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Poesia del cibo, cibo in poesia

Creato il 09 agosto 2015 da Tiziana Viganò

Poesia del cibo, cibo in poesia

Ci sono tante altre opere di cui si potrebbe parlare, qui ho fatto una breve scelta secondo i miei gusti. Con la metafora cibo-eros bellissimo il Cantico dei Cantici della Bibbia (IV sec. a.C) e tre poesie di Neruda, il mio poeta preferito. Facile e divertente quella di Gianni Rodari, ironica quella sulla dieta di Aldo Fabrizi, profonda e spirituale quella sul miele di Federico Garcia Lorca, verissimo il ritratto delle donne in pasticceria di Guido Gozzano...
Poesia del cibo, cibo in poesiaCANTICO DEI CANTICI ( La Bibbia, IV sec. a. C)
Quanto è piacevole il tuo amore, o mia sorella, sposa mia! Quanto migliore del vino è il tuo amore e la fragranza dei tuoi olii profumati è più soave di tutti gli aromi!  O sposa mia, le tue labbra stillano come un favo di miele, miele e latte sono sotto la tua lingua, e la fragranza delle tue vesti è come la fragranza del Libano La mia sorella, la mia sposa è un giardino chiuso, una sorgente chiusa, una fonte sigillata. I tuoi germogli sono un giardino di melograni con frutti squisiti, piante di alcanna con nardo, nardo e croco, cannella e cinnamomo, con ogni specie di alberi d'incenso, mirra ed aloe, con tutti i migliori aromi. Tu sei una fonte di giardini, un pozzo di acque vive, ruscelli che scaturiscono dal Libano. Lèvati, aquilone, e vieni, austro; soffia sul mio giardino, e i suoi aromi si effondano! Entri il mio diletto nel suo giardino e ne mangi i frutti squisiti! Sono entrato nel mio giardino, o mia sorella, sposa mia, ho colto la mia mirra col mio balsamo; ho mangiato il mio favo col mio miele, ho bevuto il mio vino col mio latte. Amici, mangiate, bevete; sì, inebriatevi, o diletti!
Sonetto XI  da “CENTO SONETTI D’AMORE” (1959) di Pablo Neruda
Ho fame della tua bocca, della tua voce, dei tuoi capelli e vado per le strade senza nutrirmi, silenzioso, non mi sostiene il pane, l’alba mi sconvolge, cerco il suono liquido dei tuoi piedi nel giorno.
Sono affamato del tuo riso che scorre, delle tue mani color di furioso granaio, ho fame della pallida pietra delle tue unghie, voglio mangiare la tua pelle come mandorla intatta.
Voglio mangiare il fulmine bruciato nella tua bellezza, il naso sovrano dell'aitante volto, voglio mangiare l’ombra fugace delle tue ciglia
e affamato vado e vengo annusando il crepuscolo, cercandoti, cercando il tuo cuore caldo come un puma nella solitudine di Quitratùe.
Poesia del cibo, cibo in poesiaIL MIELE (1918) di Federico Garcia Lorca
Il miele è la parola di Cristo, l’oro del suo amore. Il meglio del nettare, la mummia della luce di paradiso.
L’alveare è una stella pura, pozzo d’ambra che alimenta il ritmo delle api. Seno dei campi tremulo d’aromi e di ronzii.
Il miele è l’epopea dell’amore, la materialità dell’infinito. Anima e sangue dolente di fiori condensati attraverso un altro spirito.
(Così il miele dell’uomo è la poesia che emana dal suo petto addolorato, da un favo con la cera del ricordo creato dall’ape nell’intimità.)
Il miele è la bucolica lontana del pastore, la zampogna e l’olivo, fratello del latte e delle ghiande, regine supreme dell’età dell’oro.
Il miele è come il sole del mattino, con tutta la grazia dell’estate e il fresco antico dell’autunno. E’ la foglia appassita ed è il frumento.
Oh divino liquore dell’umiltà, sereno come un verso primitivo! Tu sei l’armonia incarnata, lo spirito geniale di liricità.
In te dorme la malinconia, il segreto del bacio e del grido. Dolcissimo. Dolce. Questo è il tuo aggettivo.
Dolce come il ventre di una donna. Dolce come gli occhi dei bimbi. Dolce come le ombre della notte. Dolce come una voce.
O come un giglio. Per chi ha in sé la pena e la lira tu sei il sole che illumina il cammino. Equivali a tutte le bellezze, al colore, alla luce, ai suoni.
Oh liquore divino della speranza, dove anima e materia unite trovano il perfetto equilibrio come nell’ospite corpo e luce di Cristo.
E’ la superiore anima dei fiori. Oh liquore che hai unito queste anime! Chi ti gusta non sa che inghiotte lo spirito d’oro di liricità.
Poesia del cibo, cibo in poesiaODE AL VINO di Pablo Neruda
