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Per mantenere l’occupazione deve aumentare l’assorbimento del prodotto

Creato il 10 giugno 2013 da Sviluppofelice @sviluppofelice

euro-politiche-economicheAbbiamo chiesto ad alcuni economisti che cosa pensino della decrescita. È compatibile con l’uscita dalla crisi e con l’aumento dell’occupazione? Finora sono intervenuti Luigino Bruni, Mauro Gallegati, Ignazio Musu, Pier Luigi Porta. Oggi interviene:

Marco Dardi – Prof. ord. di Economia politica, Univ. di Firenze

Nella storia vediamo che dalle crisi economiche si è sempre usciti attraverso ristrutturazioni del tessuto economico pre-esistente. Non c’è ragione per cui non debba andare così anche questa volta. Ristrutturare vuol dire rottamare vecchi schemi di organizzazione e attività produttive e svilupparne di nuovi, con decrescite/estinzioni da una parte, crescite/nuove nascite dall’altra. In questo senso chi parla di decrescita non dice niente di strano e anche l’idea di cercare di trasformare la crisi in opportunità di rinnovo strutturale non è certo nuova. Si voglia o no, una ristrutturazione ci sarà comunque ed è giusto cercare per quanto possibile di pilotarla anziché lasciarsi andare alla deriva. Vista così, la questione non è di crescita contro decrescita, un’opposizione ideologica alimentata da slogan che trovo particolarmente mal scelti, ma di confronto sui contenuti dei diversi modelli o piani finanziario-industriali che vengono proposti in chiave anticrisi.

Il Maurizio Pallante che propone di investire nella messa in efficienza dei consumi energetici anziché in grandi infrastrutture come la TAV non sta argomentando per la decrescita, al contrario: confronta progetti diversi usando il metro della capacità di creare lavoro in relazione al costo e all’impatto ambientale e motiva la sua preferenza sulla base di calcoli che lui ritiene più accurati di quelli di chi sostiene la tesi opposta. Sui calcoli si può discutere, questo è già un fatto positivo; e quel che è meglio, si discute non di ideologie ma di che cosa serve a un paese come il nostro. Investimenti che creino lavoro sotto un vincolo di ecocompatibilità, questa è sicuramente un’opzione. Ma è sufficiente, ed è utile concentrarsi esclusivamente su questa?

Se siamo intrappolati nella crisi è per un concorso di blocchi concatenati: di domanda interna, per eccesso di pressione fiscale, disuguaglianza distributiva e aspettative depresse; di credito, per le stesse aspettative e per lo spauracchio dei vincoli di patrimonio bancario; di finanza pubblica, per la sfiducia dei mercati finanziari e per vincoli europei. Ognuno di questi blocchi richiede interventi mirati che a loro volta presuppongono stabilità politica e autorevolezza internazionale. Non mi sembra che nella ‘agenda decrescita’ questi temi riscuotano un interesse travolgente.

Se poi alziamo l’occhio dalla crisi di oggi e guardiamo in prospettiva più lunga, un minimo di aritmetica economica conferma che ci sono nodi che con l’agenda decrescita hanno poco a che fare – e non sto dicendo che il nodo ecologico non sia importante, ma che va visto in un contesto in cui ce ne sono altri. Provo a parlarne evitando la parola ‘PIL’ diventata, chissà perché, infetta. Siamo un paese maturo demograficamente stazionario con una certa capacità di generare progresso tecnico, in parte endogeno in parte derivante dalla nostra apertura internazionale. Non credo che sia desiderabile isolarsi e rinunciare a questo fattore di novità e cambiamento nelle nostre vite. Se vogliamo mantenerlo e insieme, altro obiettivo che credo non rinunciabile, mantenere un livello accettabile di occupazione è necessario che la capacità di assorbimento del prodotto cresca almeno alla stessa velocità della produttività: l’occupazione non si sostiene se ogni posto di lavoro non riesce, soddisfacendo domanda pagante, a riprodurre il suo costo più un margine sufficiente a tenerlo attivo. A regime, e a ritardi strutturali colmati, questa crescita della capacità di assorbimento non può venire dagli investimenti, che si limitano al mantenimento/rinnovo di una struttura produttiva al servizio di una forza-lavoro stazionaria. È giocoforza che ad assorbire la crescita del prodotto siano o l’esportazione netta o il consumo. E visto che il modello export-led nel nostro paese ha fatto il suo tempo, e lo farà prima o poi in tutti i paesi perché è un modello non universalizzabile, alla fine tutto il gioco ricade sul consumo. Tenere insieme progresso tecnico e occupazione richiede consumi in crescita, contro ogni aspirazione anticonsumista.

Nel nostro scenario di economia semi-stazionaria quest’ultimo punto non è senza problemi. Il consumo non cresce se non cresce la ricchezza; ma in un paese in cui le componenti reali della ricchezza sono commisurate a un fabbisogno stazionario, le uniche componenti che possono crescere sono quelle finanziarie. Ora, a parte il credito diretto al consumo (che ha le sue controindicazioni), ci sono solo due modi in cui la ricchezza finanziaria può crescere a parità di ricchezza reale, e cioè l’esportazione di capitali e l’allungamento delle catene di intermediazione finanziaria. In entrambi i modi le possibilità di tenere la capacità di assorbimento al passo con la produttività sono affidate all’espansione di un’industria finanziaria sempre più intermediata e internazionalizzata. Si obietterà – ma non è da qui che sono partiti tutti i guai dal 2007 a oggi? Infatti. E perciò uno dei nodi cruciali nel lungo periodo sarà quello, per fortuna non solo nostro, di tenere sotto controllo l’industria finanziaria per evitare che si espanda moltiplicando i rischi di sistema invece di ridurli come è suo compito.

L’alternativa è secca: con capacità di assorbimento stazionaria o in diminuzione l’occupazione si riduce, e davvero non capisco come si possa pensare che da questo venga qualcosa di buono. Un nucleo familiare non più in grado di provvedere a se stesso, non solo nel senso del consumo corrente ma anche di quel tanto di investimento che serve per l’educazione dei figli e per garantirsi sicurezza in età anziana, non può trovare compensazione nel di più di tempo libero da dedicare all’autoproduzione e alle gioie dello spirito.


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