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Perchè viaggiare? Storie a cui manca un finale ma non un fine.

Creato il 17 novembre 2013 da Alfiobonaccorso
bruce chatwin viaggiatore

Bruce Chatwin, irresistibile esempio di viaggiatore irrequieto

Cosa ci spinge a spostarci da un luogo ad un altro, eterno viaggiare? Se come me da piccoli passavate le ore a gambe incrociate ad ascoltare le lunghe narrazioni dei grandi vecchi e le loro fascinose imprese, saprete che la loro vita stessa appariva come un viaggio. Che si fossero mossi all’interno dei confini di una stessa regione per tutta la vita o avessero più volte oltrepassato lo Stretto o l’Oceano, restavano mirabolanti viaggi da ascoltare e riascoltare ad ogni occasione.

Se dovessimo dar retta a Bruce Chatwin, scapestrato viaggiatore, al viaggiare ci spingerebbe la nostra natura nomade che, per quanto assopita e camuffata da modi urbani, trova sempre il suo modo di manifestarsi: per dirla con Pascal: “Notre nature est dans le mouvement… La seule chose qui nous console de nos misères est le divertissement”. Il diversivo, il cambiamento, dunque.
Si tratterebbe della spinta eversiva rispetto alla routine che alimenta la nostra primitiva natura di nomadi. Sempre stando alle parole del grande viaggiatore “irrequieto” Chatwin, la malinconia nascerebbe in noi proprio da un desiderio frustrato di spostamento.

Ci sono pensatori, la cui mente abbracciò e scompose i complessi ingranaggi del mondo e della storia, che non si sono mai mossi dalla propria terra, come il grande poeta Lucio Piccolo di Calanovella che raramente lasciò la Villa di Capo d’Orlando; ci sono intellettuali immensi come Leonardo Sciascia, che elessero a loro residenza quella che appariva la periferia del mondo culturale, “l’ultima provincia”, per usare parole della “continentale” Luisa Adorno.
Ci sono senza dubbio epoche in cui il viaggio fu di moda ed epoche in cui non rientrò tra i costumi diffusi.
Esistono i viaggiatori del Grand Tour che furono i primi – e sinora anche i più efficaci, con buona pace di noi moderni – promotori dell’immagine dell’Italia e della Sicilia nel mondo.
Molto diverse sono le fisionomie dei viaggiatori. C’è anche il candido entusiasmo del diario della Marchesa de La Tour du Pin che, moglie d’un diplomatico francese, lasciò i climi turbolenti della Francia giacobina per scoprire con animo curioso e appassionato lo smisurato ottimismo che animava la neonata Nazione Americana, per antonomasia la terra degli esploratori e degli indefessi avventurieri di quel tempo.
Esistono viaggiatori che sono osservatori meticolosi di ogni dettaglio, come Roger Peyrefitte o Mario Soldati, e viaggiatori a cui interessa una visione “sinottica”, che abbracci simultaneamente i tanti piani restituiti dal prisma spesso ingannevole della realtà, tra questi metteremo Fosco Maraini e Ryszard Kapuscinsky.
In definitiva, riallacciandosi ad un discorso di Claudio Magris nel suo bellissimo “l’infinito viaggiare“, esistono viaggiatori “circolari”, che come Odisseo tendono verso un ritorno a casa, carichi di nuove esperienze e di storie da raccontare, e viaggiatori eterni, la cui meta finale si proietta sempre più avanti, come un orizzonte immaginario.
Esistono viaggiatori dotti, viaggiatori sprovveduti ed improvvisati,
viaggiatori spirituali ed altri che inseguono la novità. Non esistono però viaggiatori che non siano dei curiosi. E cioè non esistono viaggiatori che non siano dei bambini.
Non importerà in definitiva dove tu voglia andare, se pure avrai un Altrove tra le mani da ricercare e vivere.
Ma qual è l’origine di questo ineludibile Altrove, il motore primo che ci spinge e ha spinto migliaia, centinaia di migliaia di persone a spostarsi, da un luogo ad un altro, per puro desiderio di scoperta?
Ricordo bene me bambino a gambe incrociate ad ascoltare lunghe storie di viaggio raccontate dei miei nonni. Storie senza fine e a volte senza un finale, spesso appena verosimili, a dir la verità. Storie che qualche volte si arrotolavano su sé stesse e non sapevi come riprendere il filo. Sempre uguali e sempre diverse.
I miei nonni erano di quella generazione che aveva dovuto rimettere su il Paese, e di storie da raccontare non ne mancavano mai. Si erano rimboccate le maniche, ma non come oggi usano i politici ai raduni per essere friendly.
Ogni giornata della loro vita era una storia da raccontare, dalle piccole gite a Tindari alle grandi storie di guerra, le piccole e le grandi cose. L’eccitazione con cui chiedevo di raccontarmi della bomba che sfondò il tetto e non esplose era uguale a quella con cui aspettavo i particolari del modo in cui si facevano rotolare giù le botti fino al porto di Riposto.
Mio nonno era stato in Africa, paracadutista del Battaglione di San Marco, poi in America prigioniero di guerra ed infine in Argentina, a far fortuna. Tanto bastava per me a passare giornate in religioso ascolto.
Se sei uno che ama ascoltare, noterai sempre attorno a te un gran vociare, un cicaleccio infinito in cui imparerai a capire, a naso, come un rabdomante di senso, chi ha davvero qualcosa da dire. A quel punto la strada è dilatare ogni poro percettivo, ogni spiraglio di apertura all’altro, che gli occhi abbiano la luce dell’accoglienza, le mani e gli arti il decoro dell’ascolto, i muscoli sappiano attivarsi anch’essi a sorreggere tutta la figura pronta a ricevere il dono prezioso ed irripetibile di un racconto.
La fase dell’ascolto è durata per tutta la mia adolescenza, permettendomi di registrare una gran quantità di storie. Forse, senza vano pudore, bisognerebbe ammettere che la fase
dell’ascolto non ha mai fine. Sarebbe più onesto dire che se sei stato un piccolo ascoltatore di storie, saprai e vorrai esserlo per sempre. Anche quando sentirai che è venuto il momento di buttarti nella giostra della vita. E saprai fare anche questo, ma con discrezione e tatto.

Col tempo ho capito che non esistono viaggi che non abbiamo già dentro di noi, viaggi che col passare degli anni prendono una fisionomia nuova e si arricchiscono di particolari imprevisti. Certo nessuno oggi inseguirebbe le proprie storie viaggiando se non ci fosse stato un tempo in cui, coi ritmi le parole e la sapienza dei vecchi, sedeva ed ascoltava. E fantasticava e alimentava di suggestioni il proprio immaginario.
A tutt’oggi, sedere ed ascoltare chi ha da dire resta il più grande esercizio di civiltà che possiamo fare. E non è poi così strano che questa “civiltà” sia direttamente correlata ad una sotterranea protensione al nomadismo del vero esploratore.


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