Vino color del giorno, vino color della notte, vino con piedi di porpora o sangue di topazio, vino, stellato figlio della terra, vino, liscio come una spada d’oro, morbido come un disordinato velluto, vino inchiocciolato e sospeso, amoroso, marino, non sei mai presente in una sola coppa, in un canto, in un uomo, sei corale, gregario, e, quanto meno, scambievole. A volte ti nutri di ricordi mortali, sulla tua onda andiamo di tomba in tomba, tagliapietre del sepolcro gelato, e piangiamo lacrime passeggere, ma il tuo bel vestito di primavera è diverso, il cuore monta ai rami, il vento muove il giorno, nulla rimane nella tua anima immobile. Il vino muove la primavera, cresce come una pianta di allegria, cadono muri, rocce, si chiudono gli abissi nasce il canto. Oh, tu, caraffa di vino, nel deserto con la bella che amo, disse il vecchio poeta. Che la brocca di vino al bacio dell’amore aggiunga il suo bacio
Amor mio, d’improvviso il tuo fianco è la curva colma della coppa, il tuo petto è il grappolo, la luce dell’alcool la tua chioma, le uve i tuoi capezzoli, il tuo ombelico sigillo puro impresso sul tuo ventre di anfora, e il tuo amore la cascata di vino inestinguibile. la chiarità che cade sui miei sensi, lo splendore terrestre della vita.
Ma non soltanto amore, bacio bruciante e cuore bruciato, tu sei, vino di vita, ma amicizia degli esseri, trasparenza, coro di disciplina, abbondanza di fiori. Amo sulla tavola, quando si conversa, la luce di una bottiglia di intelligente vino. Lo bevano; ricordino in ogni goccia d’oro o coppa di topazio o cucchiaio di porpora che l’autunno lavorò fino a riempire di vino le anfore, e impari l’uomo oscuro, nel cerimoniale del suo lavoro, a ricordare la terra e i suoi doveri, a diffondere il cantico del frutto.
Poesia del cibo, cibo in poesiaIL PANE di Gianni Rodari
Se io facessi il fornaio, vorrei cuocere il pane così grande da sfamare tutta, tutta la gente che non ha da mangiare.
Un pane più grande del sole, dorato, profumato come le viole. Un pane così verrebbero a mangiarlo dall’India e dal Chili i poveri, i bambini, i vecchietti e gli uccellini.
Sarà una data da studiare a memoria: un giorno senza fame! Il più bel giorno di tutta la storia.
DIETA di Aldo Fabrizi Doppo che ho rinnegato pasta e pane, so’ dieci giorni che nun calo, eppure resisto, soffro e seguito le cure… me pare un anno e so’ du’ settimane!
Nemmanco dormo più le notti sane, pe’ damme er conciabbocca a le torture, le passo a immaginà le svojature co’ la lingua de fòra come un cane.
Ma vale poi la pena de soffrì lontano da ‘na tavola e ‘na sedia pensanno che se deve da morì?
Nun è pe’ fa er fanatico romano; però de fronte a ‘sto campà d’inedia, mejo morì co’ la forchetta in mano!
Poesia del cibo, cibo in poesiaLE GOLOSE (1907)  di Guido Gozzano             Io sono innamorato di tutte le signore che mangiano le paste nelle confetterie.
Signore e signorine - le dita senza guanto - scelgon la pasta. Quanto ritornano bambine!
Perché nïun le veda, volgon le spalle, in fretta, sollevan la veletta, divorano la preda.
C'è quella che s'informa pensosa della scelta; quella che toglie svelta, né cura tinta e forma.
L'una, pur mentre inghiotte, già pensa al dopo, al poi; e domina i vassoi con le pupille ghiotte.
un'altra - il dolce crebbe - muove le disperate bianchissime al giulebbe dita confetturate!
Un'altra, con bell'arte, sugge la punta estrema: invano! ché la crema esce dall'altra parte!
L'una, senz'abbadare a giovine che adocchi, divora in pace. Gli occhi altra solleva, e pare
sugga, in supremo annunzio, non crema e cioccolatte, ma superliquefatte parole del D'Annunzio.
Fra questi aromi acuti, strani, commisti troppo di cedro, di sciroppo, di creme, di velluti,
di essenze parigine, di mammole, di chiome: oh! le signore come ritornano bambine!
Perché non m'è concesso - o legge inopportuna! - il farmivi da presso, baciarvi ad una ad una,
o belle bocche intatte di giovani signore, baciarvi nel sapore di crema e cioccolatte?
Io sono innamorato di tutte le signore che mangiano le paste nelle confetterie.  Sonetto XIII da “CENTO SONETTI D’AMORE” (1959) di Pablo Neruda
 La luce che dai tuoi piedi sale alla tua capigliatura, la turgidezza che avvolge la tua forma delicata, non è di madreperla marina, mai d'argento freddo: sei di pane, di pane amato dal fuoco.  La farina innalzò con te il suo granaio e crebbe incrementata dall'età felice, quando i cereali duplicarono il tuo petto il mio amore era il carbone che lavorava nella terra.  Oh, pane la tua fronte, pane le tue gambe, pane la tua bocca, pane che divoro e nasce con luce ogni mattina, beneamata, bandiera delle panetterie, il fuoco ti diede una lezione di sangue, dalla farina apprendesti a esser sacra, e dal pane l'idioma e l'aroma.



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