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Creato il 10 marzo 2015 da Francosenia

jaffe

“Era necessario il capitalismo?”, di Hosea Jaffe. Un libro per chi?
di Pietro Piro

Che noi siamo ancora vivi, questa è la nostra colpa.
K. Jaspers. La questione della colpa.

I.
La tesi centrale del libro di Hosea Jaffe, “Era necessario il capitalismo?” è tanto chiara, quanto difficile da accettare. Per l’autore, infatti:
"Il capitalismo fu e resta il modo di produzione più distruttivo della storia umana." (H. Jaffe, Era necessario il capitalismo? Jaka BooK, Milano 2010, p. 154)
Ricostruendo la storia dell’umanità, l’autore smonta pezzo per pezzo, l’idea che il capitalismo sia la fase necessaria e inevitabile, di una storia umana sempre più improntata al miglioramento e al benessere degli individui. Il capitalismo è una forma distruttiva e altamente involutiva:
"Il modo di produzione capitalistico e la sua struttura sociale furono peggiori del modo di produzione comunitario, di quello schiavista e delle rispettive strutture sociali in termini di condizioni di vita, di sopravvivenza fisica, di condizioni lavorative, di possibilità di scelta personale, di libertà, di relazioni fra sessi, di coesione sociale, di cooperazione e socialità, salute, educazione, standard etici, libertà di culto, accesso ai prodotti di consumo, pace tra i popoli, rispetto degli altri. Sarebbe corretto sostenere inoltre che il capitalismo fu peggiore anche rispetto all’altro modo di produzione più diffuso, etnicamente inclusivo e universale, ovvero quello del dispotismo comunitario (…)." (ivi, p.30)
Il capitalismo, riduce il mondo a una singola norma di vita (quella capitalistica) e distrugge contemporaneamente tutto ciò che gli si oppone. Questa distruzione, ha portato all’uccisione di almeno 100 milioni di persone moltiplicate per tre continenti (ivi, p. 19). Ma queste uccisioni, non furono danni collaterali all’applicazione forzata di un modello quanto, più correttamente, la conseguenza logica di un modello che implica l’omicidio come suo strumento costitutivo.
"Lo schiavismo razzista praticato in seguito alle conquiste, le «esplorazioni» e le «scoperte» europee-capitaliste, non fu un modo di produzione a sé stante, ma un elemento costitutivo del modo di produzione capitalistico e della sua struttura sociale. La schiavitù fu la principale relazione di classe in quel periodo della genesi colonialistica del capitalismo che va dalle Crociate feudali-capitalistiche al 1492, e poi fino all’abolizione della schiavitù sancì il passaggio dal colonialismo capitalistico all’imperialismo capitalistico." (ivi, p.21).
Per Jaffe, l’omicidio è connaturato alla dinamica del capitalismo. La tesi del libro è tanto semplice quanto profonda. Detto in altri termini: è stato necessario per vivere come viviamo oggi uccidere trecentomilioni di persone? La domanda è comunque da riscrivere meglio così: è stato necessario per assicurare a una ristretta cerchia di uomini di potere, un determinato stile di vita basato sul lusso e sullo spreco, uccidere trecento milioni di persone? A questa domanda, pochi avrebbero il coraggio di rispondere pubblicamente con un sì. Tuttavia, (è qui la storia è tanto tragica quanto ingiusta), la storia a questa domanda ha già risposto di sì. Poi, si può fare una guerriglia estenuante sulla natura dei numeri. Stabilire cifre quasi esatte. Tuttavia, mi chiedo, a cosa possa servire stabilire una cifra. Se anche fosse stato commesso un solo omicidio, non sarebbe stato già troppo per consentire a qualcuno un aereo privato e una vasca idromassaggio?

