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Per i quarant’anni di “Wish you were here”

Creato il 12 settembre 2015 da Marcolenzi

wish you

Quarant’anni fa esatti, il 12 settembre 1975, usciva Wish you were here, nono album dei Pink Floyd e uno dei dischi più conosciuti e amati dell’intera storia del Rock.

Non è facile per me parlare di questo disco con il dovuto distacco, essendo stati sia i Floyd che l’album in oggetto determinanti e fondamentali, per non dire decisivi, nella mia formazione non solo musicale. Prima ancora che mi mettessi seduto sulla poltrona ad ascoltarlo, nel lontano 1982, fu infatti nel momento stesso in cui vidi la copertina del long-playing, con i due uomini d’affari che si stringono la mano mentre uno dei due è avvolto dalle fiamme, che ebbi per la prima volta, adolescente, la sensazione che nella vita per così dire vi fosse dell’altro, e che questo ‘altro’ andasse ricercato e scoperto.

Tutta la musica dei Pink Floyd è permeata di questo “senso dell’altro”, di questa tensione irrisolta verso l’ignoto, ma in Wish you were here, forse più che in ogni altro loro album, la tensione si carica di quel peculiare stato d’animo, di quel misto di cupa malinconia e di sublime struggimento che ha finito per diventare la cifra più caratteristica della musica del gruppo, e forse degli stessi anni Settanta in genere, il cui Zeitgeist è compendiato in questo disco come in pochissimi altri.

Con The piper at the gates of dawn, Dark side of the moon e The wall, Wish you were here si contende il primato di miglior disco dei Pink Floyd; e se si colloca perfettamente nel solco di continuità che da Dark side porta a The wall, del primo disco costituisce invece la speculare antitesi: tanto fiabesco, visionario, colorato e scintillante è Piper, infatti, quanto cupo, ossessivo e amaro è Wish.

Il profondo rapporto che lega i due dischi è costituito dal fatto che Piper fu quasi interamente scritto da Syd Barrett, e lo ‘you’ di Wish si riferisce in primo luogo – anche se non esclusivamente – a lui e alla sua scomparsa dalle scene e dalla vita del gruppo. La leggenda vuole poi, com’è noto, che a suggello di questo legame segreto il fato avesse mandato Barrett stesso, completamente irriconoscibile nell’aspetto e con una busta di nylon in una mano e uno spazzolino da denti nell’altra, a curiosare in quel di Abbey Road mentre gli altri stavano riascoltando l’ultimo missaggio di Shine on you crazy diamond, uno dei due brani dell’album a lui espressamente dedicati (l’altro è la canzone che ha dato il titolo al disco).

Non amo le classifiche e quindi non saprei dire se sia o meno il più bel disco dei Floyd, ma so che era quello preferito da Richard Wright, il membro della band che amo di più. E infatti le sue tastiere, qui, raggiungono una statura epica: l’apertura (Shine on you crazy diamond part 1) e la chiusura (la part 9 del medesimo brano, ultimo contributo alla formazione ‘storica’ del gruppo espressamente attribuitogli) sono opera sua, e sono due dei momenti più alti dell’intero album. Il primo, con il suo sublime, lentissimo crescendo in Sol minore (forse, anzi senza forse, il più bel fade in della storia del Rock) sotterra, con la potenza evocatrice del suo suono, tutto il virtuosismo tastieristico dei colleghi prog: un suono ottenuto non si sa bene come (i PF in questo senso sono un ‘marchio’ che custodisce gelosamente le sue formule segrete, come Stradivari o la Coca-Cola) ma ancora intatto e attuale; un suono che, avrebbe detto Baudelaire, scava il cielo. Il secondo, un esempio perfetto di equilibrio tra struggimento e nobiltà di espressione, che scioglie le sue atmosfere cupe e disperate (ma quanto struggenti, in quegli irresistibili passaggi da Sol minore a Sib minore!) nella placida, luminosa inerzia finale in tono maggiore, sulla quale aleggia, proprio qualche attimo prima del fade out di chiusura, il tema di See Emily play: un commosso omaggio al genio di Barrett.

Ma vi sono, direi, almeno altri sei momenti memorabili in Wish you were here: l’arpeggio chitarristico di quattro note (Sib2 – Fa3 – Sol2 – Mi3) che apre la part 2 di Shine on, con quel suo carattere di vaga sospensione e di imminenza; l’inizio di Welcome to the machine, con gli scuri e minacciosi rumori della ‘macchina’ dai quali emerge – e con i quali si fonde perfettamente – la pulsazione regolare del basso; la sua chiusura, altamente suggestiva, con quel rumore in glissando ascendente (un ascensore?) che porta in una sala in cui si sta svolgendo un meeting di persone che chiacchierano e ridono; aggiungerei poi sia l’attacco che il finale di Have a cigar, il primo segnato da un uso straordinario del phaser, il secondo da un improvviso effetto di risucchio che sposta il brano dallo spazio ampio e aperto dello studio di registrazione a quello angusto di una radiolina portatile; infine, l’inizio della part 6 (la prima del secondo blocco) di Shine on, con quel vento (già utilizzato in un’altra icona del gruppo, One of these days) puntellato dai due brevi Sol0 in pianissimo al basso, dai quali poi si dipana la magica, ipnotica trama fatta di un’unica nota ribattuta (ancora un Sol al basso, ma un’ottava sopra): si tratta, davvero e in tutti i sensi, di icone sonore, di nòmoi moderni, di tracce impresse indelebilmente nel nostro immaginario culturale.

E se appunto parlo di “momenti memorabili” piuttosto che di “belle canzoni”, è proprio perché la grandezza dei Pink Floyd sta tutta in quegli attimi ineffabili, intrisi di mistero, che connotano molti loro brani; in quel “partire da nulla per pervenire a tutto”, per usare un’espressione che Morton Feldman aveva, pare, preso in prestito da Mondrian. Un beep, due note, un rumore, un’atmosfera: è lì che i Floyd sono davvero inimitabili, più che nella bellezza delle melodie (che pur ne hanno scritte, di belle) o nell’originalità delle armonie e delle forme. È il suono, insomma, a dominare, qui e altrove, nella sua nuda bellezza, privo di orpelli ma carico di un enorme potenziale espressivo ed evocativo: e infatti “The Pink Floyd Sound” era, non a caso, il nome originario del gruppo, mantenuto fino a poco prima del contratto discografico con la EMI. Un sound di cui Wish you were here è intriso fin nelle sue più intime fibre e al cui fascino è tuttora difficile sottrarsi.



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