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Potenza della Metafora

Creato il 03 settembre 2010 da Bruno Corino @CorinoBruno

Potenza della Metafora
Effettivamente, non si è riflettuto ancora abbastanza sulla potenza della metafora. È vero delle acute e sempre istruttive osservazioni si possono leggere nella Sacra Famiglia (1844) di Marx ed Engels, nel § 2 Il mistero della costruzione speculativa capitolo V; ma la critica dei due fondatori del materialismo storico era, appunto, indirizzata al linguaggio filosofico. Dopodiché bisogna attendere il Nietzsche di Su verità e menzogna in senso extramorale (1873) per avere un’interpretazione radicale sulla potenza della metafora. Questa volta la riflessione non è circoscritta al linguaggio filosofico, ma investe la “natura” stessa del genere umano, affonda la sua analisi nelle nostre radici antropologiche. Detto in termini gehleniani, la riflessione di Nietzsche riguarda L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, vale a dire l’uomo «sospeso nei suoi sogni sul dorso di una tigre». Sarà lo stesso Nietzsche ad aprire la strada all’inconscio freudiano.
Sennonché, in Freud la potenza della metafora viene paradossalmente “rimossa” e sostituita con la potenza del “linguaggio simbolico”, per cui, al posto della “metafora”, troviamo il “simbolo”, che finisce con l’occupare un posto centrale nella psicoanalisi. Il “simbolico” scava la sua strada e arriva a Jacques Lacan, il quale, designandolo come l’ordine della cultura, della legge e del linguaggio, ne afferma la supremazia rispetto al reale. L’inconscio è strutturato come un linguaggio. Di nuovo, la potenza della metafora viene catturata e rinchiusa in un recinto. Serve a spiegare il meccanismo della formazione dell’inconscio, assimilato a quello del linguaggio, attraverso le sue due figure principali: la metafora o il processo di condensazione, e la metonimia o il processo di spostamento. Come scrive Alessandro Dal Lago nel saggio La città perduta, scienze quali la psicoanalisi, l’antropologia, la sociologia, la linguistica, «sono soprattutto interessate a riportare le forme della cultura a strutture soggiacenti – istintuali, archetipiche, inconsce o semiconsce, simboliche, collettive», «ma il rango che l’Occidente moderno ha attribuito […] all’ideale della scientificità, ha fatto sì che esse, da metafore che erano, divenissero obiettivazioni e prendessero il posto, nel nostro tempo, delle più antiche e altrettanto legittime, immagini filosofiche dell’uomo». In altre parole, abbiamo dimenticato che tutti i termini che oggi hanno una loro indiscussa e indiscutibile “dignità” scientifica altro non sono che metafore trasformate.
Cosicché, dopo il primo grande abbrivio dell’ottocento, la riflessione sulla potenza della metafora s’è impennata nelle maglie della psicoanalisi, che ha soppiantato la metafora sostituendola con il linguaggio simbolico. Dal mio punto di vista, ciò è stato un arretramento, e non un avanzamento, perché ha finito con il rimuovere la forza della metafora. Il simbolo è sempre espressione di un sentimento collettivo e ha la funzione di costruire le identità o gli ambiti di appartenenza. Quindi il simbolo è una forma di riconoscimento e di differenziazione. In quanto tale, il simbolo è un’elaborazione secondaria dei rapporti umani; la metafora, invece, è un’elaborazione primaria; mentre il simbolo diventa una elaborazione secondaria della metafora e svolge funzioni diverse rispetto ad essa. Il simbolo serve a raccogliere in una unità ciò che è “disperso” o del tutto disomogeneo, a concentrare in sé una massa, permettendole di sentirsi in comunione emotivamente (penso al simbolo della bandiera o ai simboli religiosi – la croce per i cristiani); potrei perciò dire che il simbolo ha la funzione di “assimilare”, di rendere simile ciò che simile non è.
