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Piante spontanee ad uso magico, rituale, medicinale e inebriante in provincia di Taranto e nel Salento (2/8)

Creato il 28 novembre 2014 da Cultura Salentina

Piante spontanee ad uso magico, rituale, medicinale e inebriante in provincia di Taranto e nel Salento (2/8)

28 novembre 2014 di Redazione

di Gianfranco Mele

Papaver Somniferum: la “papagna”. Usi tradizionali

Piante spontanee ad uso magico, rituale, medicinale e inebriante in provincia di Taranto e nel Salento (2/8)

Con licenza Public domain tramite Wikimedia Commons.

 

La pianta del Papaver somniferum, conosciuta nella nostra tradizione popolare come “papagna” (o “papanja”), della quale ci è pervenuto un utilizzo di tipo medicamentoso nella cultura popolare contadina (calmante e analgesico per adulti e bambini a dosaggi variabili), è pianta collegata a Demetra e Kore, ad Ade, a Morfeo, divinità presenti negli antichi culti locali come risulta da ampia documentazione archeologica. Secondo alcune interpretazioni, è il frutto che porta nell’ade Demetra alla ricerca della perduta figlia Kore.

E’ comunque elemento ricorrente nel mito di Demetra (nonché, insieme alla spiga del grano, attributo della stessa) e in quelli ­similari ­ a lei precedenti. Lo si ritrova in Puglia collegato ai riti Dauni, così come si ritrovano riproduzioni ceramiche, in ambito tarantino, di capsule di oppio. E’ stato identificato da alcuni studiosi anche come uno dei componenti del Kykeon, la bevanda sacra e iniziatica dei misteri, misto in essa assieme alla Claviceps opportunamente trattata, e a labiatae del tipo Mentha pulegium o Clinopodium nepeta. Nella Chora della Magna Grecia tarantina era molto sentito il culto di Demetra, che trovava un punto di riferimento, come santuario di confine, ad Agliano (PICHIERRI, 1975; MELE, 2014), uno dei luoghi oggetto delle mie escursioni, e, per estensione, nella vicina Pasano, anticamente luogo di insediamenti magno­greci anch’essa (PICHIERRI, 1994). Queste località costituivano il confine con la Messapia, e furono caratterizzate da conflitti ma anche da periodi di pace e scambi culturali e cultuali con la Messapia stessa. Anche tra i Messapi era molto sentito il culto di Demetra, che aveva nella vicina Oria, sul monte Papalucio, uno dei principali templi dedicati a questa divinità e a sua figlia Kore. Sino a qualche decennio fa, nella zona che da Sava (avamposto messapico) porta alle contrade di Pasano ed Agliano, si notava la presenza di imponenti stazioni spontanee di papavero da oppio, la qual cosa lascia pensare che questa pianta abbia potuto perpetrarsi in quelle zone, in modo così massiccio, da millenni, e, perciò, essere stata, in qualche modo, parte integrante dei locali culti demetriaci.

Non abbiamo echi evidenti di consumi di tipo cultuale del papavero da oppio nella nostra tradizione contadina, ma questo può trovare una spiegazione nel carattere iniziatico degli antichi riti: non è nella tradizione “allargata” che andrebbero ricercati, caso mai in alcune sue espressioni magico-­esoteriche. Restano forti, invece, le tracce relative all’utilizzo a scopo medicinale. Per calmare e far addormentare i bambini irrequieti sino a qualche decennio fa veniva preparato un infuso dal risultato “sicuro” e immediato, fatto con camomilla e uno o due bulbi di Papaver somniferum. Una variante era il “pupieddu” (o “pupiddu” a seconda del dialetto di provenienza), un succhietto artigianale che prendeva forma di capezzolo attraverso la chiusura in una pezzuola, o un angolo di fazzoletto, dei seguenti ingredienti: mollica di pane, fiori di camomilla, foglie di alloro tritate, semi di papavero da oppio e zucchero (o miele). In assenza della disponibilità di oppio, sia per l’infuso che per il “pupieddu” si utilizzava la Lactuca serriola. Per gli adulti (tosse, insonnia, irritazione, ecc.), i dosaggi dell’infuso erano ovviamente maggiori e rapportati alla sintomatologia o ai risultati desiderati.

Questa tradizione persiste ancora nella locale cultura contadina ed ho avuto modo di verificarlo io stesso negli anni ’90, quando andai a far visita ad una anziana donna che aveva sul tavolo della cucina delle capsule di oppio. Chiesi stupito: “cosa ci fai con quelle”, e la vecchina mi rispose, in tranquillità: “le ho comperate da cummà Pasanedda, che le coltiva ogni anno, mi servono per rilassarmi o per addormentarmi quando sono irrequieta”. Nota curiosa, “Cummà Pasanedda” sta in dialetto per “comare Pasana”, nome anagrafico e battesimale di esclusivo uso locale, e derivato dalla devozione alla locale Madonna di Pasano, divinità che prende il posto di miti antichi della zona, sia simbolicamente che “ fisicamente”: il luogo di culto (e di una modalità di culto tipicamente agreste, affermatosi in periodo medioevale) dedicato a questa Madonna sorge in una zona che in tempi ancor più remoti era dedicata a divinità come Demetra ed altre dee e dei magno­greci che hanno lasciato le tracce della loro presenza cultuale nei medesimi posti.

La “comare Pasana” era una contadina, coltivatrice e produttrice di prodotti vari (vino, olio, pomodori, fichi, verdure e… “papagna”) che consumava per sé e, in parte, rivendeva alle proprie conoscenze. Ovviamente, né l’anziana signora, né la “Comare Pasana” sapevano di essere rispettivamente una consumatrice di oppiacei e una “pusher”: in totale inconsapevolezza sia della legislazione italiana che della associazione botanica della “papanja” all’oppio, credevano di fare la cosa più naturale ed innocente di questo mondo. D’altro canto, la tradizione della coltivazione in proprio del papavero ad uso medicinale è rimasta in auge nel mondo contadino dei nostri paesi finché i contadini non hanno recepito che la medicamentosa e innocente “papagna” era considerata una droga illegale.

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