Magazine Diario personale

Patrick è un morto di Stato.

Creato il 29 agosto 2014 da Cristiana

Ora dirò una cosa pesante. Ma penso che nessun bambino dovrebbe mai essere lasciato in affidamento da solo ad un genitore con problemi psichici. Nella storia di Patrick morto oggi probabilmente per mano della propria madre malata di depressione, c’è un errore. C’è il nostro errore. Quella solitudine, quella morte è colpa nostra. Colpa della rimozione della malattia più buia del secolo, una malattia che noi, società non riconosciamo, non vogliamo riconoscere. E che quindi non viene considerata un limite. I confini sono labili. Inconsistenti. Difficili. Ma sprechiamo fiumi di inchiostro a parlare di feti o di terribili adozioni gay e poi ditemi, quale guerra state combattendo per salvare tutti questi bambini che molto spesso starebbero meglio altrove che con i propri genitori.

E questa Patrick è per te. Per la guerra che non hai potuto combattere. Tu non sei sopravvissuto.


“«Guardami», ho detto sempre fissando il latte.
«Ti guardo ogni giorno», mi hai risposto.
«Cosa vedi?» Ti chiedevo.
Scuotevi la testa. Stavi per parlare di mia madre, lo sapevo. Ed era come cominciare a raccontare di una guerra lunga dieci anni che stava per scoppiare per il dominio di un maledetto stretto dove una città
sarebbe stata rasa al suolo con un trucco, magari un cavallo di legno.
Ma non volevo che dicessi nulla, allora ho cominciato a parlare io.
«Vorrei appartenere a una famiglia che abita da secoli lo stesso luogo. Magari coinvolta in qualche faida per la terra, tanta terra, con un’altra famiglia con la quale è in lotta da sempre. Non mi immagini la notte
spostare i muretti a secco che tengono confinate le nostre terre dalle loro, per riconquistare terreno? Una terra brulla, incolta che i miei antenati hanno domato con il sudore della fronte, non vedi il vuoto lasciato da
qualcuno partito per la guerra e mai tornato?» Ho tirato un sospiro e cambiato registro, fatto la voce da narratore delle fiabe e atteso che cominciassi a sorridere. «Non vedi nelle foto delle donne di famiglia i segni lasciati dalla morte dei maschi della casa in tempo di guerra o per qualche carestia in cui gli animali morivano e gli uomini con loro? Non senti il respiro dei bambini che non sono nati o di quelli nati troppo piccoli, prima
dell’avvento della penicillina? Non mi vedi appendere la giacca dove lo faceva il mio bisnonno e il bisnonno del mio bisnonno? Non vedi i connotati di famiglia vagare randagi sul mio volto e su quello dei nostri figli? Non vedi il neo che ho sulla spalla e che tutti i membri della famiglia hanno, proprio lì?»
E alla fine ridevi tenendoti la pancia. Sapevi che per non sentirmi sola al mondo, come dicevi tu, avrei avuto bisogno di riti secolari da ripetere, mura in cui avevano abitato generazioni. Il tutto per poter almeno compensare, in parte, l’assenza di mia madre e mio padre.
«Dentro la tua testa abitano tutte le storie del mondo. Tranne il presente», hai detto poi, smettendo di ridere all’improvviso e avresti potuto aggiungere che mia madre aveva fatto bene a bruciare l’enciclopedia della Fiaba, che era vero che ci avevo vissuto dentro per scappare da lei. Ma non lo hai detto.” Ho dormito con te tutta la notte, Hacca Edizioni 2014.


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