Per fare compiere alla riflessione sulla potenza della metafora una “virata” sorprendente, bisogna, secondo me, attendere altri due saggi fondamentali: Massa e potere (1960) di Elias Canetti e La violenza e il sacro (1972) di René Girard. Sono due testi importanti perché mettono al centro della loro analisi il fenomeno del mimetismo da punti di vista diversi. Forse, non è un caso che i due autori provengono dalla letteratura. Girard aveva già analizzato questo fenomeno in un testo precedente: Menzogna romantica e verità romanzesca. Le mediazioni del desiderio nella letteratura e nella vita (1961). In questo saggio, lo studioso francese aveva analizzato questo meccanismo in alcuni opere e personaggi della letteratura moderna: Cervantes, Flaubert, Stendhal, Proust, Dostoevskij. Tuttavia, l’analisi della mimesi ancora non veniva posta al centro della sua riflessione, era ancora troppo intrisa di letteratura; non aveva una sua autonomia ed era, pertanto, priva della riflessione sulla potenza della metafora, come invece avverrà nei testi successivi, da quello citato, La violenza e il sacro, al Capro espiatorio, fino ad arrivare a Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo. Neanche nel citato testo canettiano troviamo un’analisi diretta sulla potenza della metafora, ma ci sono due fondamentali capitoli, Massa e storia, e soprattutto La metamorfosi, che possiamo definire come delle vere e proprie svolte sul tema. Come si può osservare salto completamente a piè di pagina tutte quelle teorie critiche, letterarie o semiotiche che si sono occupate di metafora in quanto non sono uscite fuori dal recinto della creazione poetica; le salto non perché non le ritengo interessanti, ma semplicemente perché non hanno posto al centro della loro analisi “la potenza della metafora”.
Un altro autore che si è interrogato a fondo sulla potenza della metafora è Gregory Bateson. Mary Catherine Bateson, nel capitolo conclusivo di Dove gli angeli esitano, attesta che «il tema della metafora ricorre in tutta l’opera di Gregory, e in effetti l’idea che lo assorbì nelle ultime settimane di vita era quella del sillogismo della metafora». Questa testimonianza della figlia del grande “pensatore” non dovrebbe essere sottovalutata, e ci dovrebbe indurre a chiedere: perché nelle ultime settimane di vita Bateson era così preso dall’idea del sillogismo della metafora? Cosa avrà visto nella sua mente di così importante che noi non riusciamo a vedere? Quando vogliamo verificare l’esattezza di un’espressione metaforica, ci esponiamo al ridicolo. Se sentiamo dire da qualcuno: “Sono in un vicolo cieco”, al posto di: “Nella mia situazione in cui mi trovo non vedo vie d’uscita o soluzioni”, se volessimo analizzare, come dicevo, l’espressione “vicolo cieco” dal punto di vista “logico” o da ciò che noi crediamo essere la “realtà reale”, è chiaro che precipitiamo nel ridicolo. È inutile aggrapparsi all’idea che non possono esistere “vicoli vedenti” e “vicoli non vedenti”: i vicoli non hanno occhi, e, di conseguenza, non possono né vedere né non vedere. Ma se ci inoltriamo in questo sentiero, non è che l’espressione: “Nella situazione in cui mi trovo non vedo vie d’uscita o soluzioni” sia meno carica di linguaggio metaforico della prima! È difficile immaginare “situazioni” che hanno “vie d’uscita”, cioè entriamo comunque nell’ordine del linguaggio metaforico. Insomma, come insegnava l’ultimo Bateson, non è alla grammatica e alla sintassi della (cosiddetta) logica che dobbiamo badare quando vogliamo comunicare un’idea o un’immagine, bensì alla efficacia stessa del “senso” che vogliamo comunicare.
