Magazine Diario personale

Philipp Meyer - RUGGINE AMERICANA

Creato il 14 ottobre 2015 da Zioscriba

Philipp Meyer - RUGGINE AMERICANA

Voto:


(Traduzione di Cristiana Mennella)
Dialogo tra sceriffo e vecchio giudice di pace logorroico:
“Tua moglie non ti parla più o cosa?”
“Sono vecchio e grasso”, disse Patacki. “Ragiono, costruisco teorie”.
“Dovresti bere di più”, disse Harris.
Altro buon Romanzo che mi riconcilia con la Lettura (che non è il supplemento del Corriere, ma forse addirittura il suo opposto). Altro Scrittore che sento fratello, anche lui come Pollock (che però è più bravo) toccato dal Dono di usare le Parole per darci emozioni, per deliziarci con intelligenza, per indagare gli abissi dell’animo umano, senza bisogno di scrivere risapute menate sulla televisione, sulla politica, sulle minchiate ideologiche a nastro tanto care ai tediosi saputelli di casa nostra.Bello e gradevole da leggere (frasi brevi e chiare, lontane anni luce dalle verbose e contorte astrusità di certi nostri illeggibili professorini, feticisti del Brutto Scrivere), anche se per uno del mestiere è fin troppo facile scorgere le impalcature: un plot imbastito con ripetute descrizioni di fabbriche in stato di abbandono & ruggine per condire una storia non originalissima e un po’ sfilacciata a base di disagio-degrado-indigenza-violenza-sceriffo. (Che però si lascia leggere con molto Piacere.) Inoltre, pare un po’ curioso che ben tre diversissimi personaggi (il presunto genietto – che in realtà è solo un moderato conoscitore di nozioncine scientifiche da scuola media – l’altro bisteccone tutto figa e football che vive nel solito trailer, lo sceriffo solitario, e poi perfino un quarto, un delinquentello vagabondo) abbiano pensieri filosofici dello stesso tenore sulla breve durata della vita e sul nostro essere di passaggio, come se l’autore avesse preso appunti per il lavorìo interiore di uno solo di loro, e poi si fosse confuso. (Ma a parte questo gli scavi psicologici sono ben fatti, anche se magari un po’ ripetitivi). E poi, come troppo spesso accade (non ho ancora capito se è solo un problema di traduzione, ma nessuno me lo spiega mai), un po’ troppa gente che di continuo “si stringe nelle spalle”. Cos’è, un virus? Insomma: a costo di sembrare incoerente rispetto all’abbrivio della recensione, in tutta onestà vi dico che sì, il libro potrebbe piacervi, ma a patto che non vi aspettiate il capolavoro. Uno dei punti deboli è proprio il protagonista principale, un ragazzotto di vent’anni che ragiona come un quindicenne non troppo sveglio, ma che l’autore, chissà perché, crede di far passare per superdotato cerebrale solo perché è appassionato di Fisica (per certi versi mi ha ricordato il protagonista di un romanzetto molto più brutto e sopravvalutato: La solitudine dei numeri primi): specie nella parte centrale, i capitoli intitolati “Isaac” sono quelli più stucchevoli e deludenti.

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog