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Possiamo Davvero Fidarci di un Guru?

Creato il 30 novembre 2014 da Sunday @EliSundayAnne

Io sono una scettica, di quelle toste. Alla parola Guru, mi si alza il sopracciglio. La mente mi rimanda subito a quella che Dan Harris nel libro 10% Happier chiama la “Happiness Inc.”, il business della felicità. Oppure, a un film divertentissimo, The Love Guru, dove l’appunto Guru dell’Amore sforna preziosi consigli quali “Ti fa soffrire quando lo fai? Non farlo!”, o “Se sei felice e tu lo sai, pensaci ancora!”.

Sono stata invitata al cinema dall’amica Daniela. Pur conoscendo il mio scetticismo, Dani ama trascinarmi nelle sue avventure spirituali e meditative, forse sperando di sanarmi una volta per tutte. E così eccomi qui, in una giornata di pioggia, davanti al cinema Greenwitch di Torino, in attesa di vedere “Finding Happiness – Vivere la felicità”, un docu-film sulla comunità spirituale Ananda World Brotherhood Village, nel Nord California. Una giornalista riceve l’incarico di scrivere un articolo su questa comunità spirituale: inizialmente scettica, finirà col cambiare idea sulla sua stessa concezione di vita dopo avere incontrato il fondatore, Swami Kriyananda, e le persone che, seguendo i suoi insegnamenti, da quasi quarant’anni hanno scelto un cammino diverso dal resto del mondo (da mymovies.it).

Saliamo le scale che portano alla sala, e all’entrata troviamo un drappello di persone sorridenti dietro a due banchetti su cui sono esposti, in vendita, i DVD del film, depliant e svariati libri. Eccoli lì, penso già col sopracciglio a mezz’asta, a vendere materiale e fare soldi. C’era da immaginarselo. Per fortuna, io non cado in queste trappole: i miei soldi li uso per altro.

Prendiamo posto sulle poltrone assegnateci, e attendiamo. Il film ha inizio, e io mi identifico subito con lo spirito diffidente della protagonista, e intanto osservo Daniela con la coda dell’occhio: sorridente e tranquilla, l’ingenua. Dopo una decina di minuti mi metto gli occhiali per vederci meglio. Dopo quindici mi stringo nella sciarpa. Dopo mezz’ora ho le lacrime agli occhi. Ai titoli di coda sono ormai rapita.

Vedete: io non sono il mio curriculum.

Chi l’ha detto che noi siamo il nostro curriculum?

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Io sono una volontaria. Una missionaria. E il film deve aver risvegliato quella che sono. Non una guida turistica, nè un’insegnante col suo bello stipendio e l’appartamento nuovo e tutto, ma una che è sempre stata felice solo quando si donava pienamente agli altri. E lo faceva gratis.

Questo film ha svegliato la mia volontà di cambiamento, che nell’ultimo anno in Oman si era un po’ assopita, e qui in Italia si era addormentata del tutto, sedata dalla sicurezza del lavoro, degli affetti e degli agi.

Il regista Giacomo Campiotti ha detto “E’ un documento rivoluzionario che dimostra che la felicità non è un’Utopia. Da vedere e rivedere fino a quando non capisci che il protagonista sei tu.” A me è bastato vederlo una volta sola.

Il film è finito e guardo Daniela – senza asciugarmi le lacrime, con lei non devo fingere – per capire se dobbiamo uscire. In quel momento, però,  il drappello che prima stava serafico dietro ai banchetti entra di soppiatto nella sala, cantando e suonando una chitarra. Mioddio, mica penseranno che mi metta a fare la pagliaccia, adesso? Io sono una blogger, un’insegnante, ho una mia dignità!

Poi cala il silenzio, e una donna americana, discepola di Swami Kriyananda, e che ora vive nella loro comunità in provincia di Perugia, prende la parola. La riconosco: era una delle “attrici” del film: nel film interpretava se stessa, come tutti gli altri. Il sopracciglio mi si alza di nuovo, e insieme a lui il muro di diffidenza. Le sue parole mi toccano il cuore:

“Quando mediti, non chiedere che cosa vuoi, ma “Che cosa deve succedere?”. E accettalo.

