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PD: l’incapacità principale è nella sua comunicazione

Creato il 19 luglio 2010 da Anellidifum0

Sono incappato in un meraviglioso articolo scritto da Claudio Cerasa per Il Foglio, che spiega in modo veramente cristallino quale sia il principale problema del Partito Democratico: la sua incapacità comunicativa e linguistica. Nel mio piccolo, con Anellidifumo prima e con Anellidifum0 adesso, ho sempre sostenuto questa teoria. La comunicazione politica è uno dei campi che mi affascinano e nei miei studi sul Senatore McCarthy, uno dei massimi maghi della comunicazione politica del Novecento (ma attenzione: non della comunicazione televisiva, che fu proprio l’handicap che lo fece tramontare), ho più volte ribadito ciò che in fondo tutti noi sappiamo: se vuoi candidarti a guidare il Paese, occorre che la gente – tutta, soprattutto la meno scolarizzata – ti capisca e ti percepisca come emotivamente vicino.

Essere chiari. Non usare, per un politico italiano, il latino o l’inglese o altre lingue in campagna elettorale.

Ripetere: ripetere pochi concetti, poche frasi, poche idee ben precise. Tornare a ripeterle e ricordare al pubblico di averlo detto. Che poi è un elemento base dei manuali di propaganda (non solo politica) dai tempi dell’invenzione della radio, eh, non è che sia roba nuoverrima.

Parlare a tutti, non avendo paura di dire ciò in cui credi. Vuoi dare l’asilo nido a tutti quelli che hanno figli, e soprattutto a chi ne ha di più e ai più poveri? Il tuo slogan sia: “Un asilo per tutti i figli”. Che, implicitamente, contiene elementi difficili da far accettare ai più intolleranti e meno scolarizzati, tipo “anche per i figli degli zingari e degli immigrati e dei miliardari in euro” ma non c’è bisogno di starlo a sottolineare. Il messaggio che passa è quello semplice. Tu ripetilo mille volte ovunque tu vada, e sarai ricordato “come quello degli asili a tutti”. Parlare a tutti significa lasciar entrare un pochino di populismo, non c’è dubbio. Può far storcere il naso agli alto borghesi il quid di populismo, ma le elezioni politiche sono l’eccellenza del popolare e del populistico. Guardate all’oratoria dei grandi capi politici italiani di oggi: forse che manchi un quid di populismo in Berlusconi, Bossi, Fini, Casini, Grillo, Di Pietro, Vendola? Chi più, chi meno, certo. Ma c’è in tutti, e poi sta a te saper non eccedere.

Nell’articolo di Cerasa si fa una bella analisi di alcune famose opere di George Lakoff, linguista che studio con divertimento. Fra le cose imperdibili dette da Lakoff e ricordate da Cerasa:

E nella teoria di Lakoff creare un frame efficace significa essere capaci di usare con abilità simboli in grado di orientare le emozioni dei cittadini “in maniera da predeterminare l’accettazione o il rifiuto di un argomento prima ancora di un’analisi critica e razionale”. Tradotto significa che una volta imparato il meccanismo dei frame, i democratici saranno capaci di strappare il mondo dalle mani della destra.

Secondo il linguista di Berkeley, alla radice di molti problemi che tormentano i riformisti di mezzo mondo vi è una questione di carattere squisitamente culturale: un equivoco frutto di un esasperato riflesso illuministico che da anni tormenta i progressisti non solo americani. I liberal – dice Lakoff – hanno da tempo il vizio di considerare la politica come una realtà perfettamente logica e lineare: in cui la ragione conta più dell’emozione, in cui ogni cosa è prevedibile e in cui ci si illude che basta fornire scientificamente agli elettori fatti e cifre perché questi possano votare per il candidato migliore. E inevitabilmente, chiunque si opponga al nostro ragionamento non può che essere irrazionale, se non un imbecille.

Ma uno degli elementi centrali del bellissimo pezzo giornalistico è quello che tratta del rapporto fra partito e intellettuali, che in un certo senso riguarda anche me che in definitiva campo scrivendo libri e insegnando in università:

I progressisti italiani, bisogna dirlo, hanno sempre avuto un rapporto molto complicato con la narrazione della loro identità: un tempo la sinistra affascinava così tanto gli intellettuali da arrivare a condizionarne persino il pensiero; poi gli intellettuali hanno iniziato ad affascinare così tanto la sinistra da condizionarne in modo decisivo il passo politico; infine – e questa è la fase che più ci riguarda – gli intellettuali, dopo essere diventati il faro del partito, si sono allontanati dalla nave del pensiero progressista e la sinistra si è così ritrovata senza una rotta, e senza più punti di riferimento. “Le scelte politiche – dice Lakoff – hanno bisogno di un impianto narrativo. Emotivamente convincente per arrivare alla gente. Una corretta narrazione della politica è frutto di un’accurata selezione di alcune precise parole che siano capaci di provocare emozioni uniche”.

Ecco non si poteva dirlo meglio. A forza di circondarsi di portaborse e leccaculi, persone che non hanno semplicemente studiato abbastanza, e non sono in grado né di capire né di apprezzare cosa è “popolare” e cosa è “populista ma necessario”, il PD ha perso anche la capacità di dialogare con gli intellettuali che aveva un certo PCI, per lo meno fino al 1956, ossia prima dell’invasione sovietica dell’Ungheria. Ricorderete le parole irridenti di Togliatti contro Vittorini che, soffrendo, decise di restituire la tessera dopo i fatti di Budapest: “Vittorini se n’è iuto e soli ci ha lasciato”. Eppure, quando perdi una mente sola del calibro di Vittorini, e del calibro di tutte quelle menti perse dopo il 1956 (solo per citare un altro nome: Italo Calvino), se sei un politico con le antenne devi capire di essere TU fuori strada. E’ la linea del partito a essere sbagliata, allora come nel 1966, come nel 1984, come ai tempi del nucleare, come ai tempi della tiepidezza verso i matrimoni per coppie dello stesso sesso.

Molto interessante poi l’analisi di Gotor sullo stile linguistico di Bersani, che fondamentalmente è inadatta al lessico e allo stile di un leader politico nazionale che debba parlare a strati di cittadinanza anche molto diversi tra loro. Davvero un ottimo articolo, bisogna riconoscere che su Il Foglio di Ferrara ogni tanto cose del genere si leggono, mentre su Il Post di Baby Sofri ve le scordate. Sarebbe interessante cercare di capire perché ne Il Post c’è tanta mediocrità, tanto livore fuori posto contro, in particolare, altri giornali di opposizione come Il Fatto Quotidiano, anziché analisi della società o contributi intellettuali per smontare la macchina dell’egemonia culturale berlusconiana. Tutto questo nonostante abbiano, a Il Post, immagino un buon materiale umano di partenza. Forse è un eccesso di snobismo e di pensare d’esser sempre nel giusto e dalla parte della ragione. Un non mettersi mai nel dubbio di avere, in realtà, torto. Di vedere il mondo come “noi giusti e buoni”, dillà “sporchi e cattivi o coglioni”. Una caratteristica che è tipica anche di Berlusconi e de Il Foglio, ma il primo lo sa declinare in modo populisticamente vincente, il secondo lo abbandona spesso con riconoscimenti autocritici e capacità di indagine che non si fanno problemi di aiutare la parte creduta come avversa. Bravo a Cerasa, stavolta.


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