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Perché facciamo fotografie? Intervista a Maggie Steber

Da Ragdoll @FotoComeFare

Nell’intervista che segue la fotografa Maggie Steber ci parla di difendere il proprio punto di vista e puntare la fotocamera su noi stessi e ci racconta l’eroismo misconosciuto dei photo editor e lo “stile da Università del Missouri”.

Come fotografa documentarista, Maggie Steber ha fatto man bassa di premi. Come photo editor di un quotidiano, nonché insegnante, ha donato consigli, supporto ed energia a centinaia di persone. Si muove nella linea sottile del compromesso tra il rispetto per i suoi soggetti e il rispetto per i suoi spettatori.

A volte le sue immagini sono difficili, ma anche il mondo è fatto così. Le immagini di Steber sono sempre piene di vita.

Per Blink, Kyla Woods parla con Steber di cosa cerchi nelle immagini e nei creatori di immagini. La tecnologia sta certamente cambiando le cose, ma il centro nevralgico di una fotografia è ancora fondato su una storia e una buona idea.

Kyla Woods (KM): Sei una fotografa ma hai lavorato anche come photo editor, vero?

Maggie Steber (MS): Sì, sono una fotografa documentarista e una photo editor. Ho lavorato in sessantacinque paesi, nell’arco di parecchi anni.

Ho creato diversi progetti a lungo termine. Uno su Haiti, su cui lavoro ancora dopo trent’anni. Un altro era incentrato su mia madre, che ha sofferto di amnesie per otto anni.

Inizialmente queste immagini erano pensate per essere solo mie. Però, alla fine sono diventate un progetto che ho reso pubblico per condividere quello che ho imparato.

Non solo per parlare dell’esigenza di prendersi maggiormente cura delle persone, ma anche in termini di testimonianza della parte finale della vita di una persona che ha significato molto per te.

Perché facciamo fotografie? Intervista a Maggie Steber

Un ritratto di Madje, la madre di Steber. Dalla serie “Madje has dementia“.

Ho lavorato anche come photo editor e direttrice della fotografia in un quotidiano importante.

Adoro guardare le fotografie fatte da altre persone, potrei farlo per tutto il giorno. Mi emoziona l’idea che tutti vedano le cose in maniera diversa.

KW: Per quanto tempo hai lavorato nell’industria dei media?

MS: Non voglio specificarlo, diciamo che è stato per moltissimo tempo.

Il motivo per cui non voglio parlare di date è che mi preoccupa la discriminazione basata sull’età.

Nel senso che, quando sei nel giro da diverso tempo, le persone ti conoscono e pensano: “Oh, lei fa questo e quello”. Intorno a te c’è meno mistero, meno senso di avventura o sorpresa, e questo ti obbliga a dover lavorare costantemente per reinventarti.

Soldati di Haiti inseguono un bambino che cerca di rubare una scatola di aiuti alimentari da sotto la serranda di un magazzino sollevata durante le sommosse per il cibo a Cap-Haïtien, una settimana prima che i tumulti portassero alla caduta della dittatura trentennale di Duvalier. Gennaio 1986. Foto: Maggie Steber.

Soldati di Haiti inseguono un bambino che cerca di rubare una scatola di aiuti alimentari. La serranda del magazzino è stata sollevata durante le sommosse per il cibo a Cap-Haïtien, una settimana prima che i tumulti portassero alla caduta della dittatura trentennale di Duvalier. Gennaio 1986. Foto: Maggie Steber.

KW: Posso chiederti meglio di questa categorizzazione di cui parli? È una mentalità molto diffusa nell’industria dei media?

MS: Ci sono molti fotografi, e molti si specializzano in un dato genere o in un certo soggetto o linguaggio visivo, diventando famosi per quello. Però, anche se si specializzano, in futuro potrebbero cambiare il loro stile.

Nel contempo, ci sono persone come me che amano fare molte cose diverse. Ho avuto la fortuna di lavorare con il National Geographic per molti anni, ma ora la gente pensa che questo sia tutto ciò che faccio.

Oggi c’è una grande pletora di talenti, perciò i photo editor devono organizzare i fotografi in categorie, perché spesso hanno la necessità di trovare qualcuno che svolga un certo lavoro in cinque minuti.

