Magazine Cultura

Pensare è la cosa più difficile al mondo

Creato il 31 marzo 2010 da Dallomoantonella

Pensare è la cosa più difficile al mondo

La santa disubbidienza

“La cosa più difficile  al mondo è sapere pensare”   B.  Pascal

Gesù detto il Cristo, Karl Marx, Sigmund Freud, Ernest Einstein, Maria la Vergine, Hannah Arendt …tutti uomini o donne eccellenti (per un credente cristiano sopra tutti Gesù essendo questi collocabile addirittura nella sfera della discendenza diretta con il divino); tutti uomini-donne   ebrei-ebree.

Che ci piaccia o che non ci piaccia,  la cultura ebraica  imperversa  ovunque, 

nella religione, nella politica, nelle scienze, nella medicina, nella filosofia…,  diffondendo il suo innegabile fascino; forse dipende dal fatto che  questo popolo  credo abbia una marcia in più, forse dipende dal fatto che realmente il popolo ebreo è sempre stato un grande protagonista della storia,  forse dipende dal fatto che credo che l’enigma di questo popolo abbia a che fare con le sorti di tutto il genere umano;  comunque sia  la faccenda, dentro la  mia riflessione  sulla condizione e sulle sorti  dell’umanità c’è sempre un ebreo, un israelita.

Ma poi mi si deve spiegare perché quando si sente parlare di un giudeo  – chiamiamolo pure in tutti i modi possibili senza nasconderci dietro le parole, intanto la sostanza non viene  certo modificata dal senso parziale e strumentale delle parole  – sento come farsi intorno alle parole un certo svuotamento, un certo  ritrarsi delle persone; l’aria si riempie di mormorii, c’è chi commenta: “Ancora gli ebrei, sempre gli ebrei, ma perché non se ne può fare a meno?” e chi commenta “Se non ci fossero stati ci saremmo risparmiati un sacco di problemi…” e chi commenta “Ma chi si credono d’essere, non vanno d’accordo con nessuno, dove vanno portano rogne” e chi ancora aggiunge “Guarda cosa hanno combinato in Palestina, sono andati là a fare i padroni a casa degli altri” e via di questo passo.

Vi risparmierei opinioni più basse che non meriterebbero  nemmeno menzione ma  che vengono  riportate solo perché se ne sottolinea  l’estrema indecenza,  ossia quelle becere che sosterrebbero che la Shoah non è mai esistita (lo si può dire solo se si è in mala fede o male informati), o che affermerebbero  che Hitler ha fatto bene a fare quello che ha cercato di fare, anzi, peccato che non ci sia riuscito a portarlo a termine ( idem come sopra, bisogna essere dei delinquenti per  affermarlo), o quelle che affermano che non c’è nessuna differenza tra loro ed il nazismo, visto che usano contro i palestinesi le stesse armi, gli stessi metodi ( c’è ancora molta differenza tra l’aggressione militare  dichiarata, comunque condannabile,  e la pianificazione nascosta/mascherata  e addirittura   razionalizzata e legalizzata  di un intero popolo)

Certo, come negarlo, quando si parla di questa razza, di questa appartenenza etnica, ci sono sempre complicazioni di ogni sorta e l’antisemitismo si nasconde dietro ogni piega di parola, dietro ogni alito di vento.

Di certe cose si può e si deve rimanere convinti, su alcune cose si può e si deve rimanere saldi: ossia sul fatto che l’Europa dagli anni venti fino alla fine della seconda guerra ha compiuto   un crimine contro l’umanità e non solo contro il popolo ebreo; che soprattutto a conseguenza di questo crimine un certo organismo politico ha deciso di consegnare in modo abbastanza discutibile una parte di Palestina a quella gente desiderosa di non essere più in diaspora; che la presenza degli ebrei in Israele, lungo la striscia di Gaza ed in territorio arabo ha spostato in modo assai più radicale l’anticaproblematica  della capacità di convivenza delle diverse religioni monoteiste, dall’Occidente al Medio Oriente.

