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PITTURE NERE n.3: Marino Magliani, “Quella notte a Dolcedo”

Creato il 04 novembre 2013 da Retroguardia

Marino Magliani, Quella notte a DolcedoMarino Magliani, Quella notte a Dolcedo, Longanesi, 2008, Pagg 264 , € 16,00

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di Lorenzo Muratore

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Le sicure pagine di “Quella notte a Dolcedo” svolgono dai veli della nebbia lo “spinoso affare” della strage nel pozzo.

Hans Lotle, disciplinato soldato tedesco, vi fu tratto in una specie di imboscata morale.

“Lo sguardo si era infilato nel folto di un rovo e l’aveva vista per caso. Gli occhi della bambina spiavano il loro passaggio dal folto dei rovi…

Per un paio di giorni s’era tenuto dentro anche quegli occhi, ma adesso aveva chiesto di essere ricevuto dal capitano…”.

Il quale, alle spalle del soldato, pronunciò strane parole: Sadrach, Mesach, Abdenego.

Parole che sono un filo per uscire dal labirinto: ma colui che dovrebbe uscire non le comprende.

Rovi e vepri ancor più irti sorprendono il lettore: come quel giorno, e quel mare che “incendiavano” le finestre; o quella donna che, “in un vomito di luce tremante”, egli rivide.

Così, da un luogo assiepato di rimorsi, menare i duri sonni senza cavarsi alcun segreto di bocca, è una difficoltà tragica.

“Quando ha saputo che nel Locus Bormani hanno trovato davvero le zanne del mammut è tornato, ci sono stati scavi illegali, forse la valle era davvero un cimitero di mammut, hanno trovato altre zanne ma sono riusciti a farle sparire.

Forse c’era di mezzo… Aveva comprato una casetta fuori Bastiero, non s’è preoccupato neanche di cambiare nome, ovunque ha usato sempre il suo, Thomas Garser. Un giorno l’hanno trovato morto. Ci sono voci di bande, ma nessuno realmente s’è mai preoccupato di accertare se è morto di morte violenta. Lo hanno bruciato, così come sono finiti nel falò le sue carte e i mobili di casa sua”.

È un discorso drammatico, ma sospeso in un’aria di favola, per via del “Locus Bormani”, e per via dell’irrompere del “mammut”.

Un qualcosa che sembra naturalissimo, ma che in realtà io non capisco; e questo è già un miracolo. Capisco che c’è un significato importante, un mistero; che la benevolenza del caso, mai del tutto disperata, offre nella tortuosità del ragionamento.

Conducendo i suoi passi, come un filosofo eremitico in cammino, Hans non vuole perdersi, ma “essere preso” nel mondo vasto e volubile della propria colpa.

Gli altri, o sia “tutti” spingono da una parte come qualcosa di estraneo quel ricordo; il quale è chimicamente instabile, come d’una verità non narrabile.

Ma, così facendo, finisce che quasi non hanno più ricordi e quindi non possono nemmeno più resistere alla Contemporaneità che li assale.

La Liguria, si sa, è una bestia ribelle; ma anche sfinge ieratica; come gli occhi lucenti dei suoi marmorei leoni imperiali, ondulanti la chioma musicale con una grazia perversa.

La Liguria resiste nella sua anacronìa. Però, quello che accadde in “Quella notte a Dolcedo” è la metafora d’una distruzione. È la colpa prima; quella che cancella le due più grandi Nostalgie che abbia mai avuto l’umanità; o sia la nostalgia del Paradiso perduto, e quella del Paradiso non ancora costruito.

La Storia umana è, forse, molto lunga, e più ricca di illuminazioni della speranza corta, e selvaggia, della storia normale.

Che c’entra Hans? Perché egli, rispondendo a quel finto attacco nemico, ne è stato uno strumento.

Quelli del pozzo, “prima” di essere uccisi dai soldati nazisti, o sia da loro, erano già stati condannati a morte dal villaggio che riuscì a trascinare loro, quei soldati, a sparare.

