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Prima Puntata Orlando Furioso: Commenti selvaggi e sproloqui affettuosi (la prima ottava)

Creato il 13 dicembre 2011 da Gaetanocelestre @GaetanoCelestre

Prima Puntata Orlando Furioso: Commenti selvaggi e sproloqui affettuosi (la prima ottava)

Tema principale del poema è come Orlando divenne, da innamorato sfortunato d’Angelica, matto furioso, e come le armate cristiane, per l’assenza del loro primo campione rischiarono di perdere la Francia, e come la ragione smarrita dal folle (il recipiente che conteneva il suo senno) fu ritrovata da Astolfo sulla Luna e ricacciata in corpo al legittimo proprietario permettendogli di riprendere il suo posto nei ranghi. Tema parallelo è quello degli ostacoli che si sovrappongono al compiersi del destino nuziale di Ruggiero e Bradamante, finché il primo non riesce a passare dal campo saraceno a quello franco, a ricevere il battesimo e sposare la seconda. I due motivi principali s’intrecciano alla guerra tra Carlo e Agramente in Francia e in Africa, alle stragi di Rodomonte in Parigi assediata dai Mori, alle discordie in campo d’Agramante, fino alla resa dei conti tra il fior fiore dei campioni dell’uno e dell’altro campo.

Ecco come Calvino riesce magistralmente a sintetizzare i vari temi del Furioso, strutture e sovrastrutture (seppur solo accennate e talvolta solo presumibili). Conciso e breve, come io non riuscirò mai, per un discorso che – lui lo sa benissimo – non si potrà mai concludere. Testo aperto quello dell’Ariosto, ma se ne tratterà a tempo debito.

Il mio tentativo non è così velleitario come questo incipit lascerebbe intendere di primo acchito. E si limita al solo voler parlare dell’Orlando Furioso così come se ne potrebbe discutere al bar facendo aperitivo.

Tento solamente, cerco di allettare qualche lettore che abbia voglia di perdersi per i boscosi sentieri di questa affascinante Opera. Tento – ancora – di far storcere il naso a tutti i militanti (e non) professori di liceo che hanno condotto generazioni di studenti all’odio più sincero ed immotivato nei confronti di questo meraviglioso scritto.

Se solo si fosse – a quei tempi, quelli del liceo – percepita l’ironia che era racchiusa in quei versi, lo sberleffo verso chi si sente Grande e Saccente…

Se solo qualcuno ci avesse spiegato che l’Orlando Furioso non era roba seria… Se solo…

Beh, va bene, probabilmente avremmo fatto lo stesso quello che andava fatto. Cosa?

Ma è ovvio, no? Cercare costantemente di “scacciarasilla”. In italici termini: studiare il meno possibile, senza pensare ad alcun profitto o risultato finale se non quello ozioso di arrivare fino ai primi di Giugno e andare a farsi i bagni a mare.

Questa è la verità! E vi assicuro che Ludovico sarebbe stato d’accordo. Già, neanche lui stesso si sarebbe studiato, ve lo assicuro!

Lui aveva la consapevolezza di non essere…non essere…non essere cosa? Serio forse?

Cosa non era Ariosto?

Beh, cominciamo col dire che Ludovico Ariosto non amava platonicamente alcuna donna da sublimare a guida nell’Aldilà. Figuriamoci, no, non se parla minimamente di metaforizzare figure salvifiche, nessuna donna in visione cristologica stile Beatrice.

Ludovico Ariosto non era nemmeno un delicato cultore dell’amore puro e cristallino come quello suscitato da chiare fresche e dolci acque. Se ne accorgerà il lettore attento, sin dalla introduzione fatta dalle quattro ottave iniziali. E d’altronde non poteva essere diversamente, amici lettori, c’è lo stacco di qualche secoletto tra gli esempi riportati ed il pensiero dell’Ariosto.

