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POLITICI E SINDACALISTI DELLA CAMPANIA ORFANI DI MARCHIONNE - Solo qualche settimana fa, Caldoro, (insieme a Lucci e Rea) proponevano l’applicazione del “modello Pomigliano” alle partecipate regionali

Creato il 26 settembre 2012 da Ciro_pastore

POLITICI E SINDACALISTI DELLA CAMPANIA ORFANI DI MARCHIONNE  -  Solo qualche settimana fa, Caldoro, (insieme a Lucci e Rea) proponevano l’applicazione del “modello Pomigliano” alle partecipate regionali Necessitiamo di un nuovo e più moderno sindacalismo POLITICI E SINDACALISTI DELLA CAMPANIA ORFANI DI MARCHIONNE Solo qualche settimana fa, Caldoro, (insieme a Lucci e Rea) proponevano l’applicazione del “modello Pomigliano” alle partecipate regionali A fine agosto, periodo classicamente dedicato alle “grandi sparate mediatiche”, il Governatore Caldoro (seguito a ruota dai Segretari Regionali UIL e CISL) si lanciò nella crociata di risanamento delle partecipate sulla base del “modello Pomigliano”.  L’obiettivo dichiarato era salvare i posti di lavoro. Non era solo un’idea su cui imbastire qualche noioso convegno o destinata a riempire le pagine dei media, come sempre semivuote a fine agosto. Era (e forse è ancora), invece, un progetto in fase avanzata, su cui si bisbiglia ancora in queste ore a Palazzo Santa Lucia e dintorni. L’ipotesi, incontra(va) il parere favorevole di larga parte del Consiglio Regionale della Campania (Gennaro Salvatore in primis, in quanto capogruppo della lista Caldoro, lo aveva ampiamente caldeggiato). A Caldorino, sempre più preso da un’improvvisa furia decisionista, piace(va) l’idea di poter coniugare una necessaria revisione dei costi delle imprese pubbliche con la salvaguardia dei livelli occupazionali. Anzi, sempre in quei caldissimi giorni di fine agosto, si teorizzava la realizzazioni di un primo esperimento sul campo che facesse ampio riferimento al cosiddetto “modello Pomigliano”, cioè l’applicazione (riveduta e corretta) del contratto utilizzato dalla Fiat per evitare la chiusura dello stabilimento di Pomigliano d’Arco. E indovinate a chi si pensava come “cavie umane” per l’esperimento? Il migliori candidati erano (e sono) i lavoratori della holding del trasporto pubblico EAV, perfida matrigna delle maggiori società regionali che gestiscono i trasporti locali, sia su gomma che su ferro. Nello specifico, Caldorino (alla strenua ricerca di una più consona visibilità personale in vista dei giochi elettorali panitalici della prossima primavera), con il placet implicito di UIL e CISL (a cui va aggiunto il silenzio-assenso di CGIL) pensa(va) di attuare una vera e propria contrattazione decentrata, che dovrà tener conto delle specifiche esigenze di ogni singola azienda, ma che in sostanza imita senza ritegno il modello marchionneo. Ovviamente, il “modello Pomigliano” non verrà applicato pedissequamente, essendo evidenti le differenze fra i due contesti, ma quanto applicato in Fiat resterebbe un utile traccia di lavoro, da modificare solo quanto necessario. E così ai lavoratori del Gruppo EAV, verrà chiesto un aumento della produttività individuale, mediante un accorciamento della giornata lavorativa a parità di carico di lavoro (contratto di solidarietà per gli amministrativi) ed una maggiorazione della produttività, a parità di retribuzione (nuove turnazioni per il personale viaggiante). Parallelamente, con l’accordo già in vigore dal prossimo 1° ottobre, parte delle ferie annuali (le cosiddette semifestività) sono state monetizzate a prezzo di sconto. Tutto questo, naturalmente, avviene (avverrà) in nome della difesa dei livelli occupazionali. Tutto bene, tutto giusto, tutto inevitabile? Appena qualche settimana fa politici e sindacalisti (questi ultimi solo con qualche piccolo distinguo di metodo) pensavano di aver trovato la quadratura del cerchio. Eppure, a quanto emerge in questi ultimi giorni il “modello Pomigliano” non è bastato a fermare il declino Fiat, e nonostante la sua applicazione ora gli operai che lo hanno accettato (sotto ricatto occupazionale) saranno avviati nuovamente in cassa integrazione. Eppure, il tanto strombazzato modello ha previsto l’azzeramento dell’anzianità di servizio per nuovi assunti, la riduzione dei livelli retributivi da 7 a 5, l’aumento dello straordinario comandato dall’azienda da 40 a 120 ore l’anno, più tutta una serie di norme anti assenteismo ed il peggioramento delle condizioni di lavoro alla catena di montaggio. Insomma, i lavoratori erano (e sono pronti) a fare la propria