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Perché l’Italia Non Paga (chi scrive di viaggi)

Creato il 06 febbraio 2013 da Angelozinna

Perché l’Italia Non Paga (chi scrive di viaggi)Fin da prima di partire mi sono fatto affascinare da chi era riuscito, in un modo o nell’altro, a crearsi un lavoro scrivendo di viaggi. Senza nulla togliere ai grandi scrittori del passato, a chi ha raccontato di guerre e grandi esplorazioni, a chi ha utilizzato il viaggio come mezzo necessario per intraprendere una missione differente, coloro che hanno catturato di più il mio interesse sono stati gli autori recenti, quelli che hanno trovato il modo di poetizzare di un’attività che molti potrebbero ritenere egoistica e spesso fine a sé stessa: viaggiare per piacere, andare in vacanza. Mi incuriosiva la storia di Tony e Maureen Wheeler, fondatori di Lonely Planet, poi c’è stato Rolf Potts, che ha spiegato a tutti come diventare un backpacker, e anche Bill Bryson, che sul non prendersi sul serio ci ha costruito il suo successo. Mi interessavano così tanto questi personaggi, questa letteratura e questo mercato, perché aprivano, almeno nella mia mente, la possibilità di intraprendere una carriera attraverso qualcosa che chiunque può e vuole fare, viaggiare.

Può suonare un po’ arrogante permettersi di dire “se lo fanno loro, posso farlo anch’io”, è vero, ma la realtà è proprio questa se ci si pensa, chi scrive questo genere di testi ha quasi sempre alle spalle una storia normalissima, se non fosse per l’intraprendenza, e la fortuna, di unire due passioni nel posto giusto, al momento giusto. E poi è arrivato internet, e i blog, e le pubblicazioni on-line. E ancora più porte si sono aperte.

Curando un blog di viaggi da diverso tempo si comincia a realizzare quali siano le effettive possibilità di questo tipo di mezzo, si trovano contatti sia nel mondo del turismo che dell’editoria, e si inzia a pensare quale valore abbiano realmente le nostre parole. A volte si sogna un po’ troppo in là, altre si utilizzano metodi di misura che poco contano nel mondo reale, ma di solito ciò che spinge a tentare di vendere il proprio materiale è una semplice considerazione: “se tutte queste persone apprezzano quello che scrivo, magari lo farà anche un editore”. Per capire come muovermi in questo mondo, per prima cosa sono andato a vedere come girano le cose dove il mercato è già ampio e funzionante, ossia tra le pubblicazioni anglofone, quelle americane per prime. Nel giro di qualche ora avevo tra le mani un elenco di settanta pubblicazioni, indipendenti e non, cartacee e digitali, pronte a pagare articoli scritti da freelance. Quanto pagano? Non molto, quasi sempre tra i 25 e i 100 dollari al pezzo, ma non è questione di soldi, in un mercato così competitivo riuscire a piazzare un articolo che sia degno di essere pagato è più una prova di qualità, una soddisfazione personale che ci fa capire a che livello siamo, che ci permette di giudicarci. Scrivere in inglese però, a parte per i 50 dollari che potrebbero arrivare nell’immediato, sul lungo termine non ha molto senso per chi punta sul pubblico italiano, dato che l’obiettivo principale per succedere in rete è prima di tutto crearsi un nome all’interno della propria nicchia. E così mi sono guardato intorno, per cercare in Italia quello che avevo trovato in inglese. Peccato che a casa nostra, questo non esista.

Inizialmente ci si incazza un po’, ci si chiede com’è possibile che così tante pubblicazioni accettino articoli senza battere ciglio, e tutto ciò che offrono in cambio è una presunta visibilità. Però poi ci si pensa, e ci si rende conto ben presto che la colpa non è di chi pubblica, ma di chi legge. Nella mia esperienza ho notato che vedersi pubblicato un articolo in inglese è molto difficile, ma quando questo avviene, si viene premiati, mentre in italiano piazzare un articolo è piuttosto semplice, gli standard sono estremamente bassi, ma non si ottiene niente in cambio. Quando viene accettata la pubblicazione con questa facilità diventa difficile misurarsi. Da una parte ci si arrabbia perché, come al solito, è un titolo gratuito, ma dall’altra ci si sente importanti, ci si sente autori pubblicati, anche quando ciò che scriviamo non vale un centesimo. È da sapere che tutte le pubblicazioni si finanziano grazie alla pubblicità, la pubblicità arriva grazie alle visite, e le visite arrivano grazie all’interesse del pubblico. Se il pubblico non è interessato alla qualità perché ignorante, allora non c’è alcun bisogno di acquistare contenuti validi, dato che quelli scarsi sono già abbondanti in modo gratuito. E in Italia funziona proprio così. Non si viaggia, non ci si allontana da casa se non per andare due settimane al mare, e di conseguenza non ci si interessa ad un mondo che per noi spesso non esiste. Si conosce solo un modo di viaggiare, molto semplice e noioso, così da far diventare ogni gita fuori porta una grande avventura.

Si può non essere bravi abbastanza, e questo lo si deve accettare, ma a chi, come me, apre una guida, un libro, un giornale, e ci vede dentro decine di opportunità, voglio solo ricordare che, purtroppo, è inutile mettersi in gioco dove non esiste competizione. Ciò che alimenta una passione non è ovviamente la speranza del successo, e per questo chi scrive continua a farlo qualunque siano le condizioni, ma chi sogna di potersi comprare il tempo da dedicargli deve capire che emergere nel mondo della scrittura di viaggio in Italia ha spesso poco a che fare con quello che scriviamo. È possibile, ma ci vuole creatività.


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