Nella comunicazione s’effettua una analogia o s’instaura un rapporto di somiglianza tra due immagini, il cui effetto attiva una terza immagine come risultato della loro relazione. Questa terza figura consente a sua volta delle inferenze. Come fanno dunque i vicoli ad essere ciechi? Anzitutto, abbiamo l’immagine di una stradina che non ha uno sbocco o una via d’uscita. Una strada senza sbocco non porta da nessuna parte, il nostro cammino si conclude alla fine del suo percorso. Non possiamo affidarci ad essa per raggiungere una qualsiasi parte dell’abitato. Allo stesso non possiamo affidarci a un “cieco” per lasciarsi guidare nel nostro cammino: la stradina è occlusa, è “chiusa”, non ha alcuna apertura; così, anche chi non vede non può condurci oltre. Ma l’inferenza non finisce qui: la strada è un itinerario tracciato dall’uomo per condurci laddove vogliamo arrivare; la strada tracciata rappresenta dunque la meta che vogliamo raggiungere. Ed ecco che la strada può divenire immagine della nostra vita: “Hai preso una cattiva strada”; “Questa è la strada della mia vita”, ecc. La strada è un itinerario “sicuro” che “illumina” il nostro cammino; ma quando una strada non conduce a niente è una strada che non “illumina”, è una strada buia, o “cieca”.
Ora nessuna somiglianza potrebbe essere colta se contemporaneamente non si cogliessero le differenze: tra l’immagine della vita e quella della strada la differenza deve essere netta. Nessuno è così sciocco da non saper distinguere una vita da una strada: allora qual è il “ponte” o l’arco che ci permette di attraversare da un’immagine all’altra senza farci perdere di vista la loro differenza? Perché la metafora è sempre un ponte sospeso tra due sponde in grado di comunicare grazie alla sua presenza, altrimenti rimarrebbero l’una di fronte all’altra, nelle loro rispettiva distanza. La potenza della metafora ha il potere di avvicinare ciò che è distante. Il “vicolo cieco” è la terza immagine risultata dalle altre due: l’immagine della strada e quella dell’uomo cieco. Ora, questa terza immagine/ponte può fungere da “sponda” qualora la si accosti a un’altra sponda, ad esempio, quando non mi raccapezzo nella soluzione di un problema; e così via.
A questo punto potremmo essere indotti a credere che questo processo riguardi la “innocua” creazione poetica, o, in sovrappiù, il nostro linguaggio quotidiano, il nostro particolare modo di esprimerci. Si è indotti a crederlo perché non si sa o non si riesce a vedere la potenza della metafora all’opera nella costruzione dei meccanismi sociali, perché non si sa o non si riesce a vedere che ciò che noi chiamiamo “ruoli”, categorie sociali, tipi, ecc., sono rete di relazioni costruite in forza della potenza della metafora. La metafora non è soltanto un meccanismo che può essere analizzato a livello linguistico o inconscio, e non è neanche soltanto una figura poetica da interpretate esteticamente. La metafora è un “costruttore” sociale e culturale. Voglio dire se all’interno della nostre culture o delle nostre società venisse a mancare (per assurdo) questo “costruttore” esse crollerebbero o si scioglierebbero come neve al sole. La metafora è un’immagine (linguistica, ma non solo) che prende il posto di un’altra immagine. Diciamo allora che è un’immagine sostitutiva. Per esempio, nella metafora pascaliana, all’immagine “uomo fragile”, si sostituisce quella “l’uomo è un fuscello”: il termine intermedio è la “fragilità”, valido tanto per l’uomo quanto per il fuscello.
In questo esempio, si tratta di un meccanismo puramente retorico, che serve a “potenziare” soltanto il linguaggio poetico. Si accosta un’immagine con un’altra immagine, cercando di trovare un elemento comune, e si crea un’immagine nuova. Insomma, l’immagine nuova che si è creata non è la “duplicazione” né della prima né della seconda immagine. Tuttavia, questa nuova immagine si sostituisce alle altre due. Le due immagini l’uomo e il fuscello riescono a comunicare, ad essere messe in relazione, in virtù di un elemento comune (la fragilità), sospeso come lo è un ponte.
La trasposizione viene effettuata in forza di un processo di assimilazione: la fragilità dell’uomo viene assimilata a quella del fuscello, e l’immagine del fuscello prende il posto dell’uomo. Sulla forza dell’unico tratto che l’uomo e il fuscello hanno in comune, la loro fragilità, si costruisce un’immagine nuova. In questo caso si parla di un processo di sostituzione.