Ma l’Orlando Furioso è ben lontano anche da malinconici ricordi cavallereschi. Mi riferisco a Matteo Maria Boiardo ed il suo Orlando Innamorato, cioè le “puntate precedenti” da cui prende spunto Ludovico stesso per la sua Soap Opera. L’Innamorato è solo il motivo da cui prende il via, ma ci si renderà conto di quanto il furioso Orlando sia la smitizzazione delle virtù cavalleresche sospirate ancora sul finir del quattrocento. Non siamo ancora a Cervantes, ma per il momento ci basti ricordare che i versi dell’Ariosto sono in effetti l’antecedente diretto per il Chisciotte.

Soprattutto siamo lontani, con l’Ariosto, dalle immaginarie turbe mentali di quell’altro tizio residente presso gli Estensi: il Tasso. Sì, va bene, ho capito che era un poveretto e che anche se le frustrazioni sono solo immaginarie se ne soffre lo stesso, magari anche di più, ma in ogni caso…a noi che ce ne frega?!?

Tasso caro,  vai più spesso a mare e magari frequenta comitive miste. Sì, perché già ti vedo il sabato sera che esci con il tuo gruppetto di amici, tutti maschi e disperati poiché privi di aspettative nel campo delle conquiste sentimentali. Come no? Ma sì, seduto ad ingozzarti e bere cocktail, discorrendo di quanto la politica interna del Paese sia giunta ad un livello di degrado morale…insomma ho reso l’idea!?! Non voglio dire che tu abbia del tutto torto, in fondo. Che il degrado politico ci sia, è innegabile. Ma sui cocktails, dissento ampiamente! Bevi vino, fatti una cultura sulle doppio malto, ma i cocktails proprio no, non sono né carne né pesce, e così di sicuro l’angoscia non decresce.

Tornando a noi: voi pensate che l’Ariosto non se ne sarebbe potuti fare di problemi simili, anche a livello esistenziale? Vogliamo parlare di quella volta che andò dal Papa per conto del duca Alfonso D’Este, nel tentativo di placare la santa ira pontificia? Quale era il problema? Cose da potenti, come sempre, che poi però devono essere risolte dal malcapitato “terzo” incolpevole e assolutamente a-potente (no, non diciamo impotente, per favore!): In pratica il duca Alfonso si era alleato coi francesi invece di aderire alla Lega Santa. Un po’ come quando ai tempi delle feste delle mediue, Gino – che sta organizzando la sua festa di compleanno – telefona a Tino per invitarlo, pregandolo tuttavia di non avvertire Pino, ma quest’ultimo se ne accorge lo stesso (ci credo che se ne accorge, non trova in giro nemmeno un compagnetto di classe!!! Gli sorgerà pure il dubbio che siano tutti insieme nello stesso posto!?!).

L’Ariosto, per questi giochetti, rischiò di esser gettato ai pesci dal Santo Padre, il qual probabilmente non conosceva il detto “ambasciator non porta pena” (o magari non era ancora stato inventato) e non gradiva, in ogni caso, le scusanti della Corte estense esplicitate per bocca del colto funzionario. Il duca Alfonso, successivamente a queste disavventure, per premiare il nostro amico poeta, lo mandò in Garfagnana qual Governatore. Ovviamente l’ultima frase è stata detta con sarcasmo. Non si capiva? Ah, maledetta ironia letteraria, quante insidie – direbbe l’architetto Mangoni (ed è Mangoni, non Mengoni, che sia chiaro). Ok, ok, magari era ironia percepibile solo da qualche professore del liceo, scusatemi. Ci sono cascato anch’io… Resta comunque il fatto che in Garfagnana, Ludovico Ariosto, trascorse “gli anni più ingrati della sua esistenza, in un ambiente difficilissimo e ostile, dove le soperchierie e gli arbitri di pochi prepotenti o addirittura malfattori si riversavano, senza scrupolo e talvolta persino con l’acquiescenza del duca, sopra la folla minuta e indifesa dei piccoli contadini e dei modesti artigiani del luogo.” Così ne parlava Lanfranco Caretti…che non è un componente degli Elio e le Storie Tese.

