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Per una rinascita del “Pensiero”

Creato il 01 settembre 2011 da Fabry2010

Per una rinascita del “Pensiero”

di Adelio Valsecchi

La vita del “Pensiero” è sempre stata impervia nel suo snodarsi lungo i secoli e sebbene abbia raggiunto altissimi vertici nella letteratura, nell’arte, nella poesia, nella musica, nella scienza, si è sfaldata, è diventata una retorica invenzione, un accessorio, là dove la ragione vuol riflettere su se stessa, sulle sue origini, i suoi confini; vuole comprendere la realtà in un orizzonte antropologico oggettivo, tentando di coglierne il senso. Che la filosofia abbia smarrito il suo ruolo? Che l’uomo abbia perso il suo istinto ingegnoso nel risollevarsi e ricomporre una società inebetita dall’improntitudine e dall’ignavia?

Il sovrabbondante sviluppo della scienza e della tecnica che oltre ad aver ridotto la distanza dalle culture e dai continenti, con le innovazioni tecnologiche ha trasformato il nostro modo di vivere, la percezione del tempo e dello spazio, ha forse allontanato Dio dalla storia dell’uomo?

Oppure, come si impegna a dimostrare Emanuele Severino nei suoi saggi, l’uomo si è trovato in un nonnulla, schiavo del prodotto costruito con le sue mani. L’homo faber ha sovrastato l’homo cogitans. O Forse per lungo tempo si è protratta l’assenza di una autorevole filosofia nella formazione dell’uomo all’interno del mondo universitario. Così, proiettato fuori di sé nell’azione, l’uomo ha smarrito l’orientamento.

Non si vive oggi solo la crisi del pensiero, ma in modo particolare della filosofia da quando Cartesio con il “Cogito” ha voluto svuotare la coscienza di ogni contenuto. La cosa sconcertante è che tutti gli espedienti per colmare l’essere della coscienza si sono rivelati vani per il continuo alternarsi di sistemi filosofici di carattere aporematico, in modo particolare nel secolo più intenso e violento, il XX..

La filosofia che oggi sembra ai margini del pensiero, soffre di un profondo disagio: l’insignificanza, l’incapacità di riagganciare l’uomo al reale. Siamo a un trivio : o affidarsi ai poeti che sono “gli inconsolabili consolatori del mondo” come ci avverte il poeta ellenico Odisseas Elitis o seguire il mondo poetico di Leopardi che testimoniava come la poesia fosse l’ultima illusione di salvezza offerta agli uomini. E per chi non ha il cuore caldo come i poeti, può, per qualche latente affinità, essere sedotto dal pensiero forte di Heidegger che sosteneva come il compito primario della filosofia è di riportarsi al fondamento del reale, di scoprire il logo originario, di fare quella prima affermazione di verità che è la presenza all’essere, quel luogo dove si accoglie ogni richiesta di verità. Ma i grandi pensatori si sono persi nel marasma di un pensiero debole che fa perdere l’attitudine al “Pensare.” Anche i più probi mecenati del pensiero, si sono arenati tra i rovi inestricabili della filosofia del probabile e del contingente.

Pochi si sono accostati alla speranza ( intesa come determinazione eroica dello spirito umano) nell’Essere in tutte le sue dimensioni. Ma per sperare forse bisogna vincere la disperazione dell’ignoranza, della neghittosità, e del comodo relativismo che spegne la vitalità al mondo e alla vita. Sembra che si sia insinuato in alcuni tratti del pensiero contemporaneo, la voglia di vivere in fretta per l’ansia dei brividi che trasmette il timore. Timore che diventa paura di vivere non di morire. Dobbiamo invece riconoscerci in un pensiero vigoroso altrimenti scambieremo la realtà con i sogni, la morte con la vita e non è certo un bel lascito all’umanità ventura.

Per quanto stimabile sia lo sforzo propulsivo che hanno dato Martin Heidegger, Ugo Spirito, Cornelio Fabro al pensiero contemporaneo, è proprio a causa di una globale arrendevolezza che la filosofia ha perso il suo primato in seno alla cultura e si è generato il suo distacco dal palcoscenico del mondo.

Forse perché “l’amore per il sapere” non cerca un confronto concreto specialmente quando la ricerca scientifica, che si allarga a dismisura senza regole condivise, senza un progetto etico ponderato, ha bisogno di un’ antropologica filosofica in cui l’uomo come individuo e la società nel suo insieme, siano centro e confine del progresso, nel rispetto dei diritti, della dignità e della libertà della specie.