Non vivete per essere infelici. Vivete per essere felici. Non accontentatevi di essere sereni.

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Come se la felicità fosse una cosa irraggiungibile. Sapete, solo i bambini sono felici. Sono entusiasti. A cos’è dovuta la loro felicità?

Il corpo, per i bambini, è un canale attraverso cui possono correre, saltare e gioire. Per noi, il corpo è un peso.

A loro serve per indagare, per capire. Non hanno paura di sbagliare! Come possiamo ritrovare quella felicità che provavamo da bambini?

Immaginate una bella casa, le cui finestre e porte sono chiuse. Fuori il sole splende. Dentro però è buio, perché è tutto chiuso. Dobbiamo aprire le porte della nostra mente, della nostra energia. Uscire dalle nostre paure: il sole rende felice la nostra anima.

Corpo e mente sono collegati: noi siamo corpo e mente.

La felicità è un viaggio, e per farlo basta che iniziamo.

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Bisogna fare il primo passo. So che correre mi fa bene, e mi dà gioia. Ma il passo più difficile è mettermi le scarpe e uscire. E quando sono fuori, faccio un bel respiro e dico “Ah! Che gioia!”.”

Al termine del suo breve discorso, la signora ci invita a fare con lei due esercizi di respirazione per lasciar andare le tensioni e le tossine, esercizi che lei chiama “di ricarica”. Infine, ci fa intonare alcuni canti: so che Dani non crede ai suoi occhi nel vedermi cantare a squalciagola e battere le mani a ritmo, ma non importa, non mi sento più ridicola: solo felice.

Al punto che, all’uscita dalla sala, non solo mi riempio la borsa di volantini e depliant sull’Ananda Yoga e Raja Yoga, ma acquisto anche non uno, bensì due libri: uno sul vivere con saggezza, l’altro sulle tecniche di respirazione per l’autoguarigione.

finding happiness yogananda vivere la felicità

Possiamo davvero fidarci di un Guru? Io credo di sì, nel momento in cui questi ci offre degli strumenti per farci sentire meglio, e per essere più felici. Come capirlo? Il corpo non mente: mentre guidavo verso casa, al buio e sotto la pioggia, ho cominciato a cantare. Mi sentivo come liberata. A cena ho mangiato di gusto, cosa che non facevo da settimane. E la notte ho dormito come un ghiro.

MilleOrienti definisce la parola Guru letteralmente come “pesante”, nel senso che “la persona ha un “peso” spirituale; il Guru (chiamato Gurvi se è una donna) è il  vero Maestro, cioè l’incarnazione vivente di un percorso verso l’illuminazione. Lui (o Lei) è un insieme di autorevolezza, sapienza e armonia interiore che va ben al di là della conoscenza nozionistica”.

Il Guru non dev’essere per forza un santone indiano con la barba lunga e lo sguardo assente.

Io, ad esempio, il mio Osho l’ho trovato in un prete cattolico tanti anni fa, quando mi stavo preparando per andare volontaria in Kenya. Un uomo illuminato al quale posso dire tutto, proprio tutto ciò che combino – anche che non vado a messa da quasi mezzo secolo e prego con la frequenza di un ateo; il quale spesso raccoglie le mie macerie e mi rispedisce a casa con una visione nuova del problema che mi attanaglia.

Un prete che è riuscito a dirmi: “Io credo proprio che tu, come sei vagabonda nella vita, lo sei anche nell’amore: tu devi essere libera di andare per i prati. Il che è un difetto ma anche un pregio: tu devi scrivere nell’immediato, le esperienze le devi raccontare in diretta. Questa sei tu. Accettati come sei e vivi serena”. Non senza dirmi, ogni volta che ci congediamo e con un sorriso meraviglioso: “Pregherò la Madonna che ti aiuti a farti furba”.

Il trailer del film ve l’ho messo sopra il titolo di questo articolo.

Cosa ne pensate? Diffidate dei Guru, o ne avete uno e non potreste salvarvi senza?
Ma soprattutto: come state, a felicità?


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