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PAZZOTECA LA PAZ - il nuovo e conclusivo capitolo di Sorensen Puddu, inedito anche sul blog!

Creato il 11 maggio 2011 da Zioscriba
pazzoteca la paz
Il sole era appollaiato sull’orlo della valle come un fagiano-cucurnia, e sospingeva verso di noi grandi fiotti di luce tranquilla come se li stesse tranquillamente cagando.
Un po’ meno tranquilli eravamo noi, detti per l’appunto i Mica Tanto Cheti, noi, i villeggianti del matticomio La Pazzoteca, di recente gemellato con la città boliviana di La Paz, che non s’è capito se è un errore marchiano o una presa per l’ano visto che La Paz non significa “la pazzia” ma “la pace”, e ancor più di recente (praticamente adesso, anzi, fra un po’) intitolato alla memoria dei vuoti di memoria della famosa tennista Raketina Dementieva, la quaglia, lo riscordo a chi si fosse dimenticato di dimenticarla, anziché prodursi a ogni sracchettata nei vagiti ovarico-vaginali tanto cari alle sue colleghe e ai guardoni che le guardano (e agli ascoltoni che le ascoltano), aveva preso l’abitudine di accompagnare ogni singolo impatto pallico non coi soliti preorgasmici “Yeah! Yeah! Yeah!” che te lo fanno rizzare, bensì col suo caratteristico urlo all’indirizzo del giudice di sedia “Quanto hai detto che sta il punteggio? Quanto hai detto che sta il punteggio? Quanto hai detto che sta il punteggio?”
Soffrivo di smottamenti al cervello, dissero. Morbo di Krautfeld Spongibob. Una deficienza molto rara contro cui non avrebbero funzionato né gli elettroshock né le docce ghiacciate. Però decisero di sottopormici lo stesso. Anzi, per loro maggior divertimento, presero l’abitudine di farmi l’elettroshock mentre stavo sotto la doccia ghiacciata. A me garbava poco, e la doccia comunque conveniva farla molto veloce. “C’è poco da sguazzare” convenivano in coro tutti quei professoroni laureati all’American Psychologic Institute of Cippu. Ogni tanto ci scappava anche qualche calcio nel culo. La camicia di forza invece me la mettevano un giorno sì e uno no, perché non ce n’era una di ricambio e nel giorno sì mi cagavo sempre addosso, cosicché in un giorno no causa lavanderia ecospùrgola me ne scesi a prendere in prestito la zappa del giardiniere, ci zappai ben bene le testoline di quattro medici sadici e otto infermiere meretrici e fuggii alla ricerca di un dottore vero, l’unico che conoscessi: mio cugino il mio gastropetologo. Perché era ora di dare una zappata pure a lui, che alla Pazzoteca, non dimenticatelo o vi zappo anche voi, anzi, vi aro, mi ci aveva mandato!
No tenevo dinero per pagare il tassista, ma la vista delle mie nudità elettroscioccate e nu poco scioccanti (peli d’uccello permanentati alla Hendrix, in linea di massima) e forse poi soprattuttino della zappa piuttosto insanguinata indussero quel bravuomo a regalarmi la corsa, per non rischiare di passare dal taxismo alla taxidermia nel giro di due secondi, per Giove imbalsamato.
Purtroppo lo stronzo di mio cugino gastropetologo era stato avvertito da qualche spione, e non solo non riuscii a dissodarlo, ma mi tese un’imboscata di sbirri che mi arrestarono a crepapelle (c’erano i margini per riuscire a scappare, ma quando uno di loro cominciò a leggermi i diritti facendo errori gravi di grammatica non ebbi scappo, e cominciai a rotolarmi per terra in preda al mal di pancia ridarello). Siccome stavolta l’avevo fatta davvero troppo grossa (i taxi si pagano, cazzo, altrimenti la corporazione dei tassisti è capace di fare sciopero e paralizzare tutte le città del mondo con grave pregiudizio all’economia di mercatonero) non mi sbattettero più né alla Pazzoteca né tantomeno in prigione, ma mi condannarono a lavorare interanale in un call center.
Dovevo importunare tutto il santo giorno della gente per chiedere offerte in favore dei senza tette (e questo mi riscordava qualcosa, ma cosa?) e già che c’ero approfittarne per un sondaggio: dovevo segnarmi su un fogliettino a parte le diverse percentuali di quelli che riattaccavano, quelli che dicevano non m’interessa grazie, quelli che mi mandavano a caghèr.