Beh, potrei dilungarmi sul tema sociale e tentare di avvicinare Ludovico Ariosto al marxismo, ma per il momento direi di andare avanti. Dunque c’era di che lamentarsi, mi pare, no? Eppure, al posto di piangersi addosso, il nostro “eroe” preferiva sforzarsi di non pensarci e mandarli tutti a quel paese. Avrebbe dovuto sfoderare la spada – cosa che si usava ancora fare a quei tempi – e farsi valere? Ma caro lettore, lì si tratta di attitudini. C’è proprio chi non ce l’ha l’animo del rivoluzionario in campo. E allora Ludovico la spada la fece snudare ad Orlando, pazzo e incazzato. Pazzo, certo, perché solo un pazzo è giustificato in una azione manesca. Salvor Hardin (O voi, che non vi appassionate alla fantascienza, orsù andatevi a vedere chi è il tizio!) diceva: “La violenza è l’ultimo rifugio degli incapaci!”E poi, non si disse che la penna feriva più della spada? Insomma, rendiamocene conto, le rivoluzioni, senza le idee, sono solo azioni violente (lo diceva pure Trotsky). Le idee invece, talvolta, bastano a che ci sia una rivoluzione vera e genuina, oltre che priva di violenze (forse questo non lo diceva Trotsky). Anche questa era la saggezza ariostesca. Non fraintendiamoci, l’Ariosto non aveva intenti rivoluzionari, o almeno questi non sembrano trapelare dai suoi versi. Chissà, magari intimamente su di questi rifletteva, ma qui sto solo ipotizzando. Ludovico aveva altre mire, capiamoci!

Con la sua grande ironia, il poeta riuscì gentilmente a trasferire in blocco, a quel paese: corte estense, papato, potenti…e insomma chiunque non gli consentiva di vivere come voleva. Come voleva vivere? Ma tranquillo! Serenamente! Che pensavate, a Luca Cordero di Montezuma? Invito il lettore volenteroso ad approfondire sulla sua vita (quella dell’Ariosto, non quella di Luca Cordero di Prezzemolo).

Altro elemento di vicinanza al mio mondo ideale, è costituito dal fatto che anche Ludovico iniziò a studiare giurisprudenza, controvoglia. Potrà mai un idealista sognare di diventare giurista? Sì, qualcuno mi risponderà di sì, ma io mi mantengo nel dubbio.

Ad ogni modo, abbiamo visto cosa l’Orlando Furioso non è, adesso si comincerà a vedere in cosa Esso consista. Non c’è miglior inizio della lettura diretta dei versi:

Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori,
le cortesie, l’audaci imprese io canto,
che furo al tempo che passaro i Mori
d’Africa il mare, e in Francia nocquer tanto,
seguendo l’ire e i giovenil furori
d’Agramante lor re, che si diè vanto
di vendicar la morte di Troiano
sopra re Carlo imperator romano.

Bene, bene…quale presunzione la mia!!! Chissà come inorridirebbe il mio professore di italiano. Io, un villanzone cresciuto a scacci cco pummaroru e sinapo e sausizza, io che coltivo i piaceri del dolce oziare, io illetterato…etc, etc, che mi permetto di trattare di un poema cinquecentesco?????? Bene – lo dico ancora – tutti i professoroni che la pensano così non hanno capito GNIENTE dell’Orlando Furioso, statene certi. Siamo proprio noi incolti che dobbiamo amare l’Ariosto e della sua opera possiamo disquisire.

Si vede da come comincia il poema: Le donne! Tra gli argomenti che saranno trattati nei versi – tra tutti spicca tanto da esser elencato per primo – quello delle donne. E non è così anche quando si va al bar? Nun si parra ri fimmini? Ovviamente siamo in un’ottica del tutto maschile, la stessa da cui scriveva l’Ariosto, tutto sommato. Mondo maschilista? Non addentriamoci nel tema, ognuno ne tragga le conseguenze che vuole.