La lettura è un piacere, ma non un riposo. C’è anche un linguaggio idiomatico, nascosto nella lingua, che mi piacerebbe decifrare o apprendere. Come i resti del mammut, cui ho già accennato.

“Gli ulivi invece non raccontavano nulla, pietre senza stagione, solo quando il vento li sorprendeva dal mare, voltavano le foglie e diventavano chiari come i pesci morti quando salgono a galla”.

Frase stranissima, che segretamente, ci dice tutto.

Non è dissonante che Marino Magliani dica questo delle sacre fronde di Minerva?

Effettivamente, l’immutabile tristezza degli immortali ulivi, ristabilisce una pace troppo tranquilla; nel senso che sotto quelle fronde Hans non può trovare la spiegazione del suo panico.

“Si inventano delle cose vive per non vederle morte, la mente ne ha bisogno”, gli aveva detto saggiamente, e forse con ipocrisia, il capitano.

Pure Hans indovina e vede che quegli occhi (quelli della bambina) “avevano capito tutto, ma non sapevano nulla”.

E soltanto molti anni dopo viene a sapere che quella bambina era lì per allontanare ogni sospetto dal padre, il quale sparando un “colpo” ai soldati, doveva determinare la tanto desiderata ed esattamente prevista risposta: la strage del pozzo.

L’edificio della memoria, anche se non esiste più nulla, lascia sussistere dei sapori ancora per molto tempo, come delle anime; per cui Hans guarda a tutti quei lavori di “mettere a posto” le case con la trepidazione e con la paura di tagliare i ponti con un passato il quale, prima di essere ben decifrato, scompaia.

Un filo di memoria può dunque divenire una Lanterna magica.

Lo sguardo fruga d’intorno, attento ad accordare ogni particolare che brilli tra la cenere e i diamanti d’una vagabonda notte; e d’improvviso un qualcosa si mette a vibrare in modo inatteso.

Però, ecco, la silenziosa armonia del tutto è retta da un pensiero dominante. Terribile, ma caro. Quello di far incontrare di nuovo lo sguardo della ex-bambina, collo sguardo dell’ex-soldato, divenuto un eremitico viandante, ed infine un nuovo ricco.

Quell’iride dovette intensamente incantare lo sguardo sommesso del cacciatore, anche perché, come l’occhio quadrangolare del Tao, poteva spiegare quella strage meglio dell’occhio cieco del veggente, che divina il futuro ma non il presente.

Sono due sguardi molto inquisitori che demoliscono i nostri alibi; perché ci illuminano sul fatto che esiste un qualcosa di intrinsecamente tragico, ancor prima che le tirannie costituite infliggano una specie di castrazione alle navigazioni della Storia, costringendo l’anima entro confini troppo ristretti.

Hans non è alla ricerca d’antiche mitologie, che sono anch’esse un povero passatempo − schlechter Spass! − per le notti dei vagabondi; e forse meno di altri, alle più bramose attese della Storia, alza i calici che si riempiono ai baccanali di nuove libertà.

Da una lontananza di sogno dolci canti lo esortano a tornare; e in sogno la Liguria gli appare come una isola di morti.

Altri vi sospetta tesori nascosti. Luogo senza peso; la cui musica rappresa nell’aria è nell’istante in cui egli s’accorge del proprio mal di testa.

Essa diventa, per via di quegli occhi appunto, la sola fantasmagoria capace di effondere consolazione.

Al luogo della morte consolata: a Dolcedo; molto prima di lui, un misterioso altro tedesco, “quello degli atti”, si era ritirato, trascinato dai suoi folli studi. Altra fluttuante figura, egli che nei primi tempi apparve come “ridicolo”, ma anche magicamente misterioso; e che è proprio quegli che, in base alla logica apparente, avrebbe dovuto starsene più lontano di altri da quel paese; ma i suoi “mammut” non sono più “veri fantasmi”: in quanto diventano per lui realtà assoluta, e oggetto di scienza.