parte, ma ciò non basta perché se poi FIAT non mette in campo gli investimenti previsti in ricerca finalizzati allo sviluppo di nuovi modelli, le auto prodotte in più restano penosamente ad invecchiare nei piazzali delle fabbriche. Stesso discorso si potrebbe fare per l’applicazione del “modello Pomigliano” in EAV. È ovvio, infatti, che un aumento di produttività accompagnato da una riduzione del costo del lavoro sono azioni utili (forse necessarie) per ricondurre la gestione operativa nei limiti dell’efficienza contabile. Ma questo risultato non può (e non deve) essere raggiunto solo attraverso una riduzione del costo del lavoro. Riduzione a cui provvede ampiamente l’accordo di luglio che produrrà nel medio-lungo periodo una sostanziosa riduzione per effetto del blocco di varie indicizzazioni e per l’inapplicabilità di molti elementi retributivi agli eventuali neoassunti, prossimi a venire. Infatti, se parallelamente non si mette in campo un nuovo e più razionale Piano Industriale, i sacrifici richiesti ai lavoratori non potranno fermare la deriva negativa alimentata da un forte squilibrio fra costi complessivi e ricavi (diretti ed indiretti). Squilibrio gestionale alimentato da errate scelte nel modello di business e, soprattutto, da un sistema degli acquisti di beni e servizi sicuramente farraginoso ed a volte olezzante. È di fronte a questa sfida che dovrebbe uscire fuori un nuovo e più incisivo ruolo dei sindacati. Il sindacalismo tradizionale, quello delle grandi conquiste operaie del secolo scorso non basta più per combattere le sfide del Terzo Millennio. Era facile nell’Italia degli anni ’60 e ‘70, quando partiti e sindacati costituivano un momento importante di partecipazione e di emancipazione popolare, fare sindacato ed ottenere le giuste risposte alle sacrosante rivendicazioni dei lavoratori. A quella fase chiamiamola antagonista, presto subentrò, presto un clima, prima collaborativo, e poi, purtroppo, consociativo in cui politica, sindacato e datori di lavoro hanno finito per sovrapporre (in un intreccio mefitico) interessi ed obiettivi. E ciò è avvenuto non nel nome di un riformismo socialdemocratico che doveva servire a coniugare giustizia sociale e democrazia. Purtroppo, il sistema consociativo non solo non ha raggiunto quel solenne obiettivo ma, addirittura, ha prodotto danni (forse) irreparabili contribuendo a peggiore le condizioni dei lavoratori stipendiati a vantaggio della neoborghesia professionale ed imprenditoriale, corrotta e corruttrice. Il danno maggiore è non aver saputo costruire una classe dirigente (politica e sindacale) moderna, capace di decisioni responsabili, che non fossero – come sono - eternamente sottoposte ad estenuanti mediazioni e a (palesi) commistioni, alimentate dagli egoismi individuali. Oggi c’è forte bisogno, invece, di un sindacalismo rinnovato capace di abbandonare il mero metodo dell’impossibile difesa delle conquiste del passato. La situazione attuale (anche della Campania) necessita di un sindacalismo che deve essere in grado di determinare le scelte strategiche dei governi e delle imprese. Invece, i lavoratori assistono (quasi) impotenti alla ridicola rappresentazione (teatrale) di una finta ostilità fra le parti, salvo scoprire che la fasulla ostilità altro non nasconde che le reciproche debolezze. Politici e sindacalisti, oramai, sono incapaci di dare risposte alla complessità dei problemi. Spesso veri e propri rituali – favoriti da procedure strumentalmente complesse -rallentano i tempi delle decisioni. Ma le ragioni di fondo dei ritardi stanno nell’incapacità di individuare con un buon grado di selettività gli obiettivi e proporre una progettualità seria e realizzabile. Naturalmente, su tale disastrosa situazione pesano anche i mutati rapporti di forza nella società, che oggi non sembrano troppo favorevoli ai lavoratori, vittime delle caste professionali/imprenditoriali. Per cambiare questo rovinoso assetto consolidato, bisogna tentare la via di un neosindacalismo basato sul vecchio e caro socialismo democratico-riformista che trovi nella ricerca dell’equità sociale il suo obiettivo condiviso. Un neosindacalismo che forse non può trovare nella quadrupla (CGIL, CISL, UIL e UGL) il suo strumento di azione innovativa. C’è bisogno di “volti nuovi”, assistiti da strutture agili e partecipative, per raccogliere con freschezza e sincerità la difficile sfida del futuro benessere dei lavoratori del TPL. Ciro Pastore – Il Signore degli Agnelli

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