Ma ciò che viene meno in questa riflessione sulla “potenza della metafora” è capire in “forza” di che avviene questo meccanismo. Da un lato potrei semplicemente rispondere: avviene in forza della facoltà creativa del genere umano; ma questa spiegazione non è affatto esaustiva, anzi, serve soltanto a spostare il problema, perché si dovrebbe cominciare a spiegare a cosa corrisponda questa “facoltà creativa”. Dall’altro è vero, alla base di ogni processo metaforico v’è una buona dose di creatività – e su questo versante i poeti hanno tanto da insegnarci – tuttavia, il rimando a questo processo, valido nell’ambito estetico, appare piuttosto limitativo, in quanto questo meccanismo, come abbiamo premesso all’inizio, non è affatto circoscritto soltanto all’ambito linguistico, ma sottende anche quello delle relazioni umane.
Soffermiamoci ancora una volta sulla metafora linguistica: in forza di che la fragilità umana viene assimilata a quella di un fuscello? Mettiamo da parte la risposta “in base a un atto creativo”, e vediamo più nel concreto come s’attiva questo processo metaforico. Anzitutto, questo processo avviene in forza di un scambio: “Oggi, mi sento uno straccio”, dice qualcuno di sé. Il sostantivo “straccio” sostituisce (o viene scambiato) il significato di “debole”, “abbattuto”, ecc. Scambiare qualcosa vuol dire porre qualcosa al posto di qualcos’altro. Nella forma del baratto, ad esempio, un oggetto viene scambiato con un altro oggetto, oppure, in un’economia monetaria, un valore (moneta) viene scambiato con una merce. Alla fine di questo processo possiamo parlare di un rapporto di “sostituzione”. In ogni transizione, chi ha ceduto un oggetto riceve in cambio un altro oggetto. Si presume che ogni scambio sia basato sul “principio di reciprocità”, cioè che i beni e i servizi siano scambiati sulla base di reciproche aspettative, rispettando modalità e tempi fissati da norme socialmente condivise. Cosicché, ogni dare implica un ricevere, che poi a sua volta si può tradurre in un successivo ricambiare, in modo tale che tra gli individui si creino legami sociali sempre più intensi e stabili. Nello scambio di un bene o di un servizio, ciò che viene scambiato deve avere un valore equivalente, in modo che la rinuncia di un bene in cambio di un altro non avvantaggi uno dei due contraenti (questo ovviamente in linea di principio).
Usciamo fuori dall’analisi del linguaggio, ed entriamo nel merito delle relazioni interattive, entriamo, cioè, nel merito della potenza della metafora come costruttore delle relazioni e dei rapporti sociali. Siamo partiti dall’idea che la metafora sia un ponte gettato tra due immagini al fine di metterle in comunicazione. Le due immagini, come due sponde, sono “diverse” ed “opposte”. La metafora/ponte unisce dei tratti comuni alle due immagini e le mette in comunicazione o in relazione.
Ogni “agente osservante” possiede sempre un “punto di vista”, e ogni interazione focalizzata sul Sé rappresenta uno scambio dei rispettivi punti di vista, cioè un osservare sul modo in cui si osserva l’altro. Nell’accezione corrente, quando parliamo di uno scambio tra punti di vista, di solito intendiamo una manifestazione reciproca di idee o di vedute su aspetti o vicende della vita. In questo senso, ognuno manifesta la propria opinione o idea, misurandosi con quella altrui. In questo senso, lo scambio consiste nel venire a conoscenza con idee o opinioni diverse dalle proprie, e quindi nel prendere consapevolezza che, oltre al nostro punto di vista, esiste un altro modo di vedere e interpretare le cose. Dopodiché, nel corso del confronto, ognuno è libero di scegliere o accettare in modo parziale o completo alcuni aspetti delle idee o opinioni espresse, e quindi di “sostituire”, parzialmente o in tutto, le proprie idee, oppure rimanere fermi sulle proprie posizioni. Queste forme di scambio, in sostanza, riguardano soprattutto i contenuti del pensiero o della visione del mondo. Nelle interazioni sociali, tuttavia, non solo vengono scambiate informazioni, richieste, prestazioni o cose, ma possiamo avere addirittura uno “scambio” del Sé. In pratica, un Sé può sostituirsi a un altro Sé. Quando avviene questo processo di sostituzione, praticamente uno dei due agenti in questione finisce con l’assumere il punto di vista dell’altro. All’interno di una “filosofia della comunicazione del sé” è interessante indagare sia il modo in cui questo processo di sostituzione si verifica sia il significato che esso assume all’interno di una dinamica interattiva. Anzitutto, in questa teoria, ho definito il Sé come “l’ambito non disponibile ad alter”. Chi ha il controllo del proprio ambito non disponibile è Ego.