La fantasmagoria di Hans invece nasce nella sontuosa lentezza di Berlino; dove anche l’attimo diviene eterno.

Se l’attimo e l’eternità coincidono dov’è allora il “tempo”? O sia l’uomo, colla sua memoria?

Però, mentre a Berlino la “fine del tempo” è imposta dalla violenza giuridica; non lungi da Dolcedo, nel luogo dell’auto da fé, la “fine del tempo” è la spontanea conseguenza del senso di colpa collettivo; per cui nessuno ha mai voluto accorgersi, ad esempio, che il vecchio di Stoccarda era stato qui da capitano.

Il ligure, si sa, non si adopera mai nella industria dei gloriosi ricordi; che tiene anzi segreti come in uno scrigno. Egli cela sempre; e non svela. Però qui non si tratta di memoria pudica; bensì di totale rimozione.

Per quanto è giunto di questi luoghi, dove si compravano le case dei morti, il fantasticare di Hans transita come un soffio per conciliarsi con l’aldilà.

È come se egli volesse sussurrare un canto al servizio di quello sguardo, contro cui egli aveva puntato il fucile, senza sparare; ed anche lui, a un punto si accorge però che quello sguardo promise di più di ciò che è semplicemente stato.

Che la santa lancia si arrestasse dinnanzi a quello, era già “scritto” e previsto; per cui, già allora egli era nella latente circostanza comica di seguire progetti altrui senza saperlo.

Si accorge inoltre che quella non è la meravigliosa isola dei morti, ma una terra dove anche il progredire è parodia.

Ogni passo in avanti è qui infatti insieme un passo indietro nell’arcaico trascorso; e le magnifiche sorti dei luoghi hanno bisogno di affidarsi al “Mammuthus primigenius”.

L’accademico sa guardare in faccia il “nuovo” solo in quanto lo riconosce come antico.

Un’altra figura comica − oltre al “mammut” del capitano − sono le chiose degli eventi; sempre o troppo semplici (davano il pane ai partigiani e i tedeschi li hanno fucilati); o troppo complicate: Sadrach, Mesech, Abdenego.

Non si sa più presso a quali povere ragioni, le quali restano innominate ed arcane, i fatti siano organizzati.

Ma quale stupore improvviso, quale gioia stranissima non prorompe dal cupo fondo dell’angoscia nel trovare schiarito, anche provvisoriamente, un significato clandestino…

Paradossalmente, appare a lampi, quella che vuol essere la vocazione di Marino Magliani: essere Archeologo di questi nostri giorni; afferrare il loro idioma e il loro canto; la loro latente comicità.

Questo, però, non appassiona il suo principale personaggio: Hans.

Il quale tribola a lasciarsi dire, anche da se stesso, se c’è un nesso tra la morte della madre e quel viaggio: essendo cosciente di toccare qualcosa di peccaminoso.

“No, l’aver atteso di rimanere solo al mondo era stata solo una scusa per far passare del tempo, per aumentare le probabilità di far fallire l’indagine”.

Dalla pallida cera del pensiero tedesco, millenarista, luterano; dall’arida elencazione di congetture logiche da cui fugge, egli non cerca santuari, né solchi di tesori già tracciati. Il suo compito è anzi dapprima di cancellare le tracce dietro di sé, per poi giungere là dove con lievi onde il mare carezza l’assetato arenile.

Ma in fondo anche quella è “realmente” una terra dei morti: un deserto appunto, dove solo qualche prete, e qualche rovo, tiene duro.

Dopo una ipocondria lunga quarant’anni, con quella gravezza di pensieri, nata dal disgusto morale, o con una afflizione ancor più intima, che annera il giardino dell’anima, pare che Hans desideri quasi far noia a sé medesimo. Il prete, il roveto, trasforma il suo cammino in “Via Crucis”.

