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Petrolio

Creato il 30 novembre 2011 da Malacarne_nonconunlamento

Petrolio

“Ristabilire la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero.”

Pier Paolo Pasolini

Petrolio: un romanzo da rileggere

 a cura di Angela Molteni

Incoraggiata anche dalla relazione di Vincenzo Calia, contenuta nelle oltre 400 cartelle degli atti della sua inchiesta, ho avvertito

l’esigenza di rileggere Petrolio. È da parte mia una ulteriore rivisitazione del romanzo pasoliniano ma questa volta non l’ho fatto per

ripercorrere le vicende di Carlo Valletti, anzi dei due Carlo (il protagonista, infatti, «è scisso in un Carlo di Polis e in un Carlo di Tetis,

che poi corrispondono alle due dimensioni in cui vive l’opera, quella del pubblico, del politico, e quella dell’intimo, del sessuale» –

uno sdoppiamento che lo stesso Pasolini adottò anche in La Divina Mimesis) [5]. Questo Carlo, industriale del petrolio, funzionario

dell’ENI, «è metà donna e metà uomo, un androgino che condensa in sé il rispettabile borghese, però di vedute aperte, di sinistra, e

quella, atroce, dell’essere simbiotico, orgiastico, che come Mister Hyde ha obliato ogni possibilità di redenzione» [6].

Non l’ho fatto neppure per ripercorrere le avventure argonauti- che (che sono argonautiche solo metaforicamente) o i racconti,

come Storia di due padri e di due figli o Storia di un volo cosmico (che fanno parte degli appunti di Petrolio dedicati all’Epochè), pagine

perfette e godibilissime nella loro compiutezza. Né per rinnovare lo stupore di leggere un accenno inquietante come questo:

«La bomba viene messa alla stazione di Bologna. La strage viene descritta come una ‘Visione’» [7].

La strage alla stazione di Bologna è del 2 agosto 1980 e, in questo suo ultimo romanzo incompiuto, pare che la “visione” l’abbia

avuta proprio Pasolini. Il quale – come scrive Carla Benedetti anche se riferendosi ad altro contesto, quello del Pasolini regista di

Medea – mette insieme mitico e realistico facendoli convergere «per esprimere la miseria della convenzione realistica nel separare

le cose da quello spessore allucinatorio che è la realtà, e che si può cogliere solo per visioni».

Il mio intento nel rileggere Petrolio era soprattutto il tentativo – ché non avrei potuto fare altro che tentare umilmente, e in maniera

del tutto soggettiva – di individuare i percorsi dello scrittore per narrarci alcune storie, per catturare la nostra attenzione, per stimolare

la capacità di comprensione di coloro che avrebbero letto le sue pagine con molta partecipazione e forse anche con qualche

sconcerto. Era in fondo il tipo di cammino compiuto dallo stesso Pasolini nella fase creativa del romanzo: «ristabilire la logica là

dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero».

Per azzardarmi a esplorare l’universo creativo pasoliniano era imprescindibile, intanto, che mi ancorassi saldamente alla realtà,

così come concepita da Pasolini, seguendo proprio la sua lezione: «Nel progettare e nel cominciare a scrivere il mio romanzo, io in

effetti ho attuato qualcos’altro che progettare e scrivere il mio romanzo: io ho cioè organizzato in me il senso o la funzione della

realtà; e una volta che ho organizzato il senso e la funzione della realtà, io ho cercato di impadronirmi della realtà […]» [8].

Dunque, avrei dovuto procurarmi, per esempio, i documenti che lo stesso Pasolini stava utilizzando per realizzare alcune parti del

suo libro. E ancora: era indispensabile che mi mettessi in grado di padroneggiare anche il minimo riferimento socioculturale e politico,

informandomi su fatti per i quali le mie conoscenze fossero carenti per poterli approfondire e analizzare correttamente.

Quest’ultimo compito che mi ero autoassegnata era probabilmente il meno arduo, se non altro per motivi di anagrafe che mi

hanno visto attraversare numerose stagioni in cui è vissuto lo stesso Pasolini. Periodi durante i quali ho potuto condividere le analisi,

le critiche, le polemiche e le denunce che via via egli formulava nei suoi libri e nei suoi interventi giornalistici: dalla presenza di nazisti

e fascisti in Italia prima durante e dopo la seconda guerra mondiale, alla Resistenza infine vincente, alla successiva trasformazione

del nostro Paese in una democrazia, anche se in essa sono stati fin dall’inizio troppo presenti corpi estranei, corruzioni e intrighi, scandali

e prevaricazioni, oltre a consistenti residui del regime fascista appena abbattuto. Tra l’altro, tutti elementi agevolmente verificabili

e comunque storicamente indagati. Di Petrolio riporterò in queste pagine alcuni passaggi che ritengo

chiarificatori per acquisire anche circostanze da cui occorre prescindere, così come ricorderò alcuni elementi essenziali o controversi

dell’iniziativa giudiziaria che seguì la morte del poeta e gli sviluppi successivi, anche quelli riportati dai mezzi di informazione.