Le donne, si diceva, argomento tipico da bar (si è detto anche questo?). Allora faccio un passo avanti: Le donne e i cavalieri – questi ultimi seguono le rappresentanti del gentil sesso – si potrebbe pensare che siano da legare ad “arme” ed “amori”, ma così non è, almeno non lo è del tutto. Si converrà che ammettendo indiscriminatamente un legame del genere, si farebbe cadere questo splendido poetico proemio in una ridondanza iniziale, sicuramente non necessaria per l’economia di lettura del poema stesso. Cercherò di rendermi chiaro con una scena da bar:

«A viristi cchiè bbona Tina?!?» – dice Gino a Rino.

«Se, ma a mmia mi piacia cchiù ssai Pina!» – risponde Rino a Gino.

«Pina? Ma cui, a zzita ri Pino? Mizzica, se u sapi iddu, mi sa ca ti rumpa i corna!!!» – Gino avverte l’amichetto Rino.

«A vuogghiu virri comu mi rumpa!?! Pirchì nun vena cca, se c’havi curaggiu!?!» – s’indispettisce Rino.

E da qui la sfida tra i cavalieri prende possibile avvio! Questa sì – la sfida – che può esser collegata ad arme. Arme ed amori, tanto per intenderci – lo dico per quelli fissati con la cultura – sono nient’altro che il riferimento al ciclo Carolingio (arme) e a quello Bretone (amori). L’Ariosto, dopo averci avvertito che lui tratterà essenzialmente di donne e di cavalieri, cioè di esseri umani calati nella realtà vivente, ci dice che metterà insieme entrambe le tematiche da cui prende spunto la letteratura cavalleresca.

Dovrei parlarvi in maniera più estesa dei Cicli? Mi scoccia, e penso scoccerebbe anche voi. Tra l’altro molti di voi queste cose le sanno già. A mero scopo di far chiarezza, così sintetizzo: Ciclo Bretone, è quello di Re Artù, Morgana, Merlino, i cavalieri della tavola rotonda e compagnia bella. Sono i cavalieri cortesi e le damigelle di cui essi sono innamorati – più platonicamente che materialmente – il tutto condito con sortilegi e magie varie (vi rimando alla lettura essenziale di Chretien De Troyes).

Invece il Ciclo Carolingio a noi italiani (ma soprattutto siciliani) è molto più familiare. Si tratta delle avventure guerresche dei paladini di Francia, quelli di Re Carlo Magno per la precisione (Orlando, Rinaldo, Bradamante e tanti altri), avversari degli equivalentemente fieri cavalieri mori (Ferraù, Rodomonte, Sacripante, etc, etc). Sono temi molto noti (o almeno lo dovrebbero essere) per via dell’Opera dei Pupi e delle raffigurazioni sui carretti siciliani. Dunque un tema d’armi, quest’ultimo, privo di eccessive concessioni all’amor cortese.

Ludovico Ariosto, quali soggetti sceglie proprio questi ultimi paladini, sicuramente meno eterei di quelli di Re Artù, ma decide in ogni caso di inserirli in un nuovo contesto che è (anche) la risultante dell’unione di quei due Cicli. Resta comunque, a mio parere, una predilezione per quello Carolingio. Ciò non perché Ludovico preferisse udire lo stridere dei ferri e delle armi, allo schioccar dei baci pudichi. Anzi, né armi né baci pudichi. Ma mettetevi nei suoi panni: se avreste dovuto far dare baci seri e materici (con la lingua), a chi li avreste voluti far dare? A Galaad? Cavaliere noto per la sua virtù e purezza, grazie alla quale riuscì a trovare il Santo Graal, con la benedizione di Dio, etc, etc??? Poco simpatico, non credete? Se non proprio imbecille. Cchi nunn’havia autru cchi fari? E gli altri suoi compagni di tavola non erano meglio, ve lo assicuro.