Ed il Medio Oriente giustamente non ci sta; bisogna ammettere che loro si sono trovati da un giorno all’altro un inquilino scomodo in casa propria; bisogna ammettere che spesso la politica di Israele non è stata e non è adatta alla situazione, né viene pianificata per il bene comune o per facilitare intese e trattative di pace.

Un problema squisitamente politico e storico merita una soluzione squisitamente politica e storica, soluzione che sembra non volere mai arrivare per incapacità ed irresoluzioni di vario genere che i detentori del potere  come gli uomini illuminati  dovrebbero  potere  affrontare e risolvere con volontà  risolutiva.

Né Marx, né Einstein, né Freud e né la Arendt credevano nella possibilità indolore  della nascita di uno Stato totalmente ebraico e meno che meno in terra orami secolarmente a dominanza araba; inoltre   il sionismo non ha mai avuto la pretesa di risolvere per sé la questione degli ebrei, rimanendo molti di loro   gente infiltrata, mescolata, migratoria; gente apolide sparsa per il mondo.

Sto leggendo alcuni libri di Hannah Arendt, tra cui il suo  La banalità del male, storia di un processo tenuto a Gerusalemme, del processo tenuto contro Adolf Eichmann rapito in Argentina nel 1960, dove si nascondeva dalla fine della guerra sotto falso nome e quindi estradato in Israele.

A questo evento  la Arendt fu invitata in qualità di inviato da parte del New Yorker; ella era doppiamente interessata allo svolgimento  dell’inchiesta giudiziaria, prima in quanto  filosofa,   in seconda istanza  in quanto ebrea; la pensatrice rimase profondamente perplessa dall’andamento degli interrogatori e da quanto emerse durante le lunghe e numerose giornate di testimonianza dei testi,  non solo per le  dichiarazioni  rese  ma anche per le evidenti ed inevitabili difficoltà insite nella gestione stessa di un processo di questo genere,  dove sarebbe risultato  di prioritaria importanza sottolineare il valore universale  della lotta in difesa del Bene.

Quello non era un processo qualunque, era il processo  della Giustizia a difesa di se stessa, era il Processo dei processi,  era l’agire di un popolo a difesa e nel nome  di tutti i popoli, e questo secondo la Arendt non  riuscì  ad emergere in maniera adeguata, vuoi per la collocazione stessa   dell’evento, vuoi per le interpretazioni  personali  e complesse  date dai singoli diretti  protagonisti presenti all’epoca nell’aula.

Ma  con quale  profilo fu descritto  questo macellaio di carne semita?

Non emerse  nulla di particolarmente cruento e criminoso sotto il profilo psicologico dell’imputato; Eichmann era un uomo assolutamente normale, con una personalità assolutamente nella media, che rifletteva gli impulsi ed il comportamento dell’uomo medio, dell’uomo della porta accanto.

Unica vera mancanza : non avere un pensiero proprio e quindi non comprendere la differenza sostanziale tra il Bene ed il Male e quindi  non avere il senso della colpa.

Proveniente da una buona famiglia di sani principi cristiani, Eichmann fece, dopo un periodo di anonimato, una discreta e repentina carriera all’interno del Partito Nazionalsocialista e nello specifico delle SS dove si trovò iscritto più per caso e per opportunismo che per scelta volontaria.

Cosa curiosa: pur avendo mandato a morte con il suo contributo organizzativo  centinaia di migliaia di ebrei, di fatto non ne uccise mai personalmente e direttamente nessuno. Eichmann si pregiava  di questo e lo sosteneva come ragione sufficiente alla sua salvezza. Durante il processo disse chiaramente che non odiava gli ebrei, che non era un sadico, che soffriva nel vederli soffrire o meglio, che questo suo ruolo di cacciatore d’ebrei destinati alla morte gli aveva di fatto  tolto ogni piacere per il suo lavoro.

Tuttavia  questo funzionario del regime  fu anche   il bieco, ubbidiente, efficace e solerte esecutore di ordini ricevuti dai suoi superiori che a loro volta avevano avuto la sola colpa di dovere ubbidire alla sola legge imperante in quel periodo in tutta la Germania, la legge del Fuhrer, per la cui ubbidienza non era assolutamente necessario nessun ordine scritto, bastava la sua volontà che per sé stessa in quanto tale non ammetteva nessuna replica.

