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Per lo stato d’Israele la pratica della tortura è legale

Creato il 14 dicembre 2014 da Maria Carla Canta @mcc43_

mcc43

Specificità dello stato di Israele è differire dalle regole comuni agli stati democratici su temi sostanziali: non è dotato di una Costituzione né di una legge che definisca la tortura un crimine, la proibisca, detti le pene da applicare a chi la pratica.
A rendere poco note queste peculiarità israeliane concorrono il ricorso alla censura interna sui media, compresi i blog personali (*), e la politica per il web del Google’s Research and Development Center che sviluppa i suoi programmi presso le università di Haifa e Tel Aviv.

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da +972mag,

Il grosso problema è che la tortura non è un crimine secondo la legge israeliana. Già a priori questo è violazione delle disposizioni delle Convenzioni internazionali sui diritti umani ratificate da Israele, come la Convenzione contro la tortura, che vietano sia il ricorso alle torture che i trattamenti crudeli, inumani e degradanti  in tutte le loro forme. Tra le altre raccomandazioni, gli organismi internazionali per i diritti umani hanno ripetutamente invitato Israele a vietare esplicitamente la tortura adottando una legislazione in linea con questi trattati; ma fino ad oggi, non esiste normativa.
In parte perché la tortura non è un crimine, non vengono messi in atto procedimenti penali a carico di chi la mette in pratica, quindi senza possibilità di soddisfazione legale per le vittime.
Le Agenzie israeliane che utilizzano abitualmente la tortura nel loro lavoro – tra cui l’esercito, lo Shin Bet (Israel Security Agency), e le autorità carcerarie – godono di un’ampia impunità. Mentre l’Alta Corte di Giustizia e la dirigenza di vari organi statali interni danno l’illusione di esercitare supervisione e regolamentazione, in realtà queste “agenzie di tortura ‘sono essenzialmente libere di agire senza timore di sanzioni.
Questo è il motivo per cui centinaia di casi di tortura contro i detenuti sotto custodia israeliana non sono nemmeno mai stati indagati, e perché le pratiche quali l’alimentazione forzata dei detenuti in sciopero della fame può essere considerata legale.

Un ulteriore problema è l’apatia del pubblico israeliano e, spesso, l’approvazione del ricorso alla tortura da parte dello stato. Il dibattito negli Stati Uniti sul rapporto del Senato qualifica largamente l’uso governativo della tortura come una macchia sulla storia e i valori americani e riconosce che, nonostante presunte ragioni di sicurezza, la pratica è legalmente e moralmente sbagliata. In Israele la si vede in modo contrario. Non solo questa “macchia scura” è stata una realtà costante, ma molti israeliani ritengono che la tortura sia accettabile, giustificata e necessaria. Di conseguenza, non vi è quasi nessun dibattito pubblico al riguardo in Israele. I funzionari governativi attaccano spesso i gruppi per i diritti umani che tentano di sollevare il problema, accusandoli di voler demonizzare Israele o minare la sua sicurezza.

Il rapporto del Senato americano ha messo in chiaro che l’impatto di queste leggi e pratiche israeliane non resta confinato in Israele e nei Territori Occupati. Il riconoscimento da parte della CIA dell’ “esempio di Israele” come fonte di ispirazione e giustificazione per le proprie pratiche dimostra il pericolo dell’influenza che Israele esercita nel minare i principi giuridici internazionali. In considerazione di ciò, l’oltraggio espresso dal pubblico americano dovrebbe mandare il forte messaggio che le “scappatoie” di Israele per praticare la tortura sono legalmente e moralmente inaccettabili.

L’ articolo completo in inglese al link  +972mag, 


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Eiden Abergil idf

Eiden Abergil, IDF, una immagine “con i suoi trofei”  pubblicata nella sua pagina Facebook

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nota (+) nel 2012 era trapelato il caso del blogger Aishton, sottoposto a interventi censori per un articolo riguardante il suicidio di un soldato; nell’esercito d’Israele il tasso di suicidi è elevatissimo, tre casi in due mesi dalla fine dell’ultima operazione contro Gaza. La causa è la lunga leva obbligatoria e gli ordini che vengono loro impartiti.  Sulla censura dei media, anche del più importante sulla scena internazionale, Haaretz, vedere il caso dell’attivista Eran Efrati. 

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