II.
Quando si stabilirà la cifra esatta dello sterminio, cosa cambierà nella natura attuale del processo capitalistico? Forse quei numeri esatti, causeranno una presa di coscienza della gravità della questione? Jaffe può scrivere senza alcun problema che:
"Il traffico di schiavi in Africa, e dall’Africa alle colonie europee in «America Latina» e dalle colonie inglesi, olandesi, spagnole e portoghesi in Asia verso l’Africa (per esempio verso il Sudafrica e le Mauritius) insieme alle conquiste europee, l’ipersfruttamento e i genocidi in America, Asia, Africa, e lo schiavismo europeo negli Stati Uniti e nell’America centrale e meridionale, nelle Indie orientali, in Africa e in Asia, furono soltanto elementi del modo di produzione capitalistico e della sua struttura sociale." (ivi, p.9).
Spesso le frasi degli studiosi, hanno bisogno di una semplificazione e anche di una traduzione in termini più concreti. In pratica, secondo quest’autore, tutto il nostro mondo di benessere, privilegi, cultura, pulizia e progresso, lo dobbiamo unicamente all’omicidio. Possiamo essere così ricchi perché abbiamo sottratto le risorse ad altri popoli e poi, quando non ci servivano più come mano d’opera a basso prezzo, li abbiamo eliminati fisicamente. Tesi semplice ed efficace. Ma vera?

III.
In questo caso, per cercare di rispondere a questo quesito angosciante, dobbiamo andare a cercare una conferma di queste affermazioni, oltre che nelle prove documentali, nella radice dell’animo umano. Com’è stato possibile commettere uno sterminio di massa, senza lasciare traccia, in quello che C. G. Jung ha chiamato con geniale fantasia, l’inconscio collettivo? F. Braudel, che ha dedicato allo studio del capitalismo opere fondamentali (Cfr. F. Braudel, Espansione europea e capitalismo (1450-1650), Il Mulino, Bologna 1999; Id., Civiltà materiale, economia e capitalismo, II Vol., Einaudi, Torino 1993/2006; Id., Civiltà e imperi del Mediterraneo nell'età di Filippo II Einaudi, Torino 2010.), ha attribuito alla borghesia la responsabilità delle dinamiche del capitalismo, fornendoci un ritratto psicologico delle caratteristiche dello stile di vita borghese:
"I successi individuali devono quasi sempre essere accreditati all’azione persistente e cumulativa di famiglie, vigili, attente, impegnate ad aumentare a poco a poco il loro patrimonio e la loro influenza. La loro ambizione si nutre di pazienza e si realizza nella lunga durata. (…) Per costruire su solide fondamenta la propria fortuna e la propria potenza, il capitalismo si appoggia successivamente o simultaneamente sullo scambio locale, l’usura, il commercio a lunga distanza, sulla venalità delle cariche amministrative, sulla terra-investimento sicuro e, quel che più conta, in grado di assicurare un prestigio evidente, maggiore di quanto non possiamo immaginare – sulla società stessa. (…) Il regime feudale rappresenta la base del potere delle famiglie signorili, in quanto forma durevole di divisione del patrimonio fondiario che costituisce il fondamento della ricchezza, ed in quanto pilastro di un sistema sociale stabile. La borghesia per molti secoli costituisce il ceto parassitario di questa classe privilegiata, vive a sue spese, gomito a gomito, profittando dei suoi errori e debolezze, della sua predilezione per il lusso, della sua pigrizia e scarsa previdenza, per impadronirsi dei suoi beni – spesso attraverso l’usura – infiltrandosi lentamente e silenziosamente nelle sue file e confondendosi nei suoi ranghi. (…) Attraverso un parassitismo di lunga durata la borghesia non cessa di distruggere la classe dominante per assorbire le energie ed il potere. La sua ascesa è lenta, paziente ma inesorabile: l’ambizione è tramandata da padre in figlio, senza sosta, per intere generazioni. (…) Occorre una situazione sociale equilibrata o quasi equilibrata perché possa esserci accumulazione, perché i lignaggi, si mantengano e si rafforzino, perché, col sostegno dell’economia monetaria, il capitalismo possa emergere. In questa ascesa il capitalismo distrugge alcune roccaforti della società dominante, ma per ricostruirne altre a lui consone, altrettanto solide e durevoli." (F. Braudel, La dinamica del capitalismo, (tr.it.) G. Gemelli, Il Mulino, Bologna 2008, pp. 68-70.).
Sia F. Braudel che H. Jaffe concordano sul fatto che sia la borghesia, la classe che ha creato il capitalismo. La classe che l’ha costruito con le sue mani. È dunque in questa classe, che bisogna andare a scavare per trovare qualche traccia. Un’esile memoria di quanto è stato rimosso.

