Magazine Lavoro

Pierre carniti e il declino sindacale

Da Brunougolini
PIERRE CARNITI E IL DECLINO SINDACALE
Sul sito curato in particolare da Adriano Serafino, gia dirigente Cisl, (http://www.sindacalmente.org/content/un-sindacato-libero-e-autonomo-pcarniti-promemoria-tre-parti) appare una lunga riflessione di Pierre Carniti. Un'analisi che riguarda le polemiche sorte in Cisl relative a emolumenti e stipendi, nonché la necessità di ridiscutere l'accordo del 1993 e le proposte circa "il lavoro che manca".
Un particolare interesse suscita la parte che riguarda il declino sindacale e l'esigenza di un processo unitario. Osserva Carniti che "come tutte le istituzioni, anche il sindacato può sopravvivere benissimo a sé stesso. Può benissimo sopravvivere all’abbandono  di compiti che pure ha assolto in altre fasi storiche. Ma se tra i suoi scopi decide di mantenere anche il proposito di  incidere direttamente sullo sviluppo economico e sociale, per assicurare una più equa distribuzione sia del reddito che delle opportunità di lavoro, allora deve compiere scelte conseguenti. La prima delle quali è che l’unità non può ridursi ad una invocazione, ad un mito, ma deve diventare il terreno di una conquista quotidiana".Ed ecco l'intero ragionamento di Carniti su questo aspetto:

Altrettanto urgente da sciogliere è il nodo cruciale circa le condizioni che possono consentire al sindacato di incidere sulle scelte di politica economica e sociale. A questo riguardo è però essenziale un chiarimento preliminare relativamente ai compiti che esso si propone di assolvere. Se il suo fulcro è la determinazione delle condizioni di lavoro e di salario, non c’è dubbio che esso può benissimo essere realizzato anche in un quadro di pluralismo organizzativo. Sia pure con una duplice avvertenza. Primo: chi pensa sia utile difendere una prospettiva di pluralismo sindacale, dovrebbe fare qualche conto con la democraticità dei propri ordinamenti interni. In particolare chi esalta la dimensione associativa del sindacato avrebbe il dovere di sviluppare una democrazia associativa che appare oggi gravemente claudicante. Questo impegno non corrisponde a esigenze virtuose, o moralistiche. Ma tiene semplicemente conto dello straordinario impatto che una consistente burocrazia sindacale, i suoi destini ed i suoi interessi, hanno nei confronti dei soci. Tanto più quando i motivi personali per associarsi diventano possono risultare del tutto indipendenti da un disegno di trasformazione sociale e dunque, in qualche modo, da un sistema di valori. 

Qui viene la seconda osservazione. Nella determinazione delle condizioni di lavoro e di salario, il pluralismo sindacale, entro certi limiti, può esplicarsi abbastanza liberamente. Senza particolari danni e quindi anche senza insuperabili drammi. In un contesto di sufficiente libertà ed anche di accettabile legalità, si possono cioè sperimentare accordi separati ed anche conflitti separati, . Nella ragionevole certezza che alla fine essi possono produrre un po’ di irrazionalità, ma non scardinano nulla. Per lo meno nulla di decisivo. Certi scioperi, soprattutto nei settori dei servizi che toccano più direttamente la situazione dei cittadini, possono essere disapprovati, ma non ritenuti illegittimi. Quando si svolgono nel rispetto di alcune regole condivise e tengano conto della rappresentanza. 

La questione vera è però un'altra. Circoscrivendo il compito ed il ruolo del sindacato a salari e condizioni di lavoro il sindacalismo confederale perde gran parte della sua ragione d’essere. Perché il sindacalismo corporativo, cioè senza vincoli di carattere sociale e dunque di valori, può essere più disinvolto e quindi anche più capace di ottenere risultati teoricamente più significativi. Ma se questa diventa la prospettiva essenziale del conflitto sociale bisogna mettere in conto anche un pluralismo che non si  articolerà necessariamente intorno od ai margini delle tre grandi confederazioni. Nulla riuscirebbe infatti ad arginare una frantumazione corporativa, per molti versi già tendenzialmente in atto. Basti pensare soltanto alla proliferazione di contratti nazionali (oggi oltre 700), che andrebbero ridotti a non più di qualche decina.