Il primissimo che chiamai fu un certo Spampinato (e anche questo mi riscordava qualcosa, ma cosa?). Lui mi mandò a caghèr.
Il guaio è che io già prima avevo sempre avuto un brutto e problematico e vaffanculo rapporto, con la telefonia e consimili. Per esempio agli amanti e alle amanti infedeli facevo sempre telefonate in versi orrendi tipo questa:
Ti dissi
Falsa luce di luna
Brillantezza nessuna
Eppur sembravi lunatica
Perla
Ti dissi
Cuor di rasoio
Sangue di rettile
Cazzino retrattile
Pirla
Ti dissi
Bugiarda merdina
Cervello di rana
Salterina e puttana
Parla!
Mi rispondevano
Guarda stronzo che hai sbagliato numero.
In quel call center del cazzo stavo così male che a volte mi semiappisolavo e semisognavo a occhi aperti i pochi momenti belli della mia povera vita, i pochi veri amici che avessi mai conosciuto, che erano poi gli altri ospiti della Pazzoteca La Paz.
In realtà uno solo: ero riuscito quasi a fraternizzare, tramite insulti non troppo infamanti (le mamme vanno lasciate stare) e roncolate appioppate piano, col sommaro poeta Sgarfiolotti. Lui mi piaceva perché era scemo. Era talmente scemo che tutti gli altri, per far capire quanto fosse scemo, non lo chiamavano “lo scemo”, bensì “il scemo”. Il scemo sommaro poeta era nientemeno che l’autore delle due famosissime poesie monoverso che sconvolsero l’ultima parte del secolo scorso da tanto che non gliene fregava niente a nessuno:
Campinnevatinculassòrata” (quasi nobel nel 1978);
e “Arcobbaleninculappròzziata” (quasi quasi minchia per un pelo nobel nel 1985).
Ma soprattutto, il scemo Sgarfiolotti era l’autore di un notissimo romanzo di otto righe, inedito per un soffio, che raccontava la tragedia di un uomo annegato insieme al suo cavallo nel tentativo di attraversare un fiume in piena. Siccome ci rimanevano sia lui che il cavallo, il geniale titolo dell’opera era “Mal comune in mezzo al guado”. Ma poi all’ultimo momento non se ne fece nulla a causa di divergenze con l’editore a proposito degli (eventuali) diritti di traduzione in bulgaro autunnale.
Adesso la sera cerco di uscire, di distrarmi. Se restassi sempre a casa da solo mi riempirei la testa di strane voglie, tipo prendere a zappate in testa qualcuno. Se invece esco, posso zapparne un paio per davvero, e la mente resta libera. (Questo si che è zapping, mica voi coglioni davanti alla tv).
Cerco anche di concedermi un po’ di cultura e divertimento, anche se la mia non è che sia una città capace di offrire poi tanto. Ieri sono stato a una riunione dei rincoglioniti anonimi. Non c’era un cazzo di nessuno, perché i rincoglioniti non riescono mai a ricordarsi il posto e l’ora della riunione.
La sera prima mi sono beccato una conferenza sulla balbuzie. Una barba. Il relatore non la finiva più. Anzi, per essere precisi non cominciava mai. Si è preso una comoda ora e quaranta solo per dire Benvenuti: “B-b-b-b-b-b be-be-be b-b- beeeeee be-be-be-be-be…” Alla fine gli ho dato una zappata in testa e me ne sono andato via.
Era una brutta mattina di maggio, luglio, settembre meno un quarto, e il mio oroscopo vegetale (rimango sempre della verza, per ora) diceva: “Smettila di farti saghe, prendi una penna e scrivi la tua sega. Un giorno sarai ricco, e non dovrai più leggere di queste stronzate.”
Poiché sono un bastiancontrario solo a metà, con una mano continuai a fare quello che stavo facendo, ma con quell’altra obbedecqui.
E siccome non voglio che si dica che vi ho incula…ehm…incollati per ore a queste pagine senza fornirvi neppure mezza perla di saggezza, ma d’altra parte capitate male perché proprio non me ne vengono, facciamo così, dài: per la saggezza ripassate al prossimo libro. Oppure leggetevi la Tamaro.
Comunque, credetemi, aveva proprio ragione la bambina di quel documentario sui corvi: Non può piovere per sempre!
Già.
Cristo, c’è anche la grandine.

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