Tuttavia, i confini di questo ambito sono mobili; infatti, essi possono subire delle modificazioni nel corso di continue interazioni. I confini del proprio Sé, o del proprio ambito non disponibile, dunque, non sono confini statici, ma dinamici. Inoltre, il Sé, all’interno di queste dinamiche interattive, può subire un processo di sottrazione, qualora il suo ambito non disponibile subisca delle restrizioni, oppure può attivare un processo di appropriazione, qualora ego s’appropria dell’ambito non disponibile dell’altro, trasformandolo in qualcosa di disponibile per sé. L’immagine che Ego ha di sé gli viene restituita proprio da come questi limiti vengono tracciati nel corso di queste dinamiche interazionale. Ma Ego, quando interagisce, interagisce sempre con Alter. Ego, pertanto, non ha soltanto un’immagine del proprio sé, ma ha anche un’immagine del sé altrui. In altri termini, Ego, quando interagisce, non solo esercita un controllo affinché i limiti del proprio ambito non siano violati da Alter, ma conosce anche i limiti dell’altrui ambito che non deve violare. Ego possiede tanto un’immagine del proprio sé quanto un’immagine del sé altrui.
Ora, finché Ego rispetta l’ambito non disponibile di Alter (vale a dire finché rispetta il Sé altrui) non emergono problemi particolari: i due Sé possono tranquillamente convivere. Il mio interesse emerge nel momento in cui analizzo il modo in cui Ego induce Alter a modificare il proprio ambito non disponibile (il proprio Sé). Nel mio linguaggio, definisco tale processo come un processo d’assimilazione, di identificazione e di immedesimazione. A seconda della risorsa usata da Ego, si può parlare di ciascuno di questi processi. In altri termini, riguarda il modo in cui Ego può “indurre” Alter ad adottare il comportamento coerente all’immagine che Ego ha di Alter. In altri termini, la potenza della metafora è al servizio dell’affermazione del Sé, cioè serve a potenziare il proprio Sé.
Quando Ego interagisce con Alter, all’interno di una qualsiasi relazione, Ego ha presente sia l’immagine di sé che l’immagine dell’altro: se, poniamo il caso, che Ego sia un insegnante, egli, quando interagisce con Alter/allievo, ha presente sia come si comporta in qualità di insegnante sia come si comporta l’altro in qualità di allievo. “Il come si comporta” è un’immagine o una “configurazione” del Sé che descrive mentalmente il proprio e l’altrui comportamento. Ego interagisce con Alter in virtù di questa duplice immagine: la duplice immagine permette a Ego di entrare in contatto e, quindi, di relazionarsi ad Alter.
L’immagine che Ego ha di Alter possiamo definirla “simmetrica” alla propria immagine che ha di sé, quando un’immagine dell’altro è la conferma della propria immagine; in tal caso le due immagini simmetriche sono l’una è in funzione dell’altra. Poniamo il caso in cui qualcuno dica di se stesso: “Io sono onesto”; questa immagine riceve una conferma nel momento in cui dice gli altri dicono: lui “è onesto”. La propria immagine trova conferma nell’immagine altrui. Cosicché l’uno può immedesimarsi nell’altro perché il proprio comportamento si rispecchia (o trova conferma) nel comportamento altrui: l’altro sa cosa vuol dire comportarsi in modo onesto allo stesso modo in cui lo sa lui. Ciascuna immagine diventa la proiezione dell’altra. Tra i due comportamenti si stabilisce un rapporto di mimesi. In sostanza, l’uno valuta il proprio comportamento sulla base del comportamento altrui, allo stesso modo in cui valuta il comportamento altrui sulla base del proprio comportamento. Il rapporto di mimesi è un rapporto di reciprocità.
