Magazine Diario personale

Piccoli equivoci senza importanza

Da Shappare
 
Eravamo ancora sedute ai tavolini del Caffè dell’arte, perché Silvia doveva finire la tessera così le avrebbero regalato un pacco di caffè, tra l’altro a casa era finito. Io che ero appena uscita da greco, Laura da un ennesimo infruttuoso colloquio per la tesi.
Silvia afferra la tazzina con quelle sue dita lunghissime:
“Zazu si sposa”
“E quando, scusa?”
“In primavera o estate”
 
Allora ho ripensato a quando ci siamo conosciute, io e Zazu; ero seduta vicino a lei alla prima lezione di Grammatica greca e latina, io credevo si chiamasse Paola e non ci parlavo. Ma in fondo era il terzo giorno di Università. Lei prendeva gli appunti più accurati che io abbia mai visto; io dopo mezz’ora avevo poggiato la penna sul quaderno ed ero scoppiata a piangere. In prima fila.
Non è questo che voglio fare, cazzo, non è proprio questo.
Non se ne era accorto nessuno, il sacro fuoco della psilosi e di Grassman aveva avvolto gli strani esseri di Antichità.
Ma poi eravamo diventate buone amiche, ci passavamo appunti, libri e commenti sulle coppie assurde che si andavano delineando in quella gabbia di matti.
In breve eravamo “la nuova coppia di Antichità”, anche se a me sembravamo più il diavolo e l’acqua santa. Zazu è deliziosamente tenera, timida, forte, capace e silenziosa; io ho le spalle troppo larghe e un accento troppo marcato. La prima settimana avevo già un soprannome per tutti, non per cattiveria, ma perché io i nomi non me li ricordo mai.
Quel che più ci ha unite credo sia stato preparare insieme l’esame di Storia greca il ventisette luglio, tra l’afa e le zanzare pavesi, lei che mi faceva l’imitazione di Ambaglio mentre diceva che Euripide era stato “sssbranato dai cani molosssssi del re Archelao di Macedonia”, io che le spiegavo che in nessun modo poteva essere “Clisténe” l’accentazione corretta, ma “Clìstene”.
Poi mi sono fermata a cena: è stato incredibile, una famiglia di dieci persone, tutte insieme a tavola; hanno iniziato a pregare e io mi sono a un tratto vergognata di non essere battezzata e del mio ateismo.
Il giorno dopo, all’esame, Zazu ha ovviamente detto “Clisténe”.
Io ho detto che volevo parlare del Dialogo dei Meli, e Ambaglio mi ha risposto di stare attenta a quale albero mi stessi andando a impiccare.
 
Dopo le vacanze e prima che la vita decidesse di ricondurmi a Brescia per molto tempo, ci eravamo incontrate. Io abitavo con Silvia e Benedetta, in quella casa di via Carpanelli con una colonna in mezzo al salone.
“Zazulina! Come stai?”
“Oh, bene!” Poi, abbassando lo sguardo per non far vedere il rossore “…Sto con un ragazzo”
“Ma dai Za’, che bello. Anche io”
“E’ di giù”
“Anche il mio”
“Calabrese”
“Anche il mio… E di dov’è?”, avevo chiesto, aspettandomi una risposta tipo “Cosenza” o “Reggio”, mentre Benedetta, Silvia e Laura sghignazzando già insinuavano che ci fossimo messe con lo stesso ragazzo.
“Mh… Palmi?”
“Anche il mio.”
 
Tornata a Brescia, non l’ho più vista molto. Un giorno, con la mente persa negli ordini architettonici e nelle correzioni ottiche del Partenone, ho preso un caffè con lei, insieme a Benedetta e Silvia.
Benedetta ha sempre sostenuto di volersi sposare nel 2011; non aveva un ragazzo, eh, ma ne era convinta. Perciò è stata lei a vedere l’anello di Zazu:
“Ma Zazu… E’ un anello di fidanzamento, quello?”
Lei, paonazza, aveva detto che sì, insomma, si sarebbero sposati, ma dopo la laurea, ché lui prima doveva tornare dal dottorato a Buffalo.
Io e Silvia le guardavamo stranite, con la nostra dose di cinismo e indipendenza dagli affetti solo in parte giustificata da vite un po’ più ruvide delle altre.
Zazu si è laureata, a settembre.
 
Da un paio di giorni a Brescia è tornato il sole e in mansarda non fa ancora il freddo che mi aspetto.
Io continuo a pensare alla laurea e a Palmi e a come due cose tanto uguali possano declinarsi in modo così diverso.
E scrivo a Silvia, ora che entrambe viviamo sole e a stento, tra ripetizioni e lavoretti che ci mantengano pulita la dignità. Entrambe al terzo piano rialzato, con le travi a vista e gli scrosci di pioggia che non ti fanno dormire; entrambe che abbiamo perso troppo per capire che stiamo vincendo, in altro modo.
Pur se le scarpe alte mi stanno guardando, ché è di nuovo ora di andare ad essere quel che non sono.

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