In altre parole, le ragioni della follia solo apparente di una nazione intera si sarebbero dovute ricercare proprio nella follia di un solo uomo, di un solo demone (e di qualche suo stretto collaboratore)  che aveva saputo portare la storia della Germania, quindi dell’Europa, quindi del mondo, in un inferno vivente.

Anzi, Eichmann interrogato durante il processo si definì addirittura una persona idealista, di sani principi, capace di fedeltà, incapace appunto di atti osceni o sadici; anzi, Eichmann si definì amico degli ebrei per averne salvati molti durante gli anni dedicati alla loro evacuazione,  giustificando  e mettendo a silenzio la propria coscienza, semplicemente con il dirsi: “Non sono io che lo voglio fare, è la legge che me lo chiede; del resto, lo faccio per il bene del mio paese, ossia mi si chiede questo atto eroico, che solo io probabilmente posso essere in grado di compiere.”

Dentro questa logica tutta deviata e perversa  perché pericolosamente  irresponsabile,  sta la disgrazia di un intero mondo che viene portato sull’orlo di un precipizio senza via di ritorno; dentro questo disegno criminale ma perfettamente studiato da menti assai più capaci e consapevoli di quella di Eichmann, si nascondeva la tragica odissea di un genocidio, l’innominabile vergogna di un crimine incancellabile  contro lo stesso genere umano.

Tra coloro che sono stati mandati a morire, ci sono stati per lo più uomini di qualunque genere, semplicemente sconosciuti ed anonimi, uomini, donne, vecchi e bambini  strappati alla loro normalità ed improvvisamente diventati solo bestiame da macello, con la sola colpa  di  non avere  protettori   occasionali; molti degli altri,  quelli meno anonimi, meno sfortunati, sono stati salvati, preventivamente selezionati per le loro caratteristiche distintive; non solo uomini appartenenti a famiglie importanti, ma ebrei con il merito d’essere di nazionalità germanica o ebrei imparentati con tedeschi per i quali bisognava, nonostante tutto, a dispetto della regola incontestabile,  sapere fare delle eccezioni.

In altre parole, le sorti del morire o del non morire sono state affidate non solo alla minaccia incombente del tempo, ma al caso, riposte nelle mani di un burocrate o di un piccolo esercito  di burocrati, che nell’adempimento  del loro lavoro (lavoro  che sarebbe  normalmente continuato anche in tempo di pace esattamente come è nella norma di intendere una mansione), poteva decidere “tu vivrai, tu non vivrai…”, così come noi cittadini qualunque  dovessimo andare al supermercato  e scegliere alcuni  prodotti sul banco,  decidendo di non acquistarne altri.

Ancora,  a giustificazione di questa tragedia  occorrerebbe  sottolineare  che lo stesso popolo ebreo avrebbe  avuto l’innegabile colpa di non sapersi ribellare, di avere sostanzialmente collaborato con il proprio carnefice, evidentemente con la convinzione di potersi alla fine salvare, come era sempre accaduto fino ad allora nella storia, e sempre attraverso lo stesso metodo, ossia  l’esborso generoso di denaro.

Sempre, quando interrogato, Eichmann non si è mai dichiarato colpevole o pentito; non colpevole per avere solo ubbidito a degli ordini che rappresentavano senza possibilità di contestazione la legge in terra; innocente e dunque non chiamato ad alcun pentimento.

Questo è il quadro sconcertante emergente alla fine del processo.

Potremmo dire che Eichmann assurge a simbolo di un popolo che ha solo dovuto ubbidire, che andrebbe semmai per paradosso premiato per avere saputo fare il proprio dovere nonostante la fatica oggettiva dell’adempierlo.

