Magazine Poesie

Pentèlite, anno 2 numero 1, nuova serie

Da Narcyso

Esce il primo numero di Pentèlite, secondo anno, 2015

Pentèlite, anno 2 numero 1, nuova serie

Ecco l'indice:

SAGGISTICA
Federico Fellini, romance di Jean-Paul Mezzogiorno, di Sebastiano Burgaretta
Piero Chiara, il fascino della provincia, di Renzo Montagnoli
Tarante, "canzuni" all'ombra del Barocco. L'ottava siciliana nelle "terre del rimorso" tra Salento e Sicilia, di Simonetta Longo
Lacerarsi nell'impoetico, di Sebastiano Aglieco
La poesia "a cura di": l'annullamento della figura del poeta in Lelio Scanavini, di Mario Buonofiglio
Eros: amare l'amore, di Salvo Sequenzia
Turi Rovella e i Fedeli d'Amore, di Salvo Sequenzia

RECENSIONI
Oltre la radura, tra dicibilità e canto, di Salvo Sequenzia
Lo strazio e la fede di un padre, di Paolo Fai
Il "gammelot" sortinese sostanza dei versi, di Paolo Fai
Notturlabio: la poetica del silenzio di Simonetta Longo, di Massimiliano Magnano
Kafka e il mistero del processo di Salvo Zappulla, di Grazia Maria Schirinà

PENTELIT'ARTE
Antonio Canova. La squisita grazia di Eros, di Luca Violo
Sir Lawrence Alma Tadema. La voluttà dell'antico, di Serena Guardabassi

Largo spazio è poi dato alle varie sezioni del concorso "Città di Sortino" e al concorso Avis Sortino "Donare e amare".

Pubblico qui il mio articolo "Lacerarsi nell'impoetico", che costituisce una riflessione riassuntiva sul senso del miolavoro condotto in questi anni sul web e in rivista.
Un grazie particolare a Massimiliano Magnano.