Qualcuno mi dirà che anche Orlando non era esente da accuse simili (e ne riparlerò ampiamente nel seguito del mio commentare). Ma è indubbio che a far dare un bel bacio sensuale, o a far aver pensieri sconci, son più avvezzi gli uomini del fare. Quelli che menano le mani. Ecco il perché, probabilmente, dei cavalieri di Re Carlo e non quelli di Artù. Gente alla buona per certi versi – questi paladini di Francia – che girava spesso nelle nostre zone. Dal nord all’estremo sud italiano sono accertate miriadi di leggende che legano determinati luoghi ai paladini. Sin dal nome del posto stesso. Si pensi a Capo D’Orlando, o ad Olivieri (in provincia di Messina) ad esempio, ma ce ne sono tantissimi altri. Era gente terrena, che non cercava il mistico Graal. L’uomo comune non può che averli a maggior simpatia. E in fondo non siamo tutti uomini comuni? E magari di esser tutti uomini (perciò comuni) dovremmo persino crederlo con forza.

Dunque questi uomini d’arme saranno visti in una nuova chiave,  in quella della cortesia tipica del ciclo bretone. Questa è l’unione dei due cicli. Audaci Imprese e Cortesia! Ma non troppa cortesia e comunque solo in funzione di metterli in ridicolo. Non mi credete? Il lettore volenteroso che proseguirà nella lettura dei versi – magari insieme a me – se ne renderà conto da solo. Fatto sta che questa è la prima dichiarazione non veritiera dell’Ariosto. Sta ironizzando! Se non fosse ancor del tutto chiaro, ci pensa lui stesso a confermarlo, quando dice che canterà di queste cortesie e di queste audaci imprese che furo al tempo che passaro i Mori d’Africa il mare, e in Francia nocquer tanto seguendo l’ire e i giovenil furori d’Agramante lor re, che si diè vanto di vendicar la morte di Troiano sopra re Carlo imperator romano.

Cioè una impresa falsa! Un falso letterario (neanche storico). In effetti Carlo Magno ebbe poco a che fare coi Mori. Ancor più in effetti tutta questa storia dei duelli tra cavalieri mori e paladini di Francia fu da sempre creduta per quel che era: un racconto popolare, privo di basi storiche. Invenzione dei poeti e dei giullari di corte medievali, che iniziarono a parlarne intorno al 1100. Si potrebbe dire anche che delle superiori menti illuminate abbiano consigliato questi artisti di incominciare un secolare indottrinamento delle popolazioni contadine contro le eresie musulmane. E bisogna anche capire che in Sicilia si era appena da qualche anno strappato il dominio proprio a quei musulmani. Soprattutto bisogna considerare che le popolazioni contadine, con quei signori musulmani, non se la passarono poi così tanto male, in ogni caso non peggio che coi cristianissimi bizantini. Come farli stare buoni adesso che erano tornati i normanni pronti a rimettergli addosso il giogo feudale? È una cosa di cui non ci siamo liberati del tutto ancor oggi, spero che il lettore se ne renda ben conto.

Uno dei sistemi, per convogliare le masse dentro grandi calderoni di appartenenza ideologica, era appunto l’indottrinamento culturale, la Propaganda (un po’ come fanno oggi le ammorbanti televisioni di stato e non, con gli educativi format che ci propinano ogni giorno, coi telegiornali sommariamente parziali e l’allegro velinismo imperante).

Così, a distanza di tre secoli dall’incoronamento di Carlo Magno a Imperatore del Sacro Romano Impero, si inventarono questi epici duelli mai avvenuti tra cavalieri cristiani e cavalieri mori. Contemporaneamente cominciavano le Crociate in Gerusalemme. Spero che adesso sia chiaro il contesto medievale in cui nascono i primi cantari cavallereschi (le chanson) .