Perchè la filosofia possa avere un sussulto verso l’alto, deve chiedersi : qual è il rapporto costitutivo fra essere e pensiero? Che significa per l’uomo pensare? Ma la cosa che più dà a pensare è che da quando il Cogito si è annichilito, noi non sappiamo più che significhi pensare.

Strana nemesi della modernità che voleva fondare la più alta filosofia partendo dal “Cogito” cioè dal pensare di pensare e ora ammette non solo di non saper più dirci cos’è il pensare, ma che è un illusione la stessa speranza di potervi riuscire. C’è una sorta di deformazione parodistica del pensiero. Mala tempora currunt! Quando il pensiero si ingarbuglia fra speculazioni sistematicamente contrapposte e irridenti aporie non c’è terra fertile su cui poter costruire un pensiero che unisce e si allarga accettando i suoi limiti naturali, che si rigenera senza timore di perdere spazi, ma con la speranza di condividerli superando reticenze e steccati. Le “Idee”con un briciolo di igiene mentale o si costruiscono nel dialogo senza far sovrapporre le une alle altre o si sbriciolano, perdono consistenza. Sono lo specchio del nostro narcisismo. Abbiamo poco tempo per imboccare la strada giusta che c’è, ma l’uomo è cieco, non la scorge per inettitudine e spavalderia.

In modo particolare oggi, come ci aggiorna la giornalista del Corriere della Sera Maria Teresa Cometto (1) commentando i risultati di un seminario tenuto all’Istituto Italiano della Cultura a New York. Alcuni studiosi di filosofia, psicologia, economia, computer science, dibattevano sull’ipotesi se l’uomo avesse una razionalità limitata partendo dalla pedagogica metafora delle forbici elaborata dallo psicologo cognitivo Herbert Simon : « una lama è la natura del nostro modo di ragionare, e prendere decisioni con tutti i limiti di tempo, l’altra lama è la natura dell’ambiente in cui prendiamo le decisioni. A volte la prima lama si combina bene con la seconda e le forbici della razionalità funzionano; altre volte non succede. Dipende dalla nostra capacità di adattarsi all’ambiente » E alla domanda : sappiamo come misurare le potenzialità del nostro pensiero non c’è risposta. Anzi c’è. Ma è raggelante : «non lo sappiamo ancora».

E per sollevarci dallo “sconforto” il biologo molecolare Edoardo Boncinelli ci sorprende con la scoperta di alcuni ricercatori di Cambrige che hanno documentato come il cervello, alveo del nostro pensiero, è « condannato a rimanere al più quello che è, per raggiunti limiti di sviluppo ». Per due motivi : « dovremmo avere i neuroni del cervello sempre più piccoli. E questo è quasi impossibile. In secondo luogo la materia celebrale consuma uno sproposito di energia, il 20% del nostro bilancio energetico. In parole povere, il nostro cervello ci costa troppo. I neuroni sono circa 100 miliardi e questi devono essere accuditi da un numero ancora maggiore di cellule di contorno, le quali « non pensano », ma ci permettono di pensare. Queste considerazioni sembrano lasciar poco margine a una espansione delle nostre capacità mentali, anche in un futuro remoto».(2)

Il pensiero filosofico non può simulare la realtà come fa la poesia. Può semmai provare, con la passione della mente a disbrogliare le cose complesse per renderle accessibili, senza imporre la sua voce e le sue ragioni, ma all’interno di un dialogo aperto e costruttivo, in assenza di remore; non per erigere una torre di Babele, ma per costruire un pensiero solidale con l’uomo che non ricerca il simulacro della realtà e della verità ma il fondamento dell’Essere perché la vita e la persona non siano un’effigie del nulla ma il baricentro del mondo.

Il nostro pensiero riconosce che Madre Natura non è colpevole né dei nostri limiti né delle tragedie che provoca all’umanità perché tutto ciò che fa è un diligente ossequio alla legge fisica che abita nel suo DNA. Ma se da una parte le nostre potenzialità cognitive non possono superare certi confini, dall’altra, la Natura, protegge gli esseri viventi da certe esasperazioni nel campo della percezione, dell’orientamento, dell’azione per poter esplorare il mondo, elaborando concetti. Per poter pensare. E ancora Edoardo Boncinelli sul Corriere della Sera nella recensione del saggio “ La semplissità” di Alain Berthoz scrive « Se noi vedessimo tutto quello che ci circonda non potremmo vedere niente e fare niente. I nostri occhi sono sensibili solo alla luce che rappresenta un piccolissimo segmento di tutte le possibili onde elettromagnetiche.» Se si vedessero le onde radio di tutti gli strumenti multimediali che utilizziamo, « ogni ambiente circostante sarebbe opaco come pieno di fitta nebbia». L’occhio attraverso la nostra percezione filtra l’ambiente e tra una miriade di potenziali figure sceglie ciò che serve al nostro agire. «Ė una semplificazione costruttiva per la nostra sopravvivenza ma è solo un preambolo alla concettualizzazione e alla coscienza. I viventi sono un miracolo e noi un miracolo nel miracolo». (3)