O piuttosto in un pellegrinaggio in cerca di compagni della propria colpa. In un eterno rituale ritorno a riscoprire ciò che egli già immagina.

Non sappiamo se sia forse anche malato. Camminando e pensando si tortura; e si dimentica di amare le cose che pensa. La strada si inerpica però verso una meta sicura: forse lo sguardo di quella bambina di un tempo è il cherubino che medica la sua ferita; anche se egli non sa di essere curato; o meglio che questa malattia è una malattia che lo guarisce; e, nella disponibilità a lasciarsi medicare dall’imprevisto è la sua vera redenzione.

Egli china lo sguardo a terra. Ma non per bassezza o timidezza. Tale è il costume, quando si cammina contro vento.

“Non c’è mai un motivo per cui si fanno le cose”, egli dice.

Il suo fantasma rischia di scomparire anch’esso. Di divenire anch’esso una realtà accecante. E le ombre e i simulacri sono certamente migliori della materia sensibile e circoscritta delle cose certe ed esatte.

Il destino di Hans forse era stato già scritto prima che egli nascesse, e solo la Morte può rivelarcelo.

Basta un soffio, un giro della ruota della fortuna, o un passo delle Parche, cinte di nere vesti, ed in ritmo danzanti: − L’espansione di Berlino, la caduta del Muro! −: a mutare i paludosi latifondi che furono della sua famiglia, stesi là come un pezzo di mare morto, in valore d’uso.

Tutto ciò non rasenta neppure il suo “vero” io. Egli è uno di quei personaggi che sono lo strumento involontario d’una tragedia, già voluta dal gioco acutissimo degli Dèi.

Ma ora non ci sono più quegli Dèi. Ora Dio coincide colla ragione e con la Storia, dalla quale per giunta occorrerebbe prendere qualche distanza, cercando di guardarla dall’albero, come il famoso nostro Barone.

Marino Magliani è, in qualche sorte, spietato.

Da qualunque infermità o difetto impediti, i vecchi di Dolcedo: votati, − come ogni umana sembianza − alla dissoluzione, nella loro “afasia”, che è già quasi morte, non sfuggono alla sua precisa decifrazione.

E la giovane Lori scrive nel suo diario: “Non sono qui per essere felice”.

Quasi che l’esserlo fosse proibito da qualche autorità; o, come disse Kavafis, offendesse la Natura.

A pagina 72 nasce un verbo: “Nientare…”. Sorrise. “Nientare” era qualcosa di creativo…

Anche nel tempio dell’età disutile, dove da vecchi si gioca a vivere la continuazione di un’altra infanzia, la giovane Lori deve espiare forse qualche peccato; l’aver lasciato il proprio cadavere a Dolcedo, mentre girava il mondo; essere stata due persone distinte; aver portato altrove il piede gaudente, al quale forse era proibito toccare una qualche terra promessa.

Certo Lori non è come Hans, ma anch’essa è tetramente ambigua; perché vive tra oggetti che senza essere orrendi, comunicano orrore; in quanto sono oscure le latebre che restano, quando la morte è spogliata di ogni aura.

Ma questo è il genio di Magliani appunto, ed il suo paradosso. Quanto più egli costruisce uno stile spoglio e disincarnato, tanto più l’affabilità del suo narrare si eleva alla religiosa trasparenza del testo; e il “dolcemente” mediterraneo diviene  talmente velato da comporre una specie di isola dei morti.

Arcana e lontana, discende allora nel nostro piccolo tempo di creature terrestri quella voce che è la copia enigmatica delle nostre certezze.

Quello era dunque un “locus opacus”.

Il mare che, se si svelasse allo sguardo, sarebbe il calice della salvezza per quelle valli addormentate, da laggiù non si vedeva.

L’unico gorgoglio dell’acqua rotta che si udiva era il rotolìo del torrente. Se si fosse visto il mare quella allora non sarebbe stata quell’isola di tragedie rimosse, indicibili, che soltanto la mitologia riusciva a far affiorare.