L’unico riferimento storico ad uno scontro tra Carlo Magno e i cavalieri musulmani è del ‘778: Il Re franco aveva tentato di espugnare Saragozza, in mano ai mori, ma fu costretto alla ritirata sui Pirenei. Ivi, presso Roncisvalle, nel corso della ritirata, furono attaccati dalle popolazioni basche e lo stesso Orlando perse la vita. Non mi dilungo perché sono cose note.

Tornando al tema principale dell’Orlando Furioso, addirittura si vagheggia un assedio di Parigi da parte di Agramante, re dei mori d’Africa, e di Marsilio, re dei maomettani di Spagna. In realtà solo ai tempi di Carlo Martello e di Pipino il Breve c’era stato un attacco islamico alla Francia, ma mai nessun eretico moro (e non ho detto infedele poiché a quei tempi l’Islam era ancora considerata una eresia cristiana) era giunto alle porte di Parigi. Consiglio vivamente il lettore di cercare sul mulo l’opera teatrale “Pipino il Breve”. Oltre che per godersi uno strepitoso Tuccio Musumeci, anche per comprendere meglio cosa significa ciclo carolingio e opera dei pupi in Sicilia.

Un esempio sciclitano (lo mio paese) è evidente nella annuale rievocazione della battaglia tra turchi e cristiani, in occasione delle festività per la Madonna re Mulici. Parlo per i non sciclitani adesso: si tratta della teatralizzata – e assolutamente non documentata storicamente – rappresentazione di uno scontro molto probabilmente mai avvenuto nel 1091. I presunti duellanti erano i normanni del Gran Conte Ruggero d’Altavilla ed i saraceni che d’Africa venivano per chieder il tributo a lor dovuto. I normanni, come nella miglior tradizione dei racconti edificanti ad essi legati, guarda caso erano in minoranza e stavan perdendo, quando apparve ad aggiustar le cose la Madre di Cristo, con la spada in pugno e sopra un cavallo bianco.

Le incursioni more, in realtà, proprio in quel periodo non si verificavano così frequentemente da giustificare uno scontro tanto importante da veder la partecipazione del Gran Conte stesso (per non parlare della Madonna, no?). Ci mancherebbe altro, la Sicilia era stata appena riconquistata e i sultanati africani dirimpettai, che avevano anche problemi di politica interna, non avevano certo la forza di organizzare spedizioni militari. Semmai si può concedere che ci furono sparuti gruppi pirateschi che sporadicamente giungevano sino ai nostri lidi. Per parlare di programmatiche azioni corsare, continue e ripetute, lungo la costa siciliana e non solo, bisognerà aspettare l’avvento dell’Impero Ottomano. Incursioni che si intensificarono poi proprio nell’arco temporale che comprende Boiardo, Ariosto e Tasso (colto il nesso cavalleresco?). Ecco perché questi mori della leggenda sciclitana si chiamano Turchi (ottomani) e non sono Tunisini, come la coerenza geografico-storica pretenderebbe. Ciò dovrebbe quantomeno lasciar intendere che si tratta di una leggenda più “moderna” (al limite quattrocentesca, a volerla sparar grossa), sicuramente non risalente al medioevo normanno. Una leggenda ancora una volta propagandistica. Non troppo differente da quelle nate in periodo di crociate e che diedero vita ai già sin troppo menzionati cicli.

Il punto è che si voleva metter paura al cittadino europeo e farlo schierare dalla parte cristiana. Si diceva, qualche giorno addietro, che i Comunisti mangiassero i bambini, quando già si sapeva – per l’esperienza e per bocca dei capitalisti – che fossero invece difficilmente digeribili, peggio dei peperoni crudi.

Fortunatamente, le tradizioni folcloristiche non abbisognano di veridicità storica e per tal motivo ben vengano sempre!

Calvino dice “Nell’immaginazione dei poeti – e prima ancora nell’immaginazione popolare – i fatti si dispongono in una prospettiva diversa da quella della storia. La prospettiva del mito.