Gli editor hanno anche la tendenza a guardare i lavori di un fotografo, in particolare il portfolio, senza riuscire a uscire dall’ambito del loro giornale per guardare alla natura intrinseca del lavoro che hanno davanti, in sè e per sè.

Tutto questo per forza di cose non aiuta il fotografo, perché è un incasellamento, una scelta che viene mossa partendo da un punto di vista ristretto.

I photo editor, gli eroi misconosciuti di quest’industria, hanno la capacità di far apparire abilissimi i fotografi. Nel contempo, però, possono anche farli risultare male. Combattono per noi e per le nostre fotografie e molti fotografi non hanno idea di che battaglia dura possa essere.

KW: Come si è evoluta nel tempo la narrazione visiva?

MS: Quando stavo muovendo i primi passi nella fotografia, ho trovato molta ispirazione nei lavori di Robert Frank e Eugene Smith.

C’erano alcuni fotografi di Life Magazine che creavano lavori bellissimi.

Bill Eppridge realizzò un servizio fantastico, a Needle Park. Penso che tutti loro tendessero ad avere un certo stile.

Era in voga una specie di stile da ‘Università del Missouri’, molto classico e bello. Io non ho studiato lì, ma molti altri fotografi sì, e avevano questo bellissimo stile visivo che è durato davvero a lungo. La composizione e la struttura erano molto chiare e definite, lo potevi vedere ovunque.

Un problema fondamentale è che i fotografi continuano a scattare sempre e sempre le stesse fotografie. I temi non cambiano mai.

Ci saranno sempre povertà, guerra, carestia e abusi. Tutti questi sono grandi problemi che i fotografi si sentono fortemente spinti a illustrare.

Un cadavere nella nicchia di una casa lungo un viale molto trafficato nei bassifondi di Port-au-Prince, Haiti, durante una delle molte battaglie verso le elezioni democratiche dopo la caduta dell'odiato e temuto regime dittatoriale della famiglia Duvalier, duranto 30 anni. 1987. Foto: Maggie Steber.

Un cadavere nella nicchia di una casa, lungo un viale molto trafficato nei bassifondi di Port-au-Prince, Haiti. L’immagine èstata ripresa durante una delle molte battaglie che fecero da sfondo alle elezioni democratiche, dopo la caduta dell’odiato e temuto regime dittatoriale della famiglia Duvalier, durato 30 anni. 1987. Foto: Maggie Steber.

Se continuiamo a fare sempre lo stesso tipo di fotografie, gli osservatori inizieranno a provare una sorta di affaticamento visivo nel trovarsi di fronte a immagini e approcci fotografici così simili tra loro.

Come fotografi dobbiamo chiederci: “Come possiamo realizzare nuovi tipi di immagini che siano visivamente differenti, ma raccontino sempre la storia in maniera intima?”

Un problema fondamentale è che i fotografi continuano a scattare sempre e sempre le stesse fotografie.

Oggi la fotografia si sta muovendo verso uno sguardo più contemporaneo. Alcune immagini sono piuttosto banali, ma non c’è niente di male in questo. Sono immagini genuine, oneste. Ma, se le abbiamo già viste in passato, vi poniamo meno attenzione.

Una cosa piuttosto contemporanea è quando i fotografi raccontano storie personali sulle proprie famiglie.

Per esempio, “Inventing my Father” di Diana Markosian e il lavoro di Jen Davis sul proprio peso corporeo. Ovviamente, ce ne sono anche altri.

Madje viveva giorni belli e giorni brutti. E' passata attraverso fasi in cui scalciava, graffiava, vagava in giro, stadi di rabbia, paura, paranoia e comportamento gentile, fasi che vivono tutti i pazienti affetti da demenza.

Madje viveva giorni belli e giorni brutti. È passata attraverso fasi in cui scalciava, graffiava, vagava in giro. C’erano stadi di rabbia, paura, paranoia e comportamento gentile, fasi che vivono tutti i pazienti affetti da demenza.

Un gattino dorme in grembo a Madje a casa sua a Austin, Texas. Madje ha sempre amato i gatti. Man mano che aumentava la sua perdita di memoria, iniziò a lasciare le porte aperte, e i gatti selvatici iniziarono a entrare in casa sua e a vuvere lì, portando dentro anche i gattini perché la consideravano una zona sicura. Ho sempre amato le mani di mia madre. Aveva le dita lunghe e sottili e suonava il violino. Era una scienziata.