Il passo che indi trae quei personaggi non è felpato. Quel martirio di sapere che l’inquieto animo punge, dimanda, chino sovra la terra attentamente, se qualcuno si rammenti ancora di qualcosa: inutile rito, che costringe a sopportare scorni e flagelli.

Sono luoghi familiari e metafisici; che sono stati un tempo luoghi di guerra.

Quella guerra, quel “qualcosa”, che Hans ebbe a raccontare alla propria madre.

Il suo infatti è un interesse non per la guerra, ma per l’effetto che la guerra produce in una Terza persona, nell’orecchio della madre appunto; o meglio nelle parole che la madre aggiunse alle sue.

Con un’ampiezza dello sguardo, che non vuol privarsi della spigliatezza. Talvolta anzi è proprio questa spigliatezza a suscitare un leggerissimo umorismo − Marino Magliani fa in modo che i due mondi in guerra s’incontrino, senza però toccarsi; senza urtarsi.

La “giovane donna dell’altra panchina”, quella che si credeva di essere come quel relitto al fondo del mare, cela in sé la “filosofia” del romanzo.

Colei è un po’ come il tremulo vetro d’uno specchio; ordigno privilegiato per i sortilegi della memoria. E quel “relitto” non è che una profondità ideale, da cui i ricordi salgono.

Talora ci si aspetta di scoprire in lei persino una Artemide; o forse l’ombra di qualche altra disturbata Divinità: il volo prodigioso di una visitatrice, che col bagliore di ogni suo gesto aggiusta ogni cosa.

Il dolore del mondo ferisce, a tratti, i nostri occhi, come il contorcersi dell’anguilla.

Prima o poi bisogna posare lo sguardo sull’orrore tirannico della normalità; che la cera sottile delle parole spesso non afferra neppure.

Il lapidario Marino Magliani, quando vuole, riesce a rallentare il giro del discorso per farci percepire meglio questo universo stanco; il quale si impone allora serenamente, senza bruciare le parole nel fuoco.

Ed Hans tace, tace… Guarda altrove. In quella sensazione indefinibile di oblio sereno egli ha tutta l’aria di dirci come una grande rivelazione della densa e disarmonica forza delle cose.

Marino Magliani condensa la vicenda in un deserto; in un silenzio nudo, che pure ci sottrae alla nostra solitudine e al nostro silenzio; e più sembra egli volerci distogliere dalla vita, più ce ne comunica il coraggio vagabondo.

È come se il viaggio di Hans avesse la solennità e l’esattezza di un rito; e le sue stazioni contenessero in sé la speranza di una conoscenza, spalancata dalla notte.

Egli dorme sotto le stelle, per necessità; ma anche forse, col diletto di sentirsi oscuramente consapevole che la sua colpa è una specie di terribile privilegio.

Non è che qualcosa lo spinga ad adottare la Notte; ma egli è dannato a consumare se stesso in una nostalgia: “gli mancava il coprifuoco silenzioso e buio della guerra”.

Sono quelle solitudini dei riti misteriosi del conoscere: “come se stare nascosto fosse la condizione giusta per capire le cose. Era il bisogno di cercare le cose nelle cose…Scoprire di nuovo tutto. Pure, una parte di sé non aveva voglia di scoprire nulla”.

L’eterno irrequieto conflitto tra l’antico rumore degli scarponi ferrati del cavaliere teutonico, − rumore di valanga −, che ha bisogno del suo teatro, o sia di un Terzo; magari di una madre, a cui narrare la “sua” guerra; e l’eremita, che si accontenta di scrutare il volo degli uccelli; assieme ai quali poi inizia a viaggiare dentro di sé, in un paesaggio dalle risonanze sempre più immateriali.

