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Pioggia written by Raffaello Bovo

Da Parolesemplici

Pioggia written by Raffaello BovoQuell’anno pareva davvero che tutto dovesse seccare e andare perduto il lavoro che i nonni avevano fatto. La gente nei campi si segnava e scrutava l’afa accecante, a cercarvi uno straccio di nuvola che portasse anche solo due gocce, per tirare un po’ il fiato. La mano a far da visiera e gli occhi strizzati, lanciavano una bestemmia all’unito turchino del cielo e si serravano in casa, lasciando per via aliti di polvere spessa.

Così anche le bestie. Fuggivano l’aria raschiante dal secco e le aie eran deserte di tutto e solo si sentiva ronzare tafani. Tutto pareva fermarsi e respirare più piano per far economia di quel fiato di vita che ancora restava.

Poi venne un’acquata e a tutti brillarono i denti.

Ma il sole tornò più bastardo di prima e l’acqua che era venuta servì solo a fare una crosta nei campi e a soffocare quel poco che c’era rimasto. Restarono soltanto i rovi e le malerbe e su queste prese, allora, a piovere forte. Piovve per ore e per giorni e quelle vennero più verdi e più grasse, poi anche loro presero a patire il diluvio.

Il greto secco del fiume, che ormai si diceva soltanto più buono a pascolarci le capre, per tutta l’estate se n’era restato sonnacchioso, lasciando ciondolare indolente una scia d’acqua schiumosa che non sarebbe bastata a farci nuotare un barbo di un etto. Ma adesso si stava svegliando dal suo torpore.

Ognuno, in paese, che fosse abbastanza vecchio da conservarne memoria, aveva nostalgia del fiume una volta denso di pesci e lo passava, per cambiare borgata, scrollando la testa a pensarlo, adesso, impestare campi e bricchi dell’odore di farmacia che si portava appresso per tutta la valle. Ciascuno l’aveva in cuor suo come un dolce ricordo di fresca ragazza, trovata poi sfatta dagli anni e dalla vita in città e che ad andarci t’attacca lo scolo.

Allo stesso modo, però, sapevano anche che quello era un fiume bastardo, come un figlio selvatico che fa niente e serve a niente e se ne sta tutto il tempo con la pancia per aria ma, a stuzzicarlo, alza la cresta e strilla e rompe cosa gli capita a mano e picchia da disperato.

In quel sentiero di sassi incavato, quasi nascosto tra i ciuffi polverosi d’erbacce e gli alti steli del kapok, quando l’acqua rompeva dai bricchi che iniziavan la valle era come si rompesse una brocca con una fiondata e l’onda fangosa e irta di frasche s’avventava con la foga d’un toro che, se s’infuria, cosa gli capita incontro la spazza.

 

* Dice l’autore: “Il brevissimo raccontino che ti invio, funge da prefazione o preambolo ai racconti successivi, in cui troverai spaccati di vita quotidiana nella mia personale Yoknapatawpa langarola“.

** La foto riprende la lapide visibile a Cortemilia in cui sono segnati i livelli raggiunti dall’acqua del fiume Bormida e del suo affluente, torrente Uzzone, che si congiungono proprio in quel paese.

 


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