Un gattino dorme in grembo a Madje a casa sua a Austin, Texas. Madje ha sempre amato i gatti. Man mano che aumentava la sua perdita di memoria, iniziò a lasciare le porte aperte, e i gatti selvatici iniziarono a entrare in casa sua e a vivere lì, portando dentro anche i gattini perché la consideravano una zona sicura. Ho sempre amato le mani di mia madre. Aveva le dita lunghe e sottili e suonava il violino. Era una scienziata.

Madje Steber siede nella sua sedia a rotella durante il un giro pomeridiano a seguito di un temporale estivo a Hollywood, Florida. Davanti a lei c'è una pozza d'acqua, quasi senza riflessi se non per qualche fronta di una palma, che richiama gli spazi vuoti che abitano la sua mente per via della perdita di memoria.

Madje Steber siede nella sua sedia a rotelle durante un giro pomeridiano, dopo un temporale estivo a Hollywood, Florida. Davanti a lei c’è una pozza d’acqua, quasi senza riflessi se non per qualche fronda di  palma, che richiama gli spazi vuoti che abitano la sua mente afflitta dalla perdita di memoria.

Perché facciamo fotografie? Intervista a Maggie Steber

Madje Steber beve il suo caffè del mattino nella sua camera da letto al Midtown Manor, dove risiedeva a Hollywood, Florida. Maggie Steber ha fotografato sua madre durante le fasi della perdita di memoria. Dalla serie “Madje Has Dementia”.

MS: Amo l’idea di rivolgere la fotocamera verso noi stessi.

Come fotografi, chiediamo di continuo alle persone di rivelare così tanto su di sè, ed è giusto che lo facciano anche i fotografi stessi. La cosa straordinaria che ho imparato è che possiamo salvare noi stessi attraverso la fotografia.

KW: Che ruolo pensi giochi la tecnologia nella narrazione visiva moderna?

MS: Ha sicuramente avuto un impatto sulla fotografia, in una maniera che si è rivelata positiva e stimolante.

Il pubblico è aumentato esponenzialmente e le nuove invenzioni tecnologiche hanno visto diventare i mezzi di comunicazione interattivi uno strumento usato comunemente. Come utente puoi avere un’esperienza immersiva, e questo ti ispira a cercare più informazioni su diversi argomenti.

Ma siccome le persone hanno un accesso molto semplice agli smartphone o a macchine fotografiche più economiche, sono tutti diventati fotografi.

Amo molto la democrazia insita in quest’idea, ma c’è anche un aspetto professionale importante che molti fotografi emergenti e molte persone che vorrebbero diventare fotografi non realizzano.

Un poliziotto di Haiti aspetta sulla spiaggia mentre un ladro si avvicina al porto dopo essere stato colto in flagrante e aver cercato di fuggire saltando nella baia del porto di Port-au-Prince, Haiti. Una volta che l'uomo ha raggiunto la riva un altro poliziotto (non mostrato in foto) ha alzato il fucile e gli ha sparato in fronte, un esempio della mancanza di un sistema giudiziario vero e proprio nel piccolo Stato. Fotografia: Maggie Steber.

Un poliziotto di Haiti aspetta sulla spiaggia mentre un ladro si avvicina al porto dopo essere stato colto in flagrante e aver cercato di fuggire saltando nella baia del porto di Port-au-Prince, Haiti. Una volta che l’uomo ha raggiunto la riva un altro poliziotto (non mostrato in foto) ha alzato il fucile e gli ha sparato in fronte: un esempio della mancanza di un sistema giudiziario vero e proprio nel piccolo Stato. Fotografia: Maggie Steber.

KW: Credi che nella narrazione visiva efficace, capace di coinvolgere lo spettatore, ci sia un fondo di denuncia e di sostegno a cause importanti?

MS: Sì. internet ha permesso di raggiungere un pubblico più vasto ed è per questo che sembra che questo genere di fotografie siano così tante.

Il Progetto Everyday su Instagram è un ottimo esempio di quel che dico.

Peter DiCampo, un fotogiornalista e cofondatore di Everyday Africa, era stanco di vedere le tragedie, le sofferenze, la guerra e le malattie che si abbattono su tante parti dell’Africa.