Tali elementi -per fare un solo esempio, l’indifferenza o la scarsa attendibilità con cui sono state condotte e trattate alcune indagini

riferite ai periodi in cui si verificarono i casi Mattei e De Mauro possono far meglio comprendere analoghi comportamenti degli organi

inquirenti (e non solo di quelli) nel caso dell’assassinio di Pasolini.

Ciò che mi prefiggo è proprio ricordare, prima di tutto a me stessa, alcune circostanze che concorrano a individuare i motivi e

le modalità del vero e proprio massacro che Pasolini ha subito quel 2 novembre 1975 [9]. E soprattutto possano fornire stimoli che

consentano di rileggere il più analiticamente possibile non solo Petrolio, ma ciò che riguarda la vita e la morte di Pasolini. Al termine di queste riflessioni vi sono cinque postille, indicate da asterischi nel testo, per un possibile, ulteriore approfondimento.

Ringrazio Giovanni Giovannetti. patron di Effigie che, oltre ad avere pubblicato nel suo sito internet (sconfinamenti.splinder.com)

l’introvabile libro Questo è Cefis – che, come vedremo, è stato una delle fonti del Petrolio pasoliniano – mi ha fatto pervenire fotocopia

del testo della relazione dell’inchiesta condotta da Vincenzo Calia, recuperato presso la Procura della Repubblica di Pavia: oltre quattrocento

pagine preziosissime in cui è possibile riscontrare la minuziosità e la perizia dell’inchiesta del magistrato pavese finalizzata

alla ricostruzione della fine di Enrico Mattei; il primo a suggerire una possibile connessione tra i delitti Mattei-De Mauro-Pasolini.

Alcune pubblicazioni e articoli apparsi su quotidiani e periodici negli ultimi anni avevano già fatto cenno alle indagini di Vincenzo

Calia e ai suoi riferimenti anche a Pasolini e al suo Petrolio. Ma la lettura della sua relazione dà la misura della minuziosità con cui il

magistrato ha lavorato e non può lasciare indifferenti coloro che come me hanno sempre prestato attenzione prioritariamente alle

opere letterarie e cinematografiche di Pasolini senza tuttavia dimenticare, neppure per un istante, che le modalità e le circostanze

angosciose della sua morte costituiscono tuttora un enigma irrisolto.

Propongo subito, quasi emblematicamente, due brani tratti da Petrolio che rappresentano una sorta di introduzione al pensiero

politico pasoliniano. La prima delle due citazioni dà particolare rilievo al sottile grado di ironia con il quale lo scrittore si rapporta alla

spaventosa situazione della società in cui vive. Una ironia spesso amara, osservata di frequente in Pasolini. Mi viene in mente, in

particolare, un indimenticabile passaggio del suo film I racconti di Canterbury (1971-72) in cui lo stesso Pasolini impersona Geoffrey

Chaucer, lo scrittore e poeta inglese autore di The Canterbury Tales a cui il film si ispira: il sorriso ironico-malizioso di

Pasolini/Chaucer sembra proprio accompagnare il brano di Petrolio riprodotto qui di seguito che indaga e descrive il pensiero di Carlo,

il personaggio principale di Petrolio, che sta riflettendo sui suoi

“appunti-memoriale”:

«[…] Avrebbe nominato solo alcuni aspetti o elementi di quel

qualcosa di innominabile che era il nuovo Potere reale: avrebbe

fatto cioè del nominalismo, magari a carattere e struttura liturgici.

Per esempio, a proposito dello sviluppo e del suo rapporto

col progresso, chiamato però prudentemente ‘sviluppo civile’,

ecco un brano dei suoi appunti di perfetta osservanza a un ‘cursus’

di carattere catechistico: […]

“Constatati i danni che derivano al paese dalla mancata connessione

tra programma di sviluppo civile e programma

economico, abbiamo tratto due conclusioni: primo, i partiti

che assumono la responsabilità del governo del paese debbono,

senza le impazienze dei tempi corti, cercare insieme

di definire l’ispirazione, gli obiettivi, i modi, i tempi di un

programma di sviluppo civile, il quale deve avere per sommo

scopo l’espansione della personalità di ogni cittadino in

una società democratica ad alta partecipazione civica e con

forti vincoli comunitari, e di conseguenza non può essere un

programma a corto respiro. Secondo: in coerenza col programma

di sviluppo civile i partiti di governo debbono definire il programma economico. Constatate le manchevolezze

sinora registrate dalla politica di programmazione economica,

ne abbiamo dedotto, che essa oggi, utilizzando tutte le

risorse naturali, le capacità tecniche, le energie umane disponibili

– e quindi eliminando gli sprechi della inadeguata

ricerca, della fuga dei cervelli e di capitali, dell’emigrazione

– deve fissare le condizioni per un moderno equilibrato sviluppo…”

