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Tutti noi abbiamo a che fare ogni giorno con flussi di informazioni, dati e cifre che ci arrivano dalle agenzie di stampa e dai telegiornali, che credono di misurare così la tragedia vissuta nelle “zone calde” del pianeta. Ma sappiamo davvero di cosa stiamo parlando? C’è qualcuno che sfama il nostro bisogno di narrazione? Ne abbiamo parlato con Maso Notarianni, direttore di Peacereporter e giornalista impegnato nell’attività dell’organizzazione umanitaria Emergency. La Rete della Pace infatti, fatta di storie e luoghi che sono spesso ignorati dal giornalismo tradizionale, porta la testimonianza di un modello sano di fare reportage, indipendente ed etico, che non si dice pacifista perché scrive di pace ma lo è perché parla di guerra: vivendo il lato reale dei conflitti per le strade e nelle case della gente, non dalla camera di un albergo.
Gli abbiamo chiesto quale sia l’ingrediente che manca nel giornalismo italiano, dov’è l’errore madornale che esso fa nel racconto della guerra. Ci ha risposto così: “Io credo che la tendenza del giornalismo italiano sia quella di non seguirle proprio, le guerre. È molto diverso sentire in Afghanistan ci sono stati 300 morti per una bomba che ha colpito un villaggio, oppure vedere l’orrore dei corpi lacerati dalle ferite, ascoltare le storie di vita interrotte e delle famiglie smembrate. L’11 settembre del 2001 è diventato un pezzo della nostra storia e della nostra cultura per come ci è stato raccontato, per come ci sono state fatte conoscere le storie di quelle vittime innocenti. Un ottimo lavoro, che però è tale solo se è fatto per tutte le vittime civili. Che oggi sono il 90 percento delle vittime della guerra”.
Ma oltre alle tecniche di narrazione inesistenti abbiamo anche un altro triste primato. Oltre che per la buona cucina, i poeti e i navigatori, ci distinguiamo per un’altra pratica tutta nostra: ignorare gli Esteri. “Nel mondo le prime pagine dei più importanti quotidiani sono dedicate agli esteri, così come le aperture dei telegiornali. In Italia gli esteri non sembrano interessare molto i direttori, e sono sempre relegati in fondo. Dopo la cronaca, dopo le paginate di politica. E per noi gli esteri sono quasi solo l’Unione europea e gli Stati Uniti, cioè una piccolissima parte del mondo”.
Eppure c’è qualcosa che il giornalismo può fare per la costruzione della pace, e non è una piccola cosa. “Bisogna reimparare a mostrare la vera faccia della guerra, il suo odore, il suo sapore. Raccontare una storia concreta, saper rendere le emozioni e le sofferenze. Non c’è bisogno di esprimere pareri e commenti: il fatto che la guerra sia la cosa peggiore che possa accadere è banale. Rendere questo concetto astratto una consapevolezza concreta non lo è affatto. Ci sono riusciti i nostri nonni raccontandoci l’orrore della seconda guerra mondiale. Ci sono riusciti i reporter che hanno contribuito a far finire il macello della guerra del Vietnam. Oggi, purtroppo, non lo si fa più. L’informazione ha perso un po’ il suo carattere di formatore dell’opinione pubblica, il suo carattere pedagogico, per stare dietro al mercato. Anzi ai mercati: quello pubblicitario e quello delle vendite. La sostanza è che non essendoci più editori, ma aziende editrici, il mondo dell’informazione è troppo legato al profitto immediato”.
Se c’è una cosa su cui i giovani aspiranti giornalisti devono riflettere, quindi, è l’etica di questo mestiere, ricordandosi di non cedere alle lusinghe del potere. “E per potere non intendo quello politico. Intendo quello nostro. Il quarto potere. Che lusinga, ma come tutte le cose lusinghiere rischia di far perdere la testa e il contatto con la realtà. Il mondo non sta nelle redazioni: nelle redazioni ci sono persone fortunate, che fanno una professione, un mestiere, e non un lavoro. Il lavoro è un’altra cosa, è quello che si fa in fabbrica, o allo sportello di un ufficio postale. Sempre che nella vita si voglia continuare a fare piacevolmente l’attività che occupa gran parte del nostro tempo e della nostra esistenza”.
Intervista di Valeria Gentile
[intervista]
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