Chiariamo bene cosa voglio dire quando affermo che la potenza della metafora sta alla base delle relazioni umane. La metafora è costruita sulla forza del “come se”, ossia dell’analogia o della somiglianza. Da questo punto di vista ho di me un’immagine, ad esempio, quello di un uomo che sta attraversando delle grandi difficoltà. Per dare un’idea di questa immagine la metto in relazione con un’altra immagine che abbia delle analogie o dei tratti in comune con la prima, e dico: mi sento come un naufrago (sottinteso: mi sento come se fossi un naufrago); avvicino, dunque, la prima immagine alla seconda. Questo accostamento mi è stato possibile in quanto mi sono immedesimato con la sorte del naufrago, di conseguenza in quanto ho in mente l’immagine di come può sentirsi un naufrago quando si trova abbandonato a se stesso in mezzo al mare. Quindi ho presente le condizioni in cui mi trovo a vivere e ho presente le condizioni in cui viene a trovarsi un naufrago. Gli atti o i comportamenti che compio li trovo coerenti all’immagine che ho di me.
Ora, poniamo che ci sia qualcuno che mi vede come un naufrago: anche questo qualcuno ha in mente come deve sentirsi un naufrago in mezzo al mare. Il fatto che ci sia qualcuno che mi vede come un naufrago non è affatto detto che io lo sia. Diciamo che l’immagine che io ho di me stesso sconferma l’immagine che l’altro ha di me. La mia immagine è contraria all’immagine che l’altro ha di me. Poniamo, invece, io mi riconosca nell’immagine dell’altro, di conseguenza l’immagine che l’altro ha di me viene confermata dall’immagine che ho di me stesso. In un terzo caso, posso anche ignorare del tutto l’immagine che l’altro ha di me, cioè non prenderla in considerazione neanche per un attimo.
Poniamo, invece, che l’altro sia in grado di pormi nelle condizioni di vedermi come mi vede l’altro. In altri termini è come se dicessi: l’altro ha il potere di pormi nelle condizioni descritte dalla sua immagine. Finché la mia immagine conferma quella dell’altro, l’altro non ha bisogno di pormi in quelle condizioni, vuol dire che già mi ritrovo in esse. Nel caso in cui l’immagine di me sconferma o nega quella dell’altro, l’altro per vedersi confermata l’immagine che ha di me si vede indotto a esercitare quel potere al fine di porre le condizioni descritte dalla sua immagine. A questo punto ci si potrebbe domandare: ma per quale ragione l’altro dovrebbe vedere confermata l’immagine che ha di me? Diciamo che lo fa in ragione del fatto di “credere” che quella sia l’immagine corrispondente al vero, anche se io non ne sono né convinto né persuaso.
Una mamma dice della propria figlia: “E’ una ragazza fragile”. Si comprenderà che l’immagine non è relativa a un aspetto fisico, ma riguarda la sfera dell’agire. Se questa è l’immagine che la mamma ha della figlia, di conseguenza, ogni volta che si parla o si fa riferimento alla figlia, si comporterà con tutti coloro con i quali entra in contatto in coerenza con questa immagine. In altri termini, quando al centro della mediazione tra sé e gli altri c’è la figlia, la metafora veicolata è quella del “corpo fragile”. Quindi, la mamma comunica agli altri l’immagine della figlia attraverso questa metafora. “Il soggetto fragile” è la metafora che la mamma scambia con gli altri quando si trova a parlare o a trattare con la figlia: gli altri sostituiscono l’immagine che avevano della figlia con quella della madre. In seguito, analizzeremo in forza di cosa gli altri sono indotti ad effettuare questa scambio. In sostanza, l’immagine della madre è il ponte che mette in comunicazione “la figlia” con gli altri.