La scienza è un sapere circoscritto, può fare grandi conquiste senza essere arrogante, senza vedere come reali le cose invisibili solo immaginandole, senza avvilirsi se il nostro pensiero non potrà superare il recinto che la natura gli ha imposto per sopravvivere. Sarà comunque e sempre una fucina di imprevedibili misteri.

Sulla stessa linea il filosofo Ludwig Wittgenstein si sofferma a considerare che, se pure le possibili domande della scienza ricevessero una risposta, i problemi della nostra vita non sarebbero nemmeno sfiorati. Per dare valore al nostro discernimento, dovremmo conformarci a quel principio per cui, su tutto ciò di cui non si può parlare, è meglio tacere. Ė la virtuosa umiltà degli uomini intelligenti. Il filosofo viennese, quasi a scuotere chi ricerca quel paradigma esaltante dell’uomo che è la razionalità, scrive con tono faceto nel suo Tractatus logico- philosophicus” : « La maggior parte delle questioni che sono state scritte in filosofia non sono false ma insensate ».(4)

Ė necessario offrire all’uomo un codice che permetta di indagare la realtà con ordine logico, a largo spettro, senza parsimonie. Specialmente quando saremo in quel luogo i cui confini sono inaccessibili al pensiero, nel groviglio inestricabile delle domande che si sovrappongono e contrappongono sarà meglio tacere per aprire l’orecchio ad altri linguaggi, ad altri suoni, cercando corrispondenze legate al sentire che viene dalla dimensione poetica dell’uomo. Per dare risposte senza crucci nel cuore. Perché, se le domande sono dovute, le risposte possono essere controvertibili ma non devono essere stolte. Ne va della nostra dignità, qualunque siano le nostre congetture. Qui non c’entra il senso della filosofia ma la filosofia del buon senso. Non è incoerente porsi l’interrogativo sulla la vita, la sua origine, il suo fine, sull’esistenza del mondo e il suo processo di evoluzione; sull’uomo e il suo ruolo in questa terra; ma a tali quesiti non si è ancora risposto in modo esaustivo. Al bando lo scetticismo! Non possiamo sospendere o rimandare il giudizio sul fondamento dell’uomo e della sua esistenza. Forse la mente umana, interpretando l’epopea della filosofia, può svelarci il sentimento profondo della vita anche con la garanzia della ragione; ci richiama al pudore del desiderio di capire quale architetto ha immaginato un mondo così complesso nella sua bellezza e nel suo Essere. Come a dire che forse l’uomo ha una naturale tensione (se non vive solo per sé) alla trascendenza come istinto naturale al bene che si apre al bene-ficio (al fare il bene), alla giustizia autentica, che orienta la verità a svelarsi per essere, come è per sua natura, evocatrice e pronuba della libertà.

Su altre modulazioni teoretiche si pone il filosofo Emanuele Severino. Dopo una lunga e brillante ricerca filosofica, con grandi successi editoriali, sembra aver frenato il suo creativo entusiasmo perché la logica delle sue idee a volte perde le coordinate e diventa arrendevole come se i dubbi si impennassero e travolgessero le più soppesate certezze. Egli è legato alla persuasione che la cultura occidentale ha eretto il suo pensiero sulla « fede nel divenire » la quale, rispondendo alla “logica del rimedio” ha riesumato gli “immutabili”gli “eterni” che possono essere configurati gli archetipi dominanti a seconda dei tempi : le leggi della natura, le leggi etiche o politiche, la civiltà della tecnica, il libero mercato, Dio. E spiega con slancio il suo travaglio. Nella genesi della civiltà, il Primo Tecnico, Dio, crea il mondo dal nulla ma può quando vuole, sospingerlo nel nulla. Oggi la tecnologia e la scienza (Ultimo Dio) come se fossimo al tramonto dell’umanità, ricrea il mondo e ha la potenzialità di annientarlo. La sua è una critica splenetica che non rende merito alla filosofia occidentale. Ha la certezza che l’uomo cercherà sempre un antidoto all’angoscia del futuro elaborando un’originale interpretazione del nichilismo. Parte dall’assunto che l’uomo sia un niente, sia quando non è ancora nato, sia quando cessa di vivere. L’uomo è solo un lampo di tempo. Un lampo di vita. L’Occidente ha avuto la pretesa (secondo Severino) di conferire “realtà” al divenire e accogliere il divenire significa attestare che l’essere possa non essere più. Questa ermeneutica della realtà non è solo speculazione, ma risponde all’istinto di dominio e di potenza che imbaldanzisce da sempre una monotona filosofia che si inebria per nulla. Se l’uomo, non è niente, la sua condizione di nullità lo porta a vivere pienamente il gesto del dominio che è insieme ragione e volontà dominatrice sulla natura.

