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Patrizia Asproni: contro le ‘prefiche della cultura’ istituiamo un Osservatorio nazionale di rilevazione dati e trasformiamo i musei in luoghi da vivere, non solo da visitare

Creato il 04 agosto 2014 da Addamico @addamico

patrizia_asproni_Patrizia Asproni è presidente della Fondazione Industria e Cultura e di Confcultura, l’associazione che riunisce le imprese che gestiscono musei, siti archeologici e luoghi della cultura. Direttore dei beni culturali del Gruppo Giunti, da circa un anno ricopre la carica di presidente della Fondazione Torino Musei (a cui fanno capo: GAM – Galleria d’Arte Moderna, Palazzo Madama, MAO – Museo d’arte orientale, Borgo medievale).

Personalmente è anche la persona da cui, per la prima volta, ho sentito parlare di “marketing culturale” con l’audacia tipica di chi non ha paura di scomuniche e punta a gettare le idee (e le soluzioni) oltre l’ostacolo (capirete quindi che questo blog le deve molto…).

Dopo il nostro ultimo incontro a Firenze, pochi giorni fa, in cui abbiamo parlato di riforme, musei del futuro e dati da riorganizzare, sono sempre più convinta che quella di Patrizia sia una delle voci su cui molti settori del Sistema Cultura Italia dovrebbero sintonizzarsi, giusto per non sbagliare frequenza e non correre il rischio di trovarsi ‘fuori onda’.

La Riforma dei beni culturali avviata dal ministro Franceschini non ti ha convinto del tutto. Puoi indicarci i punti che ritieni più problematici?

Il punto più problematico è certamente la burocrazia: non è certo colpa di Franceschini, ma è purtroppo una componente ancora troppo critica all’interno di questa Riforma. L’intenzione del ministro di seguire l’esempio degli Stati Uniti e permettere una detrazione al 100% per le donazioni dei privati non si è concretizzata e si è dovuto ripiegare su un bonus.

Un credito d’imposta che può funzionare per le imprese, ma non per il singolo cittadino, che avrà bisogno di essere affiancato da un commercialista per superare la complicazione del testo. Che, ripeto, stabilisce un credito d’imposta pari al 65% per gli anni 2014 e 2015 e al 50% per il 2016.

Ci vuole qualcosa in più per mettere in moto quell’afflato che deve spingere un privato a investire in cultura. Inoltre, l’impianto normativo è contorto e infatti è stato già annunciato un Regolamento che spiegherà il decreto. E poi c’è un altro ostacolo…

Quale?

La scelta di agire esclusivamente sugli interventi di restauro. Io mi domando: perché? Se voglio fare una donazione al museo della mia città perché venga creata una sezione didattica o un’attività di formazione, oppure finanziare delle visite guidate per un’audience specifica: perché non posso farlo?

Tutto questo non ha senso! Bisogna capire una volta per tutte che l’investimento del privato nei beni culturali non è una fuga dalle tasse o un modo per non pagarle, ma l’espressione di un’operazione culturale di cui il Paese ha bisogno. Perché è più semplice ottenere detrazioni fiscali per finanziare la politica e non per sostenere i beni culturali?

Da anni ricerche e analisi fotografano l’Italia come un Paese che perde posizioni a livello mondiale in termini di reputazione (fonte Country Brand Index), e in cui le competenze alfabetiche alla base della crescita individuale, la partecipazione economica e l’inclusione sociale sono al di sotto della media dei paesi Ocse (fonte Ocse). Dati che non sembrano influenzare le scelte di politica culturale italiana: perché?

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Siamo il Paese dei dati e delle statistiche. Ci troviamo ad avere un’incredibile mole di dati (troppi!), ma disorganizzati e spesso interpretati “ad usum delphini”.

In merito alla spesa per la cultura, ad esempio, su cui si focalizzano i lamenti di coloro che io chiamo ” le prefiche della cultura” (quelli che si battono il petto ma non offrono mai soluzioni!) sarebbe utile che venisse istituito un Osservatorio nazionale che veramente rilevasse i dati con metodologie scientifiche e parametri coerenti.

Abbiamo la fortuna di un’incredibile varietà culturale (pensiamo ai tanti festival distribuiti sul territorio nazionale, ad esempio) che deve essere inserita correttamente nelle indagini. Si tratta di una posta attiva che muove valore anche economico sul territorio e che spesso non viene intercettata né capita e, di conseguenza, non considerata nei bilanci. Inoltre, dati oggettivi e asseverati sono utili per poter attrarre investimenti privati, anche stranieri.

