte ha votato come Denis Verdini, ha pigiato lo stesso pulsante, ha accolto o respinto. Il marchingegno di Open Polis non lo imbarazza [...]: 'Ragazzi miei, non c’è nulla da studiare perché non c’è nulla da apprendere. E la domanda è mal posta, il destinatario è sbagliato'. E perché? 'Io mi adeguo, io seguo la linea del Nazareno. Se mi portano in braccio a Forza Italia, se ci fanno confondere, non è colpa mia, e non dovete chiedere a me.'  [...]
Quasi perfetta coincidenza, quasi un movimento unico, un partito unico. Maurizio Bianconi [...] un deputato forzista [...], vuole commentare [...]: 'Non c’è bisogno di fondere i gruppi di Camera e Senato, Matteo Renzi e Silvio Berlusconi gestiscono la stessa macchina: si supportano, si spartiscono le poltrone, la gente non se ne accorge. [...]' Un obbligo, Bianconi: 'E allora non prendiamoci per i fondelli. Attenti, però, che un pezzo di Forza Italia si sta organizzando, guarda altrove, chissà se pure al Nazareno si ribellano un pochino'. [...] Oltre i numeri, ci sono le azioni, le trame. E le telefonate. [...]" (Fonte: Sposetti confessa: 'Il Partito ci fa votare con Verdini', C.Tecce, Il Fatto Quotidiano via triskel182.wordpress.com
E' (pur)troppo evidente che, in questo caso, la disciplina di Partito-ditta può finire per produrre solo confusione, danni, perdita di fiducia e credibilità in un elettorato che (teoricamente ed a scanso di strumentalizzazioni) ha espresso una differenza di voto per indicare una differenza di vedute.
Esiste quindi un confine che renda ulteriormente più riduttiva, antiquata, obsoleta e tragicomica l'etica della disciplina di Partito?
O è ancora la stessa funzionale per il perpetuarsi di una forma anche embrionale di dibattito democratico? A questo punto, è spontaneo proporre un'ulteriore involuzione dello strumento Partito: sempre meno democratico e sempre meno democritico, appunto. La formula vincente pare annichilire il dissenso, schiacciare le volontà alternative attraverso slogan e diktat (stra)colmi di vuoto pneumatico.
Esiste una possibile soluzione a questo declinante ed obsoleto strumento, legato ad una classe dirigente che passerà alla storia dell'opinione pubblica come protagonista di eccezionalmente negativi traguardi fatti raggiungere al proprio Paese?
Può esistere una soluzione che sappia proporsi l'obiettivo di inseguire un cambiamento, facendo al contempo crescere la società italiana in partecipazione e conoscenza della res publica? Le possibili vie da intraprendere passano per un solo cartello: aumentare/coltivare la partecipazione dei cittadini su un piano diretto, reale. Sfatando il mito della delega in bianco e del "ghe pensi mi" che (grazie anche ad una controparte che ha fatto più danni della grandine) ha contribuito a trasformare il Paese più bello del mondo in un cumulo di macerie ancora fumanti.
Quali spazi esistono già per predisporre un cambiamento sinergico con la società in liquefazione che stiamo ereditando da questa crisi?
Il coinvolgimento dei cittadini, restando nell'ambito di un Partito che ambisca a definirsi democratico, dovrebbe forzatamente passare attraverso l'istituzione principale che possa consentire l'allargamento della partecipazione: il referendum, appunto.
Qualcosa che possa consentire di strutturare una partecipazione vera e non farlocca, costruttiva e non teleguidata da fronde di potere incancrenite che ambiscono solamente a tutelare un'effimera conservazione protesa ad influenzare il presente.
Le vie per (ri)strutturare questa disciplina esistono, sono scritte e strutturate nello Statuto che il Partito (presunto) democratico ha approvato (o finto di approvare?) in sedi istituzionali non molti anni or sono. Ai principi per regolare la democrazia interna (cit.) sono infatti riportate parole inequivocabili:
"[...] 2. Il Partito Democratico affida alla partecipazione di tutte le sue elettrici e di tutti i suoi elettori le decisioni fondamentali che riguardano l’indirizzo politico, l’elezione delle più importanti cariche interne, la scelta delle candidature per le principali cariche istituzionali. [...]"
(Capo I, Articolo 1, Comma 2)
L'inappropriato paragone fra ditta e Partito è, al netto del ridicolo, presente giusto pochi commi più sotto del precedente:
"[...] 5. Il Partito Democratico riconosce e rispetta l’autonomia e il pluralismo delle organizzazioni sociali e del lavoro, riconosce e rispetta la distinzione tra la sfera dell’iniziativa economica privata e la sfera dell’azione politica. [...]"
(Capo I, Articolo 1, Comma 5)
Allargarsi per partecipare, in maniera strutturalmente innovativa e non occasionalmente farlocca.
Come potrebbe il PD sopravvivere strutturando una più ampia partecipazione, cercando quindi il mezzo più adatto a rendersi funzionale, trasparente e scalabile per la società che si propone di governare? A questa domanda potrebbe rispondere, nella maniera più breve possibile, la parola referendum.
Tale concetto è già richiamato abbondantemente nello Statuto richiamato; per informazioni guardare all'Articolo 27, definito non a caso come "Referendum e altre forme di consultazione".
Si può quindi far partecipare per forma, per necessità, per sopravvivenza, per desiderio di abbattere le frontiere annullando/migliorando/attualizzando quella disciplina di Partito che tanti danni sembra aver prodotto in questi anni di storia politica. Il banco di prova è il futuro di una stessa politica che, per allungare il suo sguardo sul futuro, non potrà ritardare in eterno l'inevitabile cambiamento che è già (in maniera sconnessa e distratta) percepibile nella società stessa.
Arroccarsi nella difesa esclusiva della ditta, degli interessi di bottega e della disciplina di Partito è un traguardo che potrebbe condurre (in breve tempo?) il Paese intero verso una ben peggiore catastrofe socio-culturale.
Le correnti interne al Partito, in quell'eventualità, dovrebbero salvarsi probabilmente dall'incedere inarrestabile di tremende mareggiate.


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