Dove il lettore è pregato di notare il valore eufemistico degli

ablativi assoluti (“Constatati i danni ecc.”, e “Constatate le

manchevolezze ecc.”). La dignità linguistica ‘ricalcata’ con spirito

notarile dal latino conferisce alla materia quell’ufficialità che

all’esame dei fatti indubbiamente manca loro nel modo più totale.

Fuori dall’ablativo assoluto, quei “danni” e quelle “manchevolezze”

sono [indubbiamente] criminali; dentro l’ablativo

assoluto invece si normalizzano, divengono momenti sia pur

deplorevoli di negatività necessaria o inevitabile. L’elemento

eufemistico del discorso diventa esplicito nelle espressioni “senza

le impazienze dei tempi corti” e “non può essere un programma

di corto respiro”. Cioè i fatti criminali possono essere

perpetrati ancora. Il lettore è pregato ancora di notare gli ‘elenchi’,

nel più squisito – quasi cantabile – cursus didascalico delle

liturgie: “definire l’ispirazione, gli obiettivi, i modi, i tempi di un

programma di sviluppo civile”, “tutte le risorse naturali, le capacità

tecniche, le energie umane”, e infine “gli sprechi della

inadeguata ricerca, della fuga di cervelli e di capitali, dell’emigrazione”:

elenchi che hanno il potere liberatorio dell’“Atto di

dolore” pronunciato al confessionale, con voce monotona e ufficiale,

in quanto che, rendendo nominali i peccati compiuti nel

momento ‘codificato e ufficiale’ del pentimento, li vanifica: e li

vanifica, nella fattispecie, attraverso una tecnica mnemonica.

Ma soprattutto pregherei il lettore di meditare sulla grande trovata

consistente nell’invenzione dell’espressione governativa:

“programma di sviluppo civile”, a sostituire l’espressione tipica

invece delle sinistre: “progresso”. Qui c’è qualcosa di diabolico.

Ossia la fiducia quasi magica nel potere dei nomi, che nasconde:

primo, il carattere fascista di uno “sviluppo economico” non

includente il “progresso”; secondo, il cambiamento di tale carattere

fascista in quanto attuato appunto attraverso uno “sviluppo

economico” e non più attraverso la classica violenza conservatrice;

terzo, l’abbandono dei valori tradizionali simboleggiati

(e non certo solo platonicamente) dalla Chiesa, a vantaggio

dell’assunzione di nuovi valori (per esempio l’edonismo derivante

dallo “sviluppo economico”) che cambia la realtà del potere

da servire. Ma questi concetti nascosti non sono nominati

appunto perché lo stile di tale ‘esame di coscienza’ è perfettamente

e unicamente nominalistico!

[La liturgia continua ancora più] avanti, nel programma stilato

nel cuore del nostro democristiano nuovo, che, liberatosi da un

fascismo, non intende (a parole | almeno in parte!) cadere in

un fascismo nuovo, che è innominabile. Stavolta si tratta di un

‘esame di coscienza’ esercitato all’interno del proprio essere;

un”autocritica’ il cui oggetto è il ‘parassitismo’ che è un problema

esclusivamente tipico di chi è al potere: per comodità del

lettore traspongo la prosa nel suo reale schema di ‘cursus’ recitabile

secondo il modello dell’omelia, o del “Mistero”:

Il fenomeno del parassitismo riguarda tutti coloro che

di volta in volta,

in cambio di un determinato guadagno ricevono beni

o servizi che ne valgono assai meno,

o addirittura intascano senza ceder nulla e tutto ciò fanno:

o sfruttando particolari posizioni di monopolio

o quasi monopoliooooo,

o tempi difficiliiiii,

o altrui bisogni pressantiiiii

o ignoranza dei richiedentiiii,

o deficiente sorveglianza dei soprastantiiii,

o esecuzioni trasandateeeee,

o non rispetto di giorni e di orari di lavorooooo,

o pratiche fraudolenteeee…

A cui viene irresistibile di aggiungere il suggello, recitato [a

gran voce], di un “Aaaamen”, che retrodati definitivamente nella

formula del rito o nella [semincoscienza] mnemonica questo

(…) “Parassitismo”.