La vera lezione che la storia di Eichmann ci insegna è che non sempre il male è incarnato da orridi mostri e da demoni luciferini   sputanti   lingue di fuoco (come preferiremmo poterli rappresentare),  e nemmeno  da  grandi personalità  profondamente perverse ed   assatanate; in questo caso il male si è incarnato, o meglio, ha potuto con leggerezza  mietere le sue vittime, grazie ad un esercito di omuncoli che si sono limitati ad  ubbidire, incapaci di pensare che  è possibile non dare retta ai cattivi maestri, che  è possibile ribellarsi, che  è possibile girarsi altrove per fare altro, ignorando volutamente ordini mendaci, scorretti, ingiusti e folli. Basta sapere rischiare qualcosa, anche in forma minima,  non necessariamente bisogna diventare tutti eroi.

Qualcuno l’ha fatto in Germania in quel periodo tristissimo e duro (ecco la  lista dei Giusti   che non si sono sottratti alle loro  elementari  responsabilità di esseri umani ); come l’ha fatto qualcuno, (solo per citare un nome noto a noi Italiani vedasi l’opera del sig. Giorgio Perlasca ,  un perfetto sig.Nessuno che ha saputo fare cose miracolose semplicemnete spinto da un’idea precisa di  bene universale…), esseri umani come tutti gli altri, salvando  oltretutto  in tal modo decine e decine e decine di persone dai campi di sterminio, lo potevano fare in molti ed allora la storia della seconda guerra mondiale sarebbe stata un’altra storia con tutt’altre vicende ed un altro epilogo.

Non è sconfortante   pensare che sarebbe bastata la volontà di poche migliaia  di volontari civili e non civili per impedire o quantomeno sensibilmente ridurre od ostacolare  lo strazio senza nome e senza fine dello sterminio di milioni e milioni di esseri ( furono circa 70.000.000  le vittime della seconda guerra mondiale tra civili e non civili, di cui  circa 6.000.000  solo le vittime ebree)

In questo senso si deve parlare di santa disubbidienza; è santo disubbidire ad ordini che sono contro la dignità della persona, è santo disubbidire alle maggiori autorità, pur che fossero, quando queste stesse emanano leggi assurde, non semplicemente disumane, ma addirittura diaboliche, perché legalizzano ossia normano ossia normalizzano il perseguimento del crimine, che sia contro un solo individuo o contro una specie di individui.

Al singolo chiamato a dare obbedienza a queste leggi immorali e criminali, occorre dire che è importante che egli stesso si ribelli, ma per ribellarsi deve possedere e conservare la banale capacità di riflettere, ossia la banale capacità di distinguere il bene dal male, ossia la banale capacità d’avere un giudizio proprio ed una moralità propria essendo direttamente e personalmente chiamato a rispondere davanti agli uomini  e davanti a Dio (per i credenti) del proprio operato.

Non importa che un’intera nazione si dovesse macchiare  dello stesso crimine, non importa giustificarsi con la scusa della legge imposta; il bene non è un valore soggettivo e temporale, né spaziale; è un valore universale che vale per tutti, sempre e ovunque.

Il tribunale dei giusti è stato chiamato a giudicare non per banali istinti di vendetta o impulsi di parte; in questo senso la nostra filosofa osserva che sarebbe stato meglio un tribunale internazionale sotto il controllo dell’ONU ( come era accaduto per Norimberga )  e non solo israeliano, ma come non comprendere la scelta del nuovo stato di Israele  risorto  dalle sue ceneri  di  rifarsi protagonista della Storia,   tornando ad esercitare la propria sovranità attraverso un tribunale proprio , come una qualunque nazione  davanti al mondo,  per la prima  volta  dopo il  preistorico 70  d C.?

Adesso però  è semmai la questione  contraria che questa   democrazia   è chiamata a definire; fino a che punto è ammissibile  che si spinga  oggi il suo (di allora) bisogno di   giustizia? Non è la giustizia vera  sempre e comunque  giustizia per tutti? 

Le  risposte  sono urgenti  e prioritarie; interessano  tutte le nazioni, vanno preventivate  con la collaborazione di tutti  e detteranno il futuro di questo popolo    come il futuro del dialogo internazionale.  Anzi,  le stanno già  dettando    da tempo.

  

Pensare è la cosa più difficile al mondo
   Giorgio Perlasca

 


Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Magazines