IV.
Intraprendere questo tipo di ricerca (Per un primo approccio, che non affronta nei termini della nostra posizione il tema ma che rimane tuttavia interessante, è J. Delumeau, Il peccato e la paura. L'idea di colpa in Occidente dal XII al XVIII secolo, Mulino, Bologna 2006. Si veda inoltre: M.W. Battacchi, Vergogna e senso di colpa. In psicologia e nella letteratura, Cortina Raffaello, Milano 2002.) pare tanto arduo quanto pericoloso. Agisce infatti, sull’intera società capitalistica, una tale forza di rimozione che ha trascinato con sé sia la memoria delle uccisioni, sia i sentimenti a essa legati. Tuttavia, sebbene la psicologia riconosca che un delitto possa ripercuotersi in maniera devastante nella psiche del singolo individuo che lo compie, non si fa accenno alle conseguenze che possa avere sulla stessa psiche, aver costruito un intero ordine sociale sull’omicidio di massa. Sé il rimorso è il tormento che si prova per la coscienza di aver fato del male e non il bene, perché milioni di persone, la cui vita scorre secondo binari di apparente benessere, le cui relazioni sono improntate all’ordine sociale e al rispetto della civiltà, che come si usa dire, non farebbero male a una mosca, che non provengono da famiglie criminali o schizoidi, sono attanagliati dal senso di colpa? Colpa di che cosa? La psicologia attribuisce, per lo più, il senso di colpa al vissuto individuale («Anche la teoria di Freud appartiene al dominio sacerdotale di questo culto. È pensata in termini integralmente capitalistici. Il rimosso, la rappresentazione peccaminosa, è, per una profonda analogia tutta ancora da chiarire, il
capitale che paga gli interessi sull’inferno dell’inconscio». Cfr. W. Benjamin, Capitalismo come religione, in Scritti Politici, Vol. 1, Editori Internazionali Riuniti, Roma 2011 , p. 84.). Lo inserisce nelle relazioni intime madre-bambino o prossimamente parentali. Ne fa tutta una questione privata. Noi rigettiamo per intero questa impostazione così riduttiva e chiediamo a chiunque si dedichi a questioni etiche (ma anche solamente a chi ha una certa sensibilità) se è possibile costruire un’intera società, le sue regole, i suoi dogmi, il suo immaginario, sull’omicidio e non avere nessuna conseguenza sul vissuto individuale di chi che ne fanno parte?

