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Polemiche su "Gli Anni Spezzati", il regista: «Solo accuse velleitarie»

Creato il 12 gennaio 2014 da Nicoladki @NicolaRaiano
È più arrabbiato che amareggiato per le polemiche che hanno segnato Il commissario, film in due parti su Luigi Calabresi, I capitolo della sua trilogia Gli Anni spezzati (nei giorni scorsi su Raiuno). Molta stampa si è scagliata contro lo sceneggiatore e regista Graziano Diana. Gli hanno dato del revisionista, dell’organizzatore di una storia caricaturale, reo di omissioni e di inutili aggiunte.
Ma l’accusa più bruciante è quella di non aver avuto «la forza di dire come è morto Pinelli». Ancora stralunato il regista chiede: «Che razza di critica è? Non sono il depositario della verità. Ho solo cercato di essere imparziale, di non salire in cattedra, di non esprimere opinioni. Mi sono attenuto alla sentenza del giudice D’Ambrosio, ho raccontato in lungo e in largo la guerra dei quotidiani, accaniti nell’indicare in Calabresi l’assassino di Pinelli. Tra luci e ombre, ho narrato i fatti, non oltrepassando la soglia della stanza del tragico interrogatorio, unica testimone della fine di un uomo che, stando agli atti processuali, ebbe un malore e cadde dalla finestra». Il figlio del commissario Luigi Calabresi lo ha «confortato, dichiarando che è stata rispettata la figura di suo padre. E suo padre io ho cercato di raccontare. Romanzando la vicenda, ovvio, non era mia intenzione di girare un documentario. Né di scritturare sosia, per rispondere a chi ha parlato di caricature. I miei attori, Emilio Solfrizzi per primo, hanno restituito i personaggi con grande sensibilità. E io ho tentato di far conoscere l’uomo Calabresi, il marito, il poliziotto. Il cristiano. E per questo mi sono beccato anche del filo clericale, io che sono laico... ».
Domani sera, su Raiuno andrà in onda il secondo film tv, su Mario Sossi, con Alessandro Preziosi. E, pur sperando il contrario, Graziano Diana teme nuove polemiche: «Mi rendo conto quanto gli Anni 70, il terrorismo, i suoi ideologi e la manovalanza, siano un tema difficile, scomodo. Ma parlarne senza fare pedagogia spicciola è già un passo avanti per la tv pubblica». Perché il sequestro Sossi? «Perché in quel 1974, violento, spaventoso, gli uomini armati si spandono a macchia d’olio, diventano più forti, e per la prima volta rapiscono un magistrato. È il primo scontro tra terrorismo e Stato. Il drammatico prologo del caso Aldo Moro».
«Raccontare un passato che la maggior parte dei nostri ragazzi non conosce, non ha studiato a scuola, è sempre un dovere. Non dimenticare questi uomini che hanno sacrificato la loro libertà e la loro stessa vita, se questo non è compito del servizio pubblico di chi deve essere? Poi le critiche sono sacrosante, ci mancherebbe», dichiara il protagonista Alessandro Preziosi alla vigilia della messa in onda della miniserie. «Girare questa serie mi ha molto emozionato - prosegue Preziosi - mi ha fatto sentire al centro di qualcosa di importante, mo padre è un avvocato di Napoli ed è stato collega di Sossi in Cassazione ed anch'io sono laureato in giurisprudenza. Confesso che mi sono trovato a domandarmi se avessi proseguito con la carriera forense, chissà...».
Nostalgie a parte il rapimento Sossi, spiega l'attore, «ha un potenziale drammatico enorme. Con esso le Brigate Rosse dichiararono guerra allo Stato italiano, che però non se ne accorse. E così la procura di Genova e Sossi si ritrovarono ad affrontare, da soli, disagi prima e poi minacce che forse le istituzioni sottovalutarono. Ma soprattutto si trattò del primo caso di patteggiamento tra un tribunale e i terroristi. Si scatena così il dilemma tipico di queste situazioni: preoccuparsi solo di salvare una vita umana o rifiutarsi di trattare per non legittimare i sequestratori? Una domanda angosciosa che dai palazzi del potere rimbalza e si diffonde, sconvolgendo anche la vita delle persone comuni. Il costo di una scelta senza scampo. Quella più difficile, quella che non potrà non avere conseguenze».

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