Da parte sua, la figlia può riconoscersi in questa immagine; può rifiutarla; oppure può ignorarla. Prendiamo in considerazione la seconda o la terza opzione: la figlia non si vede affatto fragile. Nonostante che la figlia sconfermi o ignori l’immagine che la mamma ha di lei, la mamma seguita a comportarsi con gli altri in coerenza con questa immagine. A questo punto supponiamo che la mamma abbia il potere di condizionare tutti coloro che hanno contatti con la figlia nel modo descritto dalla sua immagine. Ha poco importanza se mette in atto questo potere in modo intenzionale o meno. Voglio dire mettiamo da parte le ragioni che la spingono in tal senso, e accontentiamoci della spiegazione: lo fa perché ci crede. Quindi, la mamma induce gli altri a comportarsi con la figlia come se fosse un soggetto fragile. Ora, la mamma sa come bisogna trattare un corpo fragile: un oggetto fragile è un corpo delicato, che può rompersi o frantumarsi facilmente; un oggetto siffatto deve essere trattato con cura, ha bisogno di attenzioni particolari quando lo si maneggia, non deve subire colpi bruschi, deve essere trattato con delicatezza, non deve essere esposto a cambiamenti repentini; è un oggetto che non deve ricevere traumi. Coloro ch’entrano in relazione con la figlia cominciano a far proprie le metafore materne su come bisogna trattare il “corpo fragile” della figlia. A questo punto, più la figlia viene trattata come un corpo fragile dagli altri più sarà portata a vedersi come un corpo fragile. Mi si obietterà: possibile che una donna abbia tutto questo potere al punto di indurre gli altri a vederla nel modo in cui la vede lei? Perché mai gli altri dovrebbero identificarsi con il punto di vista della mamma e non con quello della figlia?
Il problema è proprio qui: gli altri sono portati a “identificarsi” o ad assimilarsi con il punto di vista più forte: se nei rapporti di forza tra la figlia e la mamma, è la mamma ad esprimere quello più forte, allora gli altri sono portati a identificarsi con il suo punto di vista. Ciò è dovuto a quello che chiama “effetto di mimetismo”.
Al posto della mamma avrei potuto usare l’esempio del "nazista" e dell’"ebreo" (che sarà in seguito un altro tema da sviluppare per vedere all’opera la potenza della metafora) - attenzione: lungi da me dall’accostare l’atteggiamento materno a quello nazista (come si suol dire: guardare la luna non il dito) - e dire: come ha fatto il nazista, quando sparge le sue metafora - a far identificare il "buon" tedesco con il suo punto di vista? perché le sue metafore sull’ebreo hanno avuto successo? la persuasione come spiegazione non è sufficiente. Alla base c’è un effetto di mimetismo (di contagio) da analizzare con maggiore attenzione. I nazisti aveva dato degli ebrei una loro immagine, e avevano il potere di porre le condizioni di "far vivere" o trattare gli ebrei secondo l’immagine che ne avevano.
L’essere umano vivendo in una condizione "bestiale" si "degrada come essere umano, si trasforma (effetto di metamorfosi) in una "bestia" o in un essere subumano (come volevano i nazisti); a questo punto, quando un qualsiasi buon tedesco osservava un ebreo si vedeva rimandata l’immagine che i nazisti avevano costruito intorno a lui. Si costruisce tutta una rete di relazioni attraverso l’uso delle metafore. Che la violenza e il terrore siano strumenti indispensabili di ogni sistema totalitario non vi sono dubbi; ma non per comprendere come si può creare un vero e proprio sistema di persecuzione; avrei potuto continuare con altri esempi, e parlare della Lega nostrana e dello stereotipo dello straniero e vedere lo stesso all’opera la potenza della metafora nel campo delle relazioni sociali; ma non vorrei eccedere troppo parlando solo di sistemi di persecuzione, per non indurre il lettore a pensare che tale potenza s’esplica soltanto in questo ambito. A me interesse analizzarla tra le pieghe più "innocenti" e insospettabili dell’agire umano, laddove meno te l’aspetti.


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