V.
Grazie alle intuizioni di W. Benjamin, che si serve in parte, di quelle di M. Weber (Vedi M. Weber, L'etica protestante e lo spirito del capitalismo, BUR Rizzoli, Milano 1991; Id., Sociologia delle religioni, UTET, Torino 2008.), possiamo cercare un appoggio per le nostre tesi. Egli, infatti, ha correttamente individuato nel capitalismo, una religione dalle caratteristiche molto particolari:
"Nel capitalismo può ravvisarsi una religione, vale a dire, il capitalismo serve essenzialmente alla soddisfazione delle medesime ansie, sofferenze, inquietudini, cui un tempo davano risposta le cosiddette religioni. (…) Ad oggi tre tratti sono riconoscibili in questa struttura religiosa del capitalismo. In primo luogo il capitalismo è una pura religione cultuale, forse la più estrema che si sia mai data. (…) A questa concrezione del culto è connesso il secondo tratto del capitalismo: la durata permanente del culto. (…) Non vi è alcun “giorno feriale”, alcun giorno che non sia festivo nel temibile senso del dispiegamento di ogni fasto sacrale, dell’estremo impegno del venerante. Questo culto, in terzo luogo, genera colpa. Il capitalismo è verosimilmente il primo caso di culto che non purifica ma colpevolizza." (W. Benjamin, op.cit., p. 84).
Benjamin, proietta il senso di colpa nella dimensione presente e futura del super-uomo che ha creato e che vuole il capitalismo. Tuttavia, non fa accenno alla radice storica della genesi di questo senso di colpa. Però, individuando nel capitalismo un sistema produttore oltre che di merci di senso di colpa, centra perfettamente gli sviluppi emozionali di chi vive nelle cosiddette società del benessere. Possiamo allora, cercare di ricostruire l’intera vicenda. Il capitalismo per affermarsi come norma dominante, ha dovuto distruggere ogni forma antagonista. Sia le forme umane che quelle naturali. Tuttavia, questa distruzione ha causato un senso di colpa, che da immediato per i diretti colpevoli di delitti si è trasformato in subdolo e indiretto nelle generazioni successive, attraverso la sedimentazione psichica.

VI.
Ci rendiamo perfettamente conto che questa tesi è tanto ardua, quanto difficilmente dimostrabile. Anche perché, si entra in un ambito così impalpabile e oscuro, che anche l’esploratore più attrezzato rischia di perdersi nella selva più intricata. La cultura occidentale, ha affidato alla psicologia del profondo, riflessioni e strumenti molto utili che però mancano di connessione con le riflessioni degli storici e dei sociologi. Al contrario, nel mondo indiano, si è da sempre data molta importanza alle opere compiute nella vita e alle conseguenze che queste anno nelle vite future. Questa idea retributiva, incarnata del concetto di Karma, ha un’importanza enorme nel regolare i codici del comportamento civile. Le azioni criminali, anche se compiute molti secoli prima, continuano a generare sofferenza e dolore. Lo stesso Buddha, prima di raggiungere la sua Liberazione, dovette compiere innumerevoli azioni positive nelle vite precedenti, prima d’accumulare il potenziale karmico necessario ai suoi sforzi per la Liberazione. L’Occidente invece, pare vivere di una memoria corta, uno stile di vita in cui i figli di chi ha commesso genocidi non devono e non possono avere nessuna conseguenza rispetto al comportamento dei loro padri. A noi pare una visione tanto superficiale quanto irreale. Lo psichismo individuale è anche (ma non solo) frutto della storia e dei crimini compiuti nella storia del proprio popolo. Maggiore è il loro impatto criminale nella storia e maggiore sarà la tendenza profonda al senso di colpa. Tesi tanto difficile da dimostrare storicamente quanto intuitivamente alla portata di tutti.

VII.
A chi si rivolge dunque il libro di H. Jaffe, con le sue accuse di genocidio e con il suo porre l’accento sul numero delle vittime. A cosa possono servire questo tipo di pubblicazioni? Affermare che sia un libro rivolto a tutti, è sbagliato. Non tutti, infatti, hanno i mezzi per trarre da quei numeri e dall’analisi delle dinamiche del capitalismo, un senso, un’apertura per il futuro. Il rischio è di confondere il mezzo con il fine. Il fine è sempre la consapevolezza. Il recupero della memoria storica. La lotta contro ogni ripetersi di eventi drammatici. Tuttavia, per raggiungere questi fini, sarà necessario un processo di liberazione che, dalla consapevolezza di ciò che è stato, conduca all’inevitabile abbandono del capitalismo. Capitalismo che, anche grazie al lavoro incessante di Hosea Jaffe, ci appare sempre di più per quello che è stato e continua a essere veramente: un enorme parco giochi costruito su un cimitero.

- Pietro Piro ( Università di Enna "Kore" - UNED Madrid) -


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