Chi, al contrario, ritiene che l’equità, la giustizia sociale, la lotta alle diseguaglianze ingiustificate, siano compiti da perseguire anche nella società contemporanea, e che quindi permangano le ragioni di fondo che hanno storicamente prodotto l’esperienza del sindacalismo confederale, non può non fare i conti con l’esigenza di unità. Infatti, senza unità il sindacalismo confederale, prima ancora che sulla possibilità di soluzione dei problemi, non è nemmeno in grado di influire sull’agenda dei temi da discutere. E se esso si limita a reagire di rimessa alle iniziative che prende il potere politico o quello economico, diventa pressoché inevitabile il rischio che si produca una divisione tra quanti pensano che la sola cosa da fare è organizzare la protesta e quanti pensano invece che occorra, innanzi tutto, lavorare alla “riduzione del danno”. Le cose naturalmente non si semplificano, ma al contrario si complicano, quando al confronto sulle iniziative altrui ci si presenta in ordine sparso. Senza piattaforme comuni. Si capisce bene che le piattaforme unitarie non costituiscono una cauzione assoluta contro il rischio di accordi separati. Ma è sicuramente vero l’opposto. Infatti, salvo un miracolo, le piattaforme separate non producono mai un accordo unitario. In ogni caso, il dato incontrovertibile, suffragato dai fatti (recenti e meno recenti) conferma che, in particolare sui temi di politica economica e sociale, la divisione genera solo un risultato: l’impotenza.

Stando così le cose, non servono a nulla gli auspici affinché  il pluralismo sindacale riesca comunque trovare, di tanto in tanto, punti di approdo unitario. Bisogna anche dire chiaramente che la situazione in atto non può scoprire un alibi nel fatto che l’esperienza unitaria è fallita persino in momenti che parevano essere più propizi. Quanto meno in relazione all’orientamento prevalente tra i lavoratori. Tuttavia, il richiamo a precedenti insuccessi appare essenzialmente strumentale. E quindi privo di senso. Intanto perché esso prescinde da un elemento decisivo. Vale a dire il peso che nelle vicende pregresse ha avuto il comunismo, come movimento politico organizzato. Sia per la sua  pretesa di interpretare il “primato della politica” come “primato del Partito”, che per la regola del “centralismo democratico”. Regola, secondo la quale, la discussione era libera, ma la solidarietà con “il centro” al termine della discussione era obbligatoria.

Ormai però, da oltre un quarto di secolo (tanto a livello internazionale che nazionale) il comunismo è scomparso. Quanto meno come movimento politico organizzato. Rimane certamente qualche nostalgico, qualche solitario devoto, ma ovviamente  senza alcuna effettiva capacità di influenza sulla dinamiche dei movimenti collettivi. Cos’è allora che può ancora giustificare il persistere del pluralismo di organizzazioni sindacali confederali. La risposta degli “addetti ai lavori” (in particolare del ceto sindacale, sempre più chiuso nell’ermetismo dei suoi dogmi) è che la spiegazione deve essere ricercata nell’esistenza di “differenze sulle politiche”. Si tratta  tuttavia di un punto di vista del tutto evasivo e perciò privo di persuasività. Infatti le differenze sulle politiche sono sempre esistite. Esisteranno sempre. Esistono anche all’interno di ogni organizzazione. E quando non si manifestano è un brutto segno. Perché vuol dire che si discute troppo poco. Vuol dire che prevale il conformismo, che non è mai il miglior coadiuvante della democrazia interna. 

Il problema vero, dunque, non solo le differenze. Del resto il progresso umano è avvenuto perché le diversità tra una cultura ed un’altra, tra un paese ed un altro, sono sempre state assunte come una ricchezza individuale e collettiva insieme. Ovviamente non tutte le diversità sono uguali, non tutte le diversità sono fruttuose, non tutte le diversità sono interessanti. Dobbiamo quindi concepire le diversità non solo come indubbio pregio dell’esistenza degli esseri umani, ma funzionali ad un progetto, ad una idea, ad uno scopo ad un interesse. E’ questo il motivo che rende la diversità di opinioni in un sistema democratico cosa fondamentale. Se si esclude qualche eccentrico e settario noi siamo oggi pienamente consapevoli che la ragione non sia tutta da una parte e dall’altra il torto. Anche se a volte sembra difficile crederlo. Specialmente in Italia. Ma allo stesso tempo siamo sicuri che dal punto di vista cognitivo, della consapevolezza, è un bene che ci sia questa differenza. Perché nelle disparità dei pareri, nelle discussioni, la diversità delle opinioni fruttifica, è generativa. Ovviamente se ciò avviane in un contesto di democrazia. Lo strumento della democrazia diventa infatti il ponte tra individuale e collettivo. Questo e non altro distingue una diversità futile, superflua, inutile o qualche volta addirittura dannosa, da una diversità funzionale al sistema in quanto tale. Perciò la cosa che conta non è la presa d’atto della disparità di opinioni, ma dove si può o si vuole arrivare. Quindi l’esistenza di snodi costruttivi per affrontare le difficoltà che si riscontrano nei percorsi che intraprendiamo. In quanto allora la democrazia è in grado di porre le differenze di opinioni a frutto di una maggiore consapevolezza collettiva.

