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Politica Industriale

Creato il 23 luglio 2014 da Fugadeitalenti

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Liberalizzazioni, dove eravamo rimasti? Il dubbio mi è venuto qualche giorno fa, pensando alla discussione in corso intorno alle riforme strutturali. E che fine ha fatto il capitolo liberalizzazioni, all’interno del grande libro maestro delle riforme?

Chiunque ne abbia notizia, ci scriva: [email protected]

Oggi invece una veloce riflessione su un altro punto debole della nostra economia: la dimensione delle nostre imprese. Ancora troppo piccole, per competere a livello globale: come denuncia l’ultimo report R&S Mediobanca, le multinazionali tricolori sono scese un anno fa a 14 (erano solamente 16 un anno prima). Per grandezza dimensionale, le prime cinque sono: Eni, Exor, Enel, Telecom Italia e Finmeccanica. Il 55% del fatturato fa capo a imprese pubbliche, non a capitale privato.

Presenza che è ben testimoniata dall’azionariato: il 51,5% dell’attivo delle nostre multinazionali è in mani pubbliche. In Germania quetsa quota è solo al 3,6%, in Europa parliamo del 12,3%.

Il controllo famigliare pesa in Italia per il 46,7%, contro una media europea del 26%.

Un solo esempio (!) di multinazionale italiana ad azionariato diffuso (o public company): Prysmian.

La dimensione media delle nostre multinazionali è la metà di quelle tedesche, inferiore a quella di tutti gli altri big UE, Spagna esclusa.

Il costo del lavoro per occupato è il valore più basso d’Europa, ma anche la produttività è la più bassa d’Europa.

E questa classifica andrà presto riaggiornata, con l’annunciato addio di Fiat all’Italia…

C’è -evidente- un problema industriale: poche multinazionali, troppo controllate dallo Stato o da capitali famigliari, scarsamente competitive.

Forse c’è un intero modello di politica industriale da ripensare. E’ tramontato un modello di sviluppo italiano. Modello di sviluppo che non ha certo favorito la valorizzazione del capitale umano altamente qualificato, o dei giovani dalla forte proiezione internazionale, in un Paese ripiegato su una dimensione “piccola”, che non sa più pensare in grande.

Per fare i capitalisti servono i capitali“. E gli italiani non ne hanno più, annotava amaro un giornalista di Repubblica pochi giorni fa. Che riportava come, secondo uno studio del Ministero dello Sviluppo Economico, le 500 aziende tricolori finite nelle mani di gruppi stranieri hanno aumentato fatturato, produttività e occupazione.

Forse è il caso di ammettere che -tranne illuminate eccezioni, che tengono alto il nome del “made in Italy” nel mondo- un modello generale di politica industriale ha fallito. Troppo lunga la mano dello Stato, che ha sostanzialmente anestetizzato la naturale propensione al rischio e all’investimento, tipica del Dna di ciascun buon imprenditore. Troppo ingombrante la presenza sia dello Stato sia del modello di capitalismo famigliare. Troppo spesso, relazionale.

E’ tornato il tempo di investire, rischiare e pensare in ottica di “libero mercato”. E’ venuto il tempo di aprire l’Italia al mondo. E ai suoi capitali. Di aiutare le start-up innovative, che provano a vincere quasi sempre da sole la scommessa.

Solo così i nostri migliori giovani saranno incentivati a restare. E scommettere sulla ricostruzione del Paese.

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