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Piccoli superbi

Creato il 08 gennaio 2016 da Speradisole

PICCOLI SUPERBI

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Per la folla dei piccoli superbi non ci sono foto che identifichino qualcuno, uno qualunque: è una schiera anonima. Non ci sono grandi individualità. E’ una microfisica del potere, la rete di poteri esercitata nelle scuole, nei tribunali, negli uffici, nelle carceri, negli ospedali.

In una società tendenzialmente egualitaria come quella democratica, questi piccoli superbi, o meglio superbi piccoli, pusillanimi, si accomodano nelle nicchie di potere che si formano al suo interno. Si spegne la fiamma dell’eccezionalità, della superbia magnanima e aristocratica e si fa spazio all’arroganza pusillanime di amministratori, impiegati, poliziotti, funzionari di un ordine, di una sicurezza animati troppo, animati in modo eccessivo, disordinato.

Si parla di dispotismo paternalista dello Stato nello spazio individuale, ma lo Stato, il dispotismo paternalista non sono che fantasmi astratti. Essi si fanno carne ed ossa nei funzionari, negli esecutori, nella moltitudine dei piccoli individui grigi che, incarnando questo nuovo immenso potere tutelare, ne assumono la superbia, l’arroganza, la pervasività inquisitoria.

E’ l’arroganza delle rotelle del meccanismo, degli ingranaggi del dispotismo, ciascuno dotato di un micropotere rispetto al quale è solo funzione, ma che, nel complesso, è immenso e irresistibile e dunque sorregge la singola tracotanza. E controllano e sorvegliano e dispongono risorse e negano e umiliano e vessano.

Nella società democratica e sostanzialmente egualitaria non esiste, nella concretezza delle relazioni, una vera uguaglianza di poteri e di posizioni sociali.

Il potere istituzionale che assume sempre più carattere tecnico amministrativo di fronte al gigantesco compito di realizzare i diritti di tutti e ottenere consenso, si organizza sempre in modo verticale, eccedendo strutturalmente il potere dei singoli. Nonostante la parola “egualitario” si ripristinano i ruoli differenziati e le gerarchie.

Lo Stato sono i suoi funzionali, alcuni dediti al bene comune e al servizio dei cittadini, altri assai meno: e questi usano la piccola ma nevralgica porzione di potere che gli deriva dall’appartenenza alla grande Macchina burocratica, per vessare e umiliare i cittadini.

A tutti noi sarà capitato di dover sbrigare una noiosa pratica in un ufficio (magari grigio e di impronta fascista) con immensi saloni spesso suddiviso malamente in piccole nicchie di policarbonato che sarebbero trasparenti allo sguardo inquisitore del capoufficio se solo fossero un po’ meno polverose. In ciascuna di esse un impiegato o un’impiegata con davanti un computer, aspetta.

Un episodio personale chiarisce meglio ciò che intendo. Poco tempo fa, ho ricevuto la lettera dal Cimitero comunale che mi informava che i termini di sepoltura in un tombino di una mia lontana parente (morta senza figli né eredi) erano scaduti e che la defunta aveva chiesto la cremazione dopo questa scadenza. Tutti i parenti prossimi dovevano dare il loro consenso per la cremazione. Allegato vi erano i documenti da riempire e la richiesta di fotocopie della carta di identità di tutti parenti prossimi. Poiché durante il periodo (25 anni) di sepoltura in un tombino, la luce cimiteriale l’avevo sempre pagata io, perché la persona era molto amica di mia madre e perché sono l’unica (o quasi) che abita in città, la lettera ovviamente è stata indirizzata a me. Sembrava semplice, ma la complicazione intervenne quando si trattò di dover far firmare il consenso ed inviare la fotocopia della carta d’identità di tutti parenti prossimi, perché siamo 16 secondi-cugini viventi. E non tutti vicini di abitazione. Tempo disponibile per acquisire il tutto: una settimana. Mi reco all’ufficio comunale del Cimitero per chiedere se è sufficiente il mio consenso o se davvero debbo acquisire tutti quei documenti, visto la difficoltà di farli pervenire in tempo utile tutti quanti, anche da chi abita a Brescia, e in tanti altri Comuni non vicini. La signora, dapprima gentile, si fa arcigna, mi tratta malissimo, come se fossi stata io la colpevole di avere tanti parenti, sparsi qua e là. Faccio notare la difficoltà di far pervenire il tutto nei termini di una settimana, ma l’arroganza della signora aumenta, e aumenta il suo suono stridulo, mi fa quasi sentire una delinquente, cancella con rabbia, tracciando un segnaccio da cima a fondo, con un pennarello nero, l’unico foglio, che avevo compilato a mio nome e pure la fotocopia della mia carta d’identità.

Non ne ho voluto più sapere. Sono riuscita, tramite l’aiuto di tutti e dei fax, a far pervenire ciò che mi era stato chiesto, ma ho spedito tutto con posta raccomandata. Non volevo più vedere quella faccia arcigna. Veramente quello non era il posto giusto per esercitare una simile arroganza ed una tale superbia. In fondo si trattava anche di un luogo triste.

Ma gli episodi da raccontare sono tanti, non ultimo, in questi giorni natalizi, in cui, un farmacista, davanti alla richiesta di un medicinale prescritto (col nome brevettato) da una dottoressa del pronto soccorso e davanti alla richiesta del medico curante che ha prescritto lo stesso farmaco, ma in forma generica, non ha saputo o voluto scegliere (sono uguali) ed ha preferito mandare a casa il paziente (in questo caso una mia nipote), senza il farmaco. Si trattava di un antibiotico. Al che sono proprio andata fuori dai gangheri.

In questa nostra società, molti di quelli che fanno i giudici, i professori, i professionisti, o anche i ministri, sanno di non possedere la dignità e l’autorevolezza riconosciuta al ruolo che ricoprono, allora compensano la propria indegnità con il tormento che infliggono al più debole. L’abuso di potere è una meschina soperchieria che a stento si può chiamare superbia. La superbia infatti è spesso anche servile e sa di essere pronta anche a prostituirsi.

A questo proposito suggerisco, a chi non l’abbia ancora letto, il libro: Lettera scarlatta (di Nathaniel Hawrthorne). Anche quella è una storia di ordinaria intolleranza in cui un potere religioso, incarnato in una ben modesta persona, distrugge la vita di una donna, parte debole, estromessa dalla comunità.



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