Per il sindacalismo confederale il problema dunque non è dato dall’esistenza di diversità, di differenti opinioni, deducendone un alibi per l’inazione, è semmai quello di predisporre un meccanismo (nel nostro caso modalità democratiche condivise) che le metta insieme e le faccia diventare una volontà collettiva unica, più alta e più coesa rispetto alla incapacità delle singole organizzazioni di affrontare i problemi pubblici. Stando così le cose la questione che sta di fronte al sindacalismo confederale non è ovviamente quella di ripiegarsi su sé stesso per recriminare sull’esistenza di disparità di opinioni, autocondannandosi all’impotenza ed alla paralisi, quanto piuttosto di stabilire di stabilire con quali mezzi e metodi, quando le differenze si manifestano, possono essere ricondotte a sintesi unitaria. Il nodo essenziale, allora, è semplicemente quello di stabilire se le organizzazioni sindacali hanno la volontà e la capacità di darsi norme che le mettano in grado di decidere assieme. Soprattutto in presenza di posizioni contrastanti.

A questo fine le regole canoniche della democrazia (cinquanta più uno delle teste) possono risultare inadeguate a stabilizzare una pratica di unità d’azione. Perché venendo da una lunga stagione di divisioni è difficile che una maggioranza di voti sia sufficiente a garantire l’accettazione di un risultato cooperativo, o conflittuale, sostenuto da chi vince il confronto. Decisioni a maggioranza qualificata potrebbero risultare più rassicuranti ed appropriate. Almeno per accompagnare la fase di transizione verso approdi unitari più strutturati e definitivi. 

Particolare circospezione e cautela andrebbe anche utilizzata circa l’impiego di strumenti referendari. Soprattutto quando escono dal perimetro dell’azienda per coinvolgere l’insieme dei lavoratori. Sia per l’impossibilità di attivare controlli effettivi sul loro esito reale. Sia soprattutto per impedire che, in assenza di garanzie effettive in ordine al loro svolgimento, la sopraffazione finisca per conculcare la ragione. A nulla infine, se non a pasticciare le cose, servono le stranezze di formule oscure come la “democrazia di mandato”. Sostitutiva della “democrazia rappresentativa”. A maggior ragione quando per la così detta “democrazia di mandato”, viene invocato il presidio di una legislazione regolatrice. Che finirebbe soltanto per aggiungere problema a problema. In quanto il sindacato finirebbe per essere subordinato ad un regime di autorizzazione e di controllo statale ed ai suoi mutevoli equilibri politici. Con inevitabile affievolimento della sua autonomia, della sualibertà, della sua efficacia. 

In estrema sintesi, tutto induce a riconoscere che il proposito di ridurre il deficit di incidenza del sindacalismo confederale in una società sviluppata come l’Italia comporti la necessità di agire: tanto sulle difficoltà ad includere i marginali ed i flessibili per evitare una inevitabile contrazione della sfera sociale in cui l’azione collettiva riesce a contare; quanto sulla capacità di dotarsi di regole condivise (autonome, non eteronome) per decidere assieme.  

Chi intende accingersi a questo compito dovrebbe tenere presente un istruttivo dialogo contenuto in “Alice nel paese delle meraviglie”. Precisamente là dove Alice chiede al gatto Cheshire: “Vorresti per favore dirmi quale strada devo percorrere da qui?” Ed il gatto le risponde: “Dipende da dove vuoi andare”. Perché proprio, come per Alice, anche per il sindacato la cosa essenziale è quella di decidere, innanzi tutto, dove vuole andare. Sia chiaro: in gioco non c’è la sua sopravvivenza, ma il suo ruolo. Infatti, come tutte le istituzioni, anche il sindacato può sopravvivere benissimo a sé stesso. Può benissimo sopravvivere all’abbandono  di compiti che pure ha assolto in altre fasi storiche. Ma se tra i suoi scopi decide di mantenere anche il proposito di  incidere direttamente sullo sviluppo economico e sociale, per assicurare una più equa distribuzione sia del reddito che delle opportunità di lavoro, allora deve compiere scelte conseguenti. La prima delle quali è che l’unità non può ridursi ad una invocazione, ad un mito, ma deve diventare il terreno di una conquista quotidiana. 

E’ probabile che gran parte della letteratura sul “declino sindacale” esprima più un auspicio che la narrazione di un fatto. Tuttavia sembra difficile negare che il sindacalismo confederale stia attraversando un periodo di “nuvole basse” e si trovi alle prese con un problema di identità. Che è sempre un problema di strategia. Naturalmente si può pensare che esistano molti modi per cercare di risolverlo. Difficile però anche soltanto provarci, se non si dovesse almeno incominciare ad investirvi unitariamente più risorse e più pensiero.


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