Ha creato un account che mostra immagini positive dell’Africa, su una piattaforma con un ampio bacino di pubblico. Le immagini modellano il modo in cui pensiamo alle persone e ai luoghi, e se vediamo solo immagini oscure non stiamo vedendo l’immagine intera.

Everyday Climate Change è un altro ottimo esempio. L’umanità è a un punto in cui il sostegno di cause dev’essere integrato con la narrazione.

KW: Ci puoi parlare dei problemi che affrontano i giovani professionisti?

MS: Ci sono tanti giovani fotografi che non capiscono che se lavori in questo campo, devi pensare a lungo termine. È un’industria che richiede idee, energie, molto duro lavoro e la capacità di saper credere nelle tue idee, perché spesso nessun altro lo fa.

I giovani fotografi devono anche imparare a osservare.

Quando inizi a scattare, rifletti sulle cose e pensa a come un soggetto ampio possa essere diviso in qualcosa di più facilmente manovrabile.

La ricerca è essenziale, devi guardare cosa c’è là fuori su quel soggetto in modo da capire cosa devi fare in modo diverso. È un lavoro molto duro e competitivo, ma ti può anche permettere di vivere una vita eccezionale.

Ci sono alcuni fotografi che sono stati scoperti e, da un giorno all’altro, sono diventati star. Però non sono preparati a quello che segue.

All’improvviso tutti vogliono te e puoi andare in burnout così in fretta! L’ho visto succedere anche nella mia generazione, quando le persone si riempivano all’inverosimile di lavoro. Non sapevano come dire di no e, ad un certo punto, si sono esauriti.

KW: Sei uno dei giudici del concorso Instagram/Getty Images. Posso chiederti quali sono le qualità che cerchi nelle fotografie che vedi?

MS: Il tema è chiaramente quello di fare luce sulle comunità sottorappresentate. Credo che tutti i giudici cercheranno proprio questo.

Contemporaneamente, sono alla ricerca di storie. Le stesse storie che abbiamo sempre visto, ma raccontate in un modo diverso, magari con un nuovo approccio, visivamente e filosoficamente, o qualcosa che abbia un diverso punto di vista. Spero che alcune persone stiano pensando anche agli animali, perché anche loro sono comunità sottorappresentata.

I lavori che ci vengono proposti non devono essere collegati a una storia. Potrebbe essere un essay, o un lavoro che è assolutamente fuori da questo mondo, ma deve dare voce alle comunità sottorappresentate.

Perché facciamo fotografie? Intervista a Maggie Steber

“Buon compleanno, Madje!”. Madje Steber sorride il mattino del suo 86esimo compleanno nella sua stanza al Midtown Manor di Hollywood, Florida, il 16 agosto 1996. Madje soffre di demenza, e entra ed esce da momenti di perdita della memoria. Foto: Maggie Steber.

Maggie Steber è una fotografa documentarista. Tra i premi che ha vinto bisogna citare la Medaglia di Eccellenza Leica, il World Press Photo Foundation, l’Overseas Press Club, Photo of the Year, l’Alicia Patterson Grant, l’Ernst Haas Grant, e un assegno della Knight Foundation per il progetto New American Newspaper.

Steber è stata l’Assistente Managing Editor della fotografia al Miami Herald, sovrintendendo progetti che hanno vinto il Pulitzer. Ha fatto da giurata per i premi Pulitzer 2014.

I suoi clienti comprendono il National Geographic Magazine, il New York Times, lo Smithsonian Magazine, AARP, The Guardian e Geo Magazine. Ha insegnato in workshop al World Press Joop Stuart Master Classes, all’International Center for Photography e presso Foundry Workshops.

Kyla Woods lavora come scrittrice freelance, specializzata in attualità, fotografia e design. I suoi lavori sono apparsi su Long Cours, Le Figaro, Le Point, This is the What e Foam Magazine.

Scrive regolarmente per Musée Magazine e Peril Magazine. Originaria di Melbourne, Australia, Kyla vive e lavora a New York.

Originariamente pubblicato sul blog di Blink.

Articolo di KYLA WOODS liberamente tradotto dall’originale: https://medium.com/vantage/why-we-make-photographs-bd28e20a3f2e


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