Lo stesso primo lavoraccio precario che Hans s’intoppa: spezzar le pietre, o quasi; sradicare radici: − la terra dura e scagliosa, conteneva secoli di detriti − gli infligge una catena di gesti occasionali, nei quali si trova così innaturalmente incagliato; eppure l’aria è impregnata di sottili delizie umoristiche; come quando il suo compagno di lavoro gli dice: “Ci sediamo, Ossi? Non abbiamo mica ammazzato nessuno”.

Bisogna credere che lo spirito umano abbia pure i suoi prodigi: lo zappatore apre senz’altro la fossa, quasi fosse un Becchino.

Non lo si può riconoscere come l’accenno di una mutilazione spettrale; ma già Hans pare, col flebil metro della stanchezza, prender commiato dalla mesta vita lui stesso.

“Pensava che l’odore dei cipressi doveva assomigliare a quello del tempo, era l’odore del nulla, indolore”.

Ma, c’è un altro luogo a cui il fantasma della morte passa e ripassa accanto: il pozzo.

Luogo drammatico, in quanto lì è dove avvenne una strage che lo riguarda; comico, in quanto quel luogo è diventato, a sua insaputa, una trappola per cinghiali…

Ma Marino Magliani non ha nessuna intenzione di farci ridere; e nemmeno di abbozzarne una caricatura sarcastica.

Quelle cose sono tuttora troppo venerabili e importanti. Egli vuole però dire a voce alta che la vita quaggiù perde la sua serietà e il suo valore.

Hans dimora con lo spirito in quel pozzo, che si rese depositario di un brivido: un unico orrore eterno, che andava di notte ad abbracciare con violenza i suoi sogni di verità.

I gradini non reggevano a lungo. Come potevano posare una lapide e poi non curarsene  più.

Tira in queste pagine un vento che non è sorridente, ma nemmeno sdegnato; quasi volesse torcere il collo alle parole che, di solito, raccontano i palpiti di quella storia.

Sterili le terre medesime. Hans è affaticato.

“Era stanco, sì, e la stanchezza veniva dal fatto che era qui da un paio di mesi e oltre, e non aveva ancora scoperto nulla, anzi, aveva aggiunto domande alle domande”.

Ed oltre a tutto era adocchiato, e con più minuto studio esplorato da addetti, attenti a riguardare ogni suo spostamento; od anche affastidito da ignoti squadratori della sua misera vita; e sicuramente, doveva esser già di dominio di tutti la notizia del suo giaciglio di rovi.

Talvolta, sopra lo sfacelo delle cose, quietamente, per anni, uno discute dentro di sé; come un malato, sospettato di profonde nostalgie − lo scandalo risiede nel ricordo di qualcosa che meriterebbe l’oblio; e tenta l’uomo qualunque a farsi spia: vecchie banalità che incombono.

La verità resta tenebrosa, come quella terribile nave che incantava lo sguardo della sua Artemide: quella nave infranta lontano; che si donò al mare che la sognava.

Il guerriero ha paura della morte. L’eremita ha paura di Dio. Ma c’è anche chi canta scavando la fossa, e dona alla valle una sorta di allegrezza spirituale; come una musica torturata, come l’ambiguità della vita, che impalpabilmente circonda ogni tomba inquieta.

Prima di fare come tutti i morti, che se ne vanno senza portarsi assolutamente nulla, Hans preparò il bagaglio.

La cosa più preziosa che aveva era un bel pacchetto di ricordi.

Quelli erano stati il veicolo di un certificato che puntualmente arrivava.

Ora, il rombo inflessibile della chimerica corriera saliva nei vacui spazi senza suggerirgli alcun grido blasfemo.

Aveva sempre sperato. Ed anche tentato di credere. Ma c’era stato sempre come un filo storto a tener lontana quella perfezione dalla faticosa tela.

Né aveva declinato in una direzione troppo terrestre le inquiete interrogazioni.

Sovente, non avendo più notizia di quelle cose che oltre il soffitto della propria stanza la finzione della poesia può inventare, ritrovava quella geografia familiare ed amata; ma un minimo dettaglio interrompeva e sospendeva in lui la conquista di una certezza.