Forse è il solito problema italiano di non riuscire ad associare il termine “economia” alla cultura?

In Italia si parla di economia della cultura solo da una decina d’anni. Un ritardo che ha lasciato campo libero a una visione conservatrice del settore, dove l’approccio più diffuso, ancora una volta, è quello burocratico.

Ma la Riforma Franceschini sembra andare proprio in questa direzione: pensi sia arrivato il momento della “svolta”?

Ci troviamo in una fase di passaggio molto delicata e bisogna guidare questo processo con estrema professionalità. Le riforme devono coinvolgere soprattutto i cittadini, che devono essere consapevoli dell’eredità culturale che hanno ricevuto e della necessità di trasmetterlo in maniera intelligente alle generazioni future.

Qualche consiglio?

Bisogna certamente “proteggere” i beni culturali, ma senza metterli sotto una campana di vetro, bensì facendoli vivere mettendo “a frutto” questa risorsa e guidandone il consumo. Come? Bisogna partire dall’elaborazione di un “Progetto Paese”.

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Come vogliamo posizionarci rispetto ai cambiamenti della globalizzazione? Con chi ci vogliamo confrontare? Pensiamo veramente che sia possibile parametrarci alla Cina (non arriviamo neanche alla dimensione della provincia dello Sichuan) o mettere sullo stesso piano per “quantità” Firenze e New York?

Io spesso dico che siamo un Paese piccolo, ma un grande Paese. Soffriamo anche di una visione distorta (verso l’alto) di noi stessi, che probabilmente è anche la fonte della nostra grandezza, ma non ci fa stare dentro la realtà delle cose. Quando sento dire che ci sono 1 miliardo di turisti da intercettare, mi domando: ma davvero è questo il nostro obiettivo?

Francamente non condivido questa idea. Dobbiamo studiare gli scenari pianificando fin da ora i prossimi dieci anni e decidendo noi quali e quanti turisti vogliamo arrivino nel nostro Paese.

Inserirci in una dimensione europea può aiutarci in questa direzione?

In Europa abbiamo degli enormi problemi: di reputazione innanzitutto, ma anche di capacità nel fare squadra. Sui fondi europei la nostra performance è bassissima nei finanziamenti diretti e in generale la gran parte dei fondi intercettati vanno a favore della tutela più che di valorizzazione, infrastrutture e servizi.

Qual è la situazione dei musei italiani oggi?

I musei italiani si stanno evolvendo. Ci sono stati moltissimi cambiamenti anche se dobbiamo ancora recuperare quel dialogo tra tecnologia e patrimonio, innovazione e cultura che può essere anche una direttrice di creazione di lavoro per i giovani, come avviene nel resto del mondo.

Lo Stato deve avere funzioni di controllo, non di gestione diretta dei beni culturali. Solo così si potranno creare possibilità d’impresa e crescita del settore.

All’estero dove hai trovato le esperienze museali più interessanti?

Sicuramente nel nord d’Europa. Sono le esperienze migliori perché si rivolgono contemporaneamente ai cittadini e ai visitatori. È arrivato il momento anche per noi di trasformare i turisti in visitatori e i musei in luoghi da vivere e non semplicemente da visitare.

Da quasi un anno sei Presidente della Fondazione Torino Musei: che tipo di lavoro stai portando avanti?

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Torino è una città bellissima, per molti aspetti privilegiata nel panorama nazionale e in grande evoluzione. La Fondazione Torino Musei è nata nel 2002 ed è stata la prima in Italia di questo genere. Ci troviamo all’interno di un processo di trasformazione della città da factory industriale a factory culturale. La sfida, anche professionale, è coinvolgente anche se le complessità e gli ostacoli non mancano.

A settembre sarà un anno esatto dalla mia nomina (che svolgo a titolo gratuito, beninteso….) e gli obiettivi che ci siamo posti sono ambiziosi ma anche realistici come, ad esempio, un aumento dell’autofinanziamento e di audience.

Avremo una programmazione di mostre, ma soprattutto di progetti culturali che ci faranno conoscere a un pubblico più ampio di quello attuale con l’auspicio di guadagnare visibilità e frequentazione. La cosa più importante è continuare a “fare sistema”, con ricadute positive per tutti.

Torino è già una best practice della cultura, deve diventare un modello a cui guardare per tutto il Paese.

Che la sintonizzazione abbia inizio!


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