Se il nichilismo interpretato da Severino è un’aberrazione costitutiva della cultura dell’Occidente, l’unico rimedio, conferma il filosofo, consisterà nel forgiare una nuova ontologia di tipo “Parmenideo” che tolga il velo all’illusione del divenire e renda possibile una nuova forma dell’agire e del pensare umano. Tutto sta a capire se poi l’Essere di Severino è sostanza nel limite o è il capriccio del Caso. Infatti il filosofo si scuote liberandosi dall’angoscia del significato sfuggente dell’Essere come Verità e nello sconforto, descrive il suo disinganno : « Ci attende la Non follia, l’apparire dell’eternità di tutte le cose: noi siamo eterni e mortali (osssimoro permesso ai poeti ma non ai filosofi) perché l’eterno entra ed esce dall’apparire. La morte è l’assentarsi dell’eterno ». (5) Se la filosofia è un costruire creativo ma senza un adeguato progetto per l’uomo, si allontana quell’antropocentrismo che è premessa di un vero pensare partendo dall’uomo e i suoi limiti, senza i capricci di un andamento rapsodico del pensiero che si contorce e svuota di significato le sue stesse parole.

Al contrario il pensiero deve rigenerarsi, recuperare valori condivisibili che inducano a smussare ogni concrezione spigolosa tra ragione e sentimento, tra beni particolari e solidarietà sociale. Dobbiamo costruire un pensiero che unisca l’umanità non attraverso l’esaltazione dei diritti umani ma la pratica di questi valori, imprescindibili fondamenti di una rinnovata società il cui dinamismo possa raccordare più che disgregare nonostante gli imprevedibili scarti delle nostre diversità e affinità culturali. Per il decoro della verità, che coltiva il seme della comunanza di principi, di ideali, lontani dalla demagogia e dalla dissimulazione.

Sarà per questo che l’ateo J.P.Sartre, prigioniero in un campo nazista, sentì il bisogno di scrivere nel 1940 per i suoi compagni di prigionia nel campo di Treviri un dramma dedicato al Natale dal titolo “Bariona o il figlio del tuono. Racconto di Natale per cristiani e non credenti.” L’iniziativa non nasce dalla conversione del filosofo ma, in un momento in cui la dignità umana aveva il volto deturpato dal morbo dell’odio, era un atto di solidarietà verso gli intellettuali e due preti amici, compagni di baracca, per una festa che configurava l’epifania di Dio come il trionfo della libertà sulla la schiavitù, l’affermazione dell’amore sull’indifferenza e l’inimicizia.

La rappresentò come se fosse « una missione da vivere con la stessa onestà con cui un cristiano vive la sua vocazione. Si trattava semplicemente, d’accordo con i preti prigionieri, di trovare un soggetto che potesse realizzare, in quella sera di Natale, l’unione più vasta di cristiani e di non credenti».( 6) Il dramma fu messo in scena la notte di Natale del ‘40 con la commozione di tutti i prigionieri credenti e non credenti e Sartre interpretava la parte di Baldassarre, uno dei Magi.

L’acceso contrasto fra il luogo infame del campo di prigionia che richiama all’odio e alla guerra e la rappresentazione della festosa nascita di un Dio bambino che scende sulla terra come servo dell’umanità, rievoca il mistero di un amore così grande che non va oltre il confini invalicabili del pensiero ma si ferma nel cuore dell’uomo, dove ogni timore si dissolve nel segno della gratitudine.