Idem più avanti: quando viene il momento di protestare la ferma

(ma non precipitosa) volontà di assicurare la continuità del

progresso economico, non disgiunto da quello civile:

Ma contemporaneamente va attuata una politica

anticongiunturale fatta di misure contro l’inflazione,

atte a ridurre la domanda non necessaria,

le voci di deterioramento della bilancia dei pagamenti,

l’esuberanza di mezzi monetari in circolazione,

la fuga di capitali,

le evasioni fiscali,

gli squilibri di bilanci pubblici –

e fatta altresì di misure per l’aumento o almeno la

conservazione del ritmo di produzione,

del livello di occupazione,

del volume di esportazioni,

con il controllo qualitativo e quantitativo del creditooooo,

con misure di incentivazione,

con la difesa della domanda proveniente

da ceti di bassi redditiiiii,

con agevolazione alla fornitura di prodotti

e di servizi per i mercati esteriiiii…

“Aaaaamen”. Il cursus della voce recitante i “Misteri” inclina qui

nettamente verso inflessioni di “Ritmi” goliardici, e il sentimento

del sacrilegio e del fescennino è incombente.

Ad ogni modo, his fretus, ossia col suo memoriale in tasca, (…)

Carlo fece la sua ricomparsa ufficiale in società in occasione

della Mostra dell’Automobile […]» [10].

La seconda citazione da Petrolio è di carattere prettamente socio- antropologico. Pasolini descrive le sensazioni provate e le riflessioni

formulate da Carlo, attore principale nel suo ultimo romanzo, che sta osservando una manifestazione fascista, che dà il

titolo all’Appunto 126:

«[…] Nessuno aveva mai detto – da parte del potere – la verità:

cioè che i nuovi valori erano i valori del superfluo, cosa che

rendeva superflue, e dunque disperate, le vite. Dunque, si fingeva

di non sapere. Carlo guardava quei fascisti che gli passavano

davanti. […] erano dei miseri cittadini ormai presi nell’orbita

dell’angoscia e del benessere, corrotti e distrutti dalle mille

lire di più che una società “sviluppata” aveva infilato loro in

saccoccia. Erano uomini incerti, grigi, impauriti. Nevrotici. I loro

visi erano tirati, storti e pallidi. I giovani avevano i capelli lunghi

di tutti i giovani consumatori, con cernecchi e codine settecentesche,

barbe carbonare, zazzere liberty; calzoni stretti che

fasciavano miserandi coglioni. La loro aggressività, [stupida] e

feroce, stringeva il cuore. Facevano pena, e niente è meno

afrodisiaco della pena. Il loro destino li chiamava a lavori pagati

meno peggio che nei decenni precedenti e a [week-end] un po’

più borghesi: quella manifestazione era un diversivo a tutto

questo. […]

In quelle facce di vecchi italiani imbellettati dal benessere, ciò

che non era nevrosi era volgarità: folte sopracciglia nere su occhi

bolsi, guance [pallide], grassezze repellenti e aggressive,

deretani da bestie da soma. […] Quella massa di gente sciamava

per quella vecchia strada senza il minimo prestigio fisico,

anzi fisicamente penosa e disgustosa. Erano dei piccoli borghesi

senza destino, messi ai margini della storia del mondo, nel momento

stesso in cui venivano omologati a tutti gli altri» [11].

Sulla presenza nel nostro paese dei fascisti, quelli di ieri e quelli di oggi, commentava tempo addietro il giornalista e scrittore Enrico

Campofreda: «La forza intuitiva dell’intellettuale [Pasolini] sta comunque nel- l’aver compreso meglio dei politici della Sinistra parlamentare

ed extraparlamentare che il Nuovo fascismo andava ben oltre le sigle e le pratiche degli stragisti legati al Msi. Il disegno organico

d’un Potere palese e occulto, democristiano e malavitoso e poi cangiante nelle formule politiche (centrosinistra e consociativo;

Caf; oggi forzitaliota-postfascista) è tuttora in corso.

All’interno di molti partiti non si sviluppa più una linea organica, magari con maggioranza e opposizione, bensì un disegno che

coinvolge trasversali affarismi e gestione del Potere. Non è qualunquistico affermare che personalismi e affarismo

più o meno celati esistono ormai ovunque e seppure fosse una questione personale nessuna Sinistra s’è liberata delle sue

“mele marce”. Nei partiti gli uomini degli “affari” e della gestione occulta del potere hanno la meglio sugli uomini della moralità. È questo il

Nuovo fascismo che Pasolini temeva e combatteva e che ha ordinato la sua atroce fine» [12].

Angela Molteni, Enigma Pasolini

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