***

LACERARSI NELL'IMPOETICO
La pubblicazione del mio libro Giornata nel 2003, ha coinciso con la frequentazione della rete, la creazione sperimentale di blog, di siti, anche in funzione educativa; ne avevo inventato uno per i bambini di una mia classe, "I fantasmi del vascello perduto", in cui genitori e figli giocavano insieme e intervenivano.
Un altro fu dedicato alle attività di laboratorio teatrale con i ragazzi più grandi, seguiti in pomeriggi di forsennato impegno sociale al termine delle lezioni a scuola, nello spazio del teatro parrocchiale, a Monza, che un prete buono ci concedeva. "Teatrinsieme" si chiamò quell'esperienza, poi confluita in "Teatro Naturale", un'associazione culturale fondata con ex allievi spronati a seguire i bambini più piccoli e ad esercitare la loro creatività in un progetto condiviso; oltre a un'incredibile presenza dei genitori della mia classe di allora: una piccola comunità allargata, dunque, il cui progetto andava monitorato come esperienza formativa di eccellenza, tanto per usare un termine di cui spesso le istituzioni si riempiono la bocca a vuoto.
E poi un sito per l'associazione italiana di Teatreducazione, di cui ero uno dei fondatori, l'aite, palestra di pensiero e di pratica per l'educazione, spazio in cui anche alcuni miei ragazzi si esercitarono a crescere. Un sito fu poi dedicato alle scritture giovani e in formazione, "Scritture in Attesa", senza contare i diversi blog in cui mi sono occupato di poesia, fino all'attuale "Compitu re vivi"; ma già al 2003 risale il desiderio di incontrare una comunità perduta, quella della poesia siciliana, un mistero che si è squarciato provvisoriamente solo in questi anni con la conoscenza dell'opera di un poeta come Salvo Basso e di altri pochi poeti generosi e solidali che sono diventati miei amici.
Come si vede, dunque, già dall'analisi di queste esperienze "sociali" è possibile individuare una contraddizione per la poesia: da una parte il desiderio, ma forse l'istinto, un'urgenza tutta interiore, antichissima, di stare in contatto, di sentire la propria esperienza come una particella del più vasto tessuto delle esperienze; dall'altra la necessità di garantire al proprio mostrarsi, al proprio tendersi verso il mondo, quell'intimismo necessario che si oppone alla dispersione, al mostrarsi a tutti i costi, rischiando di squarciare il velo che separa e ci preserva dalla mercificazione del moderno.
Scrive Paolo Donini in un bel saggio apparso su ANTEREM e di cui vorrei commentare alcuni passaggi:
La violenza è il fondamento dell'impoetico. Ma la violenza è un paradigma impersonale, un paradosso assoluto e valevole per tutti. Per contro, la verità poetica si dà esclusivamente per ciascuno, e mai: per tutti.
Innanzitutto vorrei ribaltare il paragone e dire: "l'impoetico è il fondamento della violenza". L'impoetico è ciò che si oppone all'istinto della vita di espandersi e di mostrare le sue cause e i suoi effetti. Perché la vita chiede di essere glorificata nella totalità del suo corpo e agire impoeticamente vuol dire perdere la possibilità di rabbrividire della vita. Il poeta è tale in quanto vive la sua parola nella vita e vive la sua vita nella parola. Non può esistere contraddizione, per quanto mi riguarda, tra la necessità dell'essere in sé e l'inelluttabilità della piazza, della moltitudine. Metafora del poeta è colui che sa scrivere in mezzo alla solitudine della folla immergendosi in un brusio di sottofondo con gli occhi e le orecchie spalancate. Attentissimo. O che rinuncia a scrivere una bella poesia quando più urgente sia agire, per la dignità sua, dei suoi simili e della casa che lo ospita.
Se la violenza, dunque, è, come dice Paolo Donini, "un paradigma impersonale, un paradosso assoluto e valevole per tutti", la verità poetica non può che essere un gesto di responsabilità, proprio perché soggettivo. La verità poetica è, dunque, un agire, uno smuover/si nel mondo, un fare poesia non solo nella forma della parola, o più in generale di qualsiasi segno artistico, ma nel segnare il mondo della pienezza di sé. "Il male va nominato una volta sola", ho scritto in una mia poesia, "poi tocca alle persone buone"; questo perché l'amore si misura per sottrazione, per ciò che rimane ed è necessario; perché, questo agire in armonia con la necessità di un "fare", di un "vivere pienamente", è parola poetica che si carica di tensione, di uno sguardo capace di sdoganarla dall'ambiguità dell' estetismo fino a se stesso. Parola permeata, scrivevo a proposito dell'opera di Mandel'stam:
"Cosa succede alla parola, quando lo spazio si restringe e si fa più angusto? Come tutte le manifestazioni vitali - e la parola è una delle manifestazioni più vitali dell'essere - si gonfia fino a scoppiare, è costretta a cambiare misura. Come ogni rivolo che, imprigionato, cerca una via di fuga o svapora per nessuna speranza, così essa si imprime sui muri o, in mancanza di supporto, rimane fissata nella mente come una litania per tempi futuri: "Non sono impoverito né scheggiato/ma solo enormemente ingigantito".