Questa irrinunciabile relazione – tensione fra Dio e l’uomo, viene descritta nel linguaggio della poesia dal filosofo Cornelio Fabro in “Appunti di un itinerario” : per l’uomo «l’infinito non è soltanto ciò che lo trascende e che egli progetta di raggiungere, ma è già dentro di lui come principio che lo spinge: altrimenti l’uomo come lo cercherebbe? Come potrebbe sentire il bruciare dell’assenza e smaniare per ottenere la presenza?».(7)

Per gli uomini che amano gli alti orizzonti l’idea di trascendenza è inestirpabile, anche perché sono consapevoli che le conquiste del pensiero, possono generare un paradosso : più la scienza allarga le sue conoscenze dell’universo, più comprende la profondità della sua ignoranza; più il pensiero alza il vessillo delle sue conquiste, più acquisisce la certezza della sua contingenza. Ma non c’è resa a questo disagio se comprendiamo che le grandi scoperte dell’umanità rimandano a un Oltre. Diventano segni plausibili della nostra creaturalità. E il senso della vita con le sue ragioni trova giustificazione e fondamento.

C’è sicuramente un vallo che separa coloro che ricercano la dimensione dell’essere e la possibilità di un rinvio a qualcos’Altro e coloro che vivono solo nel presente e spendono la vita veleggiando a vista, senza porsi domande, vivendo a intermittenza il loro malessere (mal- di- essere) o abbandonandosi all’ accidia esistenziale che trasforma l’eredità dei profeti del Bene in arredo inutile per il futuro. Questi figli di un dio minore perdendo, ahimè, il senso dell’essere, finiranno per provare una lacerante nostalgia del senso dell’esistere.

Da quando la filosofia ha rinunciato alla ricerca dell’Assoluto e si è pronunciata per la problematica del finito e dell’apparente, la scienza ha ancor più rivendicato a se stessa, ai suoi metodi d’indagine di poter occuparsi del mondo dell’apparenza con più competenza ed efficacia. Tra filosofia e scienza, fra la ragione che riflette sul fondamento e la ragione operante nel mondo fisico, si deve auspicare un rapporto di convergenza e non di subordinazione. Dobbiamo riportare il pensiero a occuparsi dei fondamenti della realtà in modo costruttivo. Se la ragione non cerca più la verità tutto ciò che si pensa si fa inutile pretesa. Un’ esortazione. Ritorniamo all’ antica Sapienza che ci ha sempre invitato al contatto diretto con il mondo reale. Forse il nostro “Pensiero” troverà un giusto equilibrio fra l’ io, la sua forte identità e il noi che ama invece la condivisione, la partecipazione, la corresponsabilità. Tale binomio, se trova terreno fertile, può sollecitare un nuovo rinascimento del pensiero contrastando la decadente cultura egemone, sempre riottosa a un ideale regolatore, per fondare una filosofia che possa cooperare a promuovere un trasalimento dal punto di vista teoretico affinché il pensiero collochi l’inizio di se stesso nell’essere e la ragione possa fare « il passaggio all’Assoluto ». Il filosofo ha una responsabilità sociale enorme : deve pensare non solo per sé ma per tutti perché per definizione è colui che anela alla verità e l’esito della sua riflessione lo vincola alla corresponsabilità delle conquiste e delle disfatte dell’umanità.

Ė già presente nel germe della filosofia cristiana una visione della realtà nella quale l’uomo, la natura e Dio sono “armonico connubio” e non dissidio. Questo può offrire un nuovo respiro alla cultura occidentale che ha purtroppo inteso educare alla saggezza senza praticarla. Perché ha troppo da fare. Non si è mai sopita la speranza che l’uomo sia sempre più degno della sua intelligenza. L’alternativa di un nuovo degrado lo annienterebbe trasfigurando la voce del suo pensiero in un apocalittico silenzio. Alziamo la testa. Mettiamo al centro del nostro pensiero l’uomo e il senso del suo essere. Forse sedurremo la verità. Come i puri di cuore, che senza lasciare la terra. sanno andare oltre i confini del pensiero, nel luogo in cui il limite diventa eternità.
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Maria Teresa Cometto,Corriere della Sera, 11 Agosto 2011
Edoardo Boncinelli, Corriere della Sera, 1 Agosto 2011
Edoardo Boncinelli, Corriere della Sera, 24 Agosto 2011
(4) Ludwig Wittgenstein, “Tractatus logico-philosophicus” prop. 4.003.)

(5) Emanuele Severino, Corriere della Sera “Il mio ricordo degli eterni”

(6) J.P. Sartre “Bariona, il figlio del tuono,” dalla presentazione italiana del dramma di Antonio Delegou; Milano

Ed. Marinotti, 2003 curata da Claudio Tognonato.

(5) Cornelio Fabbro, “Appunti di un itinerario 8-IV- 1980.” Martedì di Pasqua, Avvenire 14 /8/ 2011



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