Gli abitatori delle nebbie sempiterne, dove tengono i verdi vapori dell’anima? E perché a loro la nebbia non instilla  pensieri di quieta morte? Perché nuotano svelti e liberi e leggeri nelle strade del cielo fatte soffici dalla nebbia; e perché vanno dove va la vita, senza mai udire le voci eterne delle onde e delle stelle?

Tali cose si chiedeva, forse, − ma sto fantasticando − Hans Lotle.

O che, invece, tutti i segreti fossero già dietro i marmi?

Quello sarebbe stato un troppo inviluppato labirinto, se egli non avesse incontrato, quasi, uno Specchio; che lo spaventò, sì:

“Chi era allora la persona che visitava il rovo? (come per dirgli)”. “Sono qui, e so tutto, mentre dormi con le unghie piene di terra, distrutto dalle picconate”.

La sapienza della parola lapidaria ci avverte che quando uno muore, qualunque verità avesse conosciuto, costui l’ha portata con sé.

Ora è inabissato. E, rannicchiato nel buio. Uomo solitario in una terra senza tempo: “una monotona cromatura azzurra di ulivi che non si spogliano mai”.

Crede egli forse che ritrovare “il cuoio raggrinzito e malridotto” di una cartella di molti anni prima, sia cosa chiara e scientifica?

Hans non lo crede affatto, e la sua svagatezza ne è la prova.

Un’altra perturbazione dell’anima, che meriterebbe un più amoroso sondaggio, era in lui.

Pare che il Libro accenni a meno tranquille prospettive; a parole che rimbombano nel sonno come voci sacre.

Quel pozzo diveniva sempre più grande. Hans era accasciato come quando, tempo di guerra, il capitano diceva: “terra, sarà là dentro che fra poco terminerà tutto”.

Era venuto per capire qualche più intimo nesso tra le pietre che  si sfarinavano da secoli al sole, e la propria sorte. O forse era solo uno come tutti, intristito dalla malinconia di tutti i vivi.

E mentre qui dormono le generazioni degli uccelli dalle lunghe ali, lassù, nei pressi di Berlino, l’oscena colla dal colore del limo pesante si aggruma in palazzi solenni; ed altri rompitori armati di picchi dovrebbero avergli già aperto il varco, sbriciolando le ultime commessure dinnanzi agli schiamazzi stanchi di quelli che seguitano a far festa.

Hans fu preso dalla pallida paura persino dinnanzi al gracile salto di nuova improvvisa ricchezza che − sia pure rallentata dalla burocrazia − lo aveva già trafitto con bronzo spietato.

Il che ha in sé qualcosa di tremendo: come la beffa, di un effimero scherno.

È così abituato ai colori della cenere e della notte, alle caverne del mondo, che si trova come un turista fuori stagione − ad occuparsi di moneta.

Resiste in lui una cara immagine. Come un’Artemide, ondeggiante di nuovo tra le attese, dove squilla più forte il mare.

Era dunque Lei, la visitatrice. La vaneggiante oscurità che scendeva nel crepuscolo in quella cella di memorie vegetali. Ma il Demone del vagabondaggio gli ha gridato ancora nelle orecchie: vendi tutto e seguimi. E prima che quella figura di sconosciute linee gli ritorni incontro, gliel’ha tolta.

Questa è forse la filosofia di una terra, che mai speranza luminosa guarda coi suoi raggi.

Dove l’inaridirsi di tutto, già caro ad Eugenio Montale, serve tuttavia per salvare i rami più alti di un sapere ipotetico.

Una colpa funesta grava su quei tristi mortali. Sbirciolando meglio e più d’appresso, potremmo scorgervi però anche Isole Fortunate che ci conducono in remote contrade, e col canto soave risanano tutte le passate amarezze.

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PITTURE NERE n.2: Il volo del colibrì. Marino Magliani, “Quattro giorni per non morire”

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