Questa dimensione gigantesca nel perimetro della prigionia, pone la poesia in uno stato di forte eccitamento e pericolo; invettiva, visione, autoproclamazione, perdita delle misure: "è tesa la mia corda / e dentro la mia voce, dopo l'asma / risuona la terra, ultima mia arma". A Voronež, in cui il poeta è stato costretto a confinarsi, dopo versi pericolosi che gli sono costati la vita, il flusso di pensiero speculativo si è trasformato nell'ombra nera che riempie la stanza, prima che la follia ingoi la parola stessa. In questa condizione di pericolo e, paradossalmente, di disperata vitalità, lontana dai circoli e dalla moda dei salotti, la poesia ritrova il suo ruolo e forse il suo vero spazio: abitare la bocca: "non siete riusciti a estirpare le labbra che si muovono". Ma anche insegnare qualcosa: "Sì, sto nella terra, muovo appena le labbra, / ma ogni scolaro imparerà quello che dico". La parola, insomma, è diventata abnorme, permeata. Costretta, cerca il cunicolo della fuga, aguzza lo sguardo, vede cose che gli altri non possono vedere o non vedono più. Relegata negli oscuri spazi di un quaderno, ha attraversato gli anni bui di una specie di non Storia". (in La Mosca di Milano, giugno 2011)
Insomma, non credo che oggi si possa essere buoni poeti pensando di scrivere solo buone poesie, senza sentirsi personalmente e intensamente chiamati in causa dalle ragioni della vita. Non può esistere parola che contempli il vuoto, l'assenza o l'essenza delle cose senza partire dal tremore dello sguardo di fronte alla nuda realtà che ci circonda. L'incontro con la realtà è un tu per tu, disvelati, nudi, indifesi di fronte allo straordinario strabordare della vita, consapevoli che il sentire la vita è una tragedia dello sguardo che viene ferito dalla contraddizione del sentirsi uno e tanti, specchiati nei visi e velocemente ritratti tutte le volte che avvertiamo il fastidio dell'invasione dell'altro, il suo urgente interrogarci o sopraffarci.
Perché lingua è, dunque, corpo, ha una sua biologia. Lingua è testo, tessuto; conosce un suo frangersi e sfrangiarsi. Inutile dichiarare e assumere come vessillo una poetica del corpo, perché la poesia è, essa stessa, corpo che si frange e che si sfrangia dentro il vissuto del poeta e del suo lettore. Quando sentiamo la poesia in un certo modo, non possiamo che parlare del nostro corpo che vive e si chiede, proprio perché sostanza della parola che lo interroga e da cui è interrogato.
"Ecco il compito di ogni poesia: essere nel tempo, all'altezza del tempo, pena il silenzio. Essere luogo e fiato. Lacerarsi nell'impoetico. Accettando il tempo, accetto di morire, accetto di essere divorato con tutte le mie parole. Accetto di non essere potente", (in La Mosca di Milano, dicembre 2008).
Ancora Paolo Donini: "La verità poetica presiede a un avveramento sempre-singolare e la chance di quell'avveramento, aggredita e azzerata nel pubblico dominio dell'impoetico, si riforma e risana, nella flagrante singolarità dell'incontro poetico".
La parola accoglie singolarmente, nel gruppo. La parola ci riguarda personalmente. A quali parole, dunque, possiamo affidarci oggi? "Le parole non sono tutto. ci dev'essere dell'altro": questo pensiero di Eraldo Affinati viene da un luogo difficile e primitivo in cui di parole si può vivere o morire. Per assenza o per finzione. Per mancanza di un padre, di maestri. Per contatto con le dure forze. Per destino. Per ingiustizia. Per necessità. Viene da una scuola di frontiera. Se la poesia è un compito, un compito dell'uomo che permette agi altri di vedere attraverso il suo sguardo, lo sguardo deve tacere, riflettere prima di scrivere, annotare e ascoltare: solo dopo può parlare del dolore e consolare.
La poesia si dà e si riceve nel contesto di un numero ristrettissimo: chi scrive e chi legge declina la condizione di una èlite che si costituisce per naturale ordito della parola offerta e della parola ricevuta. Non per tutti; non nello spazio della mensa aziendale ma in quello del tavolo da cucina apparecchiato. Si entra in questo spazio per naturale desiderio e si riceve chi vuole entrare senza chiedere la carta di identità. Ma è chiaro che, in questo accogliersi, si configura il patto non dichiarato intorno a una parola che, come dice Paolo Donini, "realizza un avvenimento sempre singolare", per "ciascuno" e non per tutti. "Tutti" è moltitudine, "Uno" è il luogo in cui il senso della poesia trova la sua giustificazione e la vera luce che la investe.
Diciamolo fino in fondo: non esiste altro modo di diffondere la poesia senza che questa abbia varcato la soglia dell'amico più prossimo, del lettore desideroso di comprendere; ognuno trova i propri poeti e ne perde altri. Occuparsi dell'opera altrui viene da un desiderio di intimità, di specchiamento per somiglianza o per burrascosa alterità. E' in questo contesto di spazio piccolo che la poesia può proclamare persino il suo mutismo, la sua impossibilità a dire dell'altro che ha davanti; lo può fare perché sa che da qualcuno sarà accolta comunque, come il bambino che si mette nell'angolo della classe e dice a tutti la sua incapacità di stare con gli altri. Il maestro si avvicina, lo ascolta, lo sprona, gli parla, presenta il suo dolore davanti alla comunità; e il resto, il dopo, sarà il dono offerto a tutti, e ora gradito perché compreso, accolto: persino il dono del silenzio o del pianto.
Sebastiano Aglieco

Dio della voce ora calmaci
calmaci e custodiscici
dal vero nemico celato nelle parole.
Potenza delle azioni
che liberano e ci salvano:
non voglio essere amato
voglio amare.

(Sebastiano Aglieco, da "Giornata", La Vita Felice 2003)


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