E fu proprio questo che come una anguilla sgusciò dalle mani dei potenti di allora: l’immaginazione popolare. Mi rendo più chiaro con un esempio: quando le famiglie del popolo, ancor prive di televisioni, si riunivano per sentir lo zio Cicco di turno che recitava a memoria i duelli dei paladini, c’era sempre tra il pubblico chi prendeva le parti di Rinaldo, ma c’era anche chi patteggiava per Ferraù il moro. Nel racconto dello zio Cicco la vittoria non era mai scontatamente cristiana.

E chissà quanti sciclitani, come me, ogni anno presenti alla rievocazione del fatto d’armi avvenuto nel 1091 (Maria re Mulici), avranno detto scherzosamente: “Chissà che quest’anno non vincano i turchi!” e alla fine deludente della rappresentazione teatrale: “A se nunn’era ppa Maronna, quannu haiana vinciri i normanni!?!”.

Insomma è innegabile la simpatia per i mori, da parte del ceto più popolare (e desideroso di riscossa). I Cunti riguardanti quei duelli sono stati il diversivo dei nostri bisnonni. Un bel gioco basato sull’attenzione di due tifoserie contrapposte. E di questo regalo dobbiamo ringraziare anche e soprattutto Ludovico Ariosto, capace di riportare sulla terra tutti questi personaggi – paladini di Francia e cavalieri mori – rendendoli umani, coi loro bisogni, gli sbagli irragionevoli, le stupidità e le incoerenze.

Uomini relazionali, quelli dell’Ariosto, privi di caratterizzazione psicologica. Personaggi che si fanno solo nel rapportarsi con gli altri personaggi. Questo è il realismo immaginativo. Un bellissimo e divertente scherzo che è molto simile al quotidiano vivere razionale.

Ma devo finire di commentare l’ottava, o da questo schermo non ci scolleremo più. Come non può starci simpatico Agramante, Re dei mori d’Africa, infuocato da ire e giovenil furori? Un giovane garbatamente incazzato è sempre simpatico! Preciso sul “garbo” perchè non vorrei giustificare il primo giovinastro bulletto di turno. Per ora credetemi sulla parola, Agramente è picciotto apposto.

Ma ci mettiamo anche dalla parte del suo esercito, quello mai raccontato, non quello dei cavalieri, ma della soldataglia. Intendo dire, chiaro che Agramante – al quale Orlando aveva ucciso il padre Troiano, in una battaglia sull’Aspromonte (in Calabria) – avesse dei buoni motivi per essere in ira…ma quella povera gente che c’entrava? Pensate che siano stati ben lieti di attraversar il mar d’Africa? Hmhmhmh, ne dubito, credetemi. Anche dal modo in cui lo scrive l’Ariosto, il quale ci dice che ‘sti poveracci seguirono l’ire e i giovenil furori (ottime scusanti fino ad un certo punto). È palpabile una certa costrizione a seguir per forza questo lor re, ecco la verità. Sembra quasi che qui l’Ariosto stia scrivendo in favore della parte dei mori. Eh, caro lettore, dovrai abituarti al rapido cambio di campo da parte del nostro amico poeta. Anche lui, ascoltando zio Cicco, patteggia una volta per uno, una volta per l’altro. E poco importa che Agramente è fiero erede di Alessandro Magno (uno dei pochi tiranni conquistatori che nella storia è stato capace di rendersi unanimemente simpatico a molti lettori).

Ludovico parla chiaro: si diè vanto di vendicar… dice. E chi si dà vanto non è che sempre riesca tanto! Perdonatemi, fare la rima è stato più forte di me. In un certo senso però, quando Ludovico aggiunge sovra re Carlo, imperator romano, sembra quasi di sentirlo paternalmente: “Ma contra ccui ti mintisti, figghiu miu?!? U capisciu ca c’hai macari raggiuni, ma u sai cu iè Re Carlo? Cu ti cci purtau?!? Mah, spiramu cu nun ti fai dannu!!! Sta attentu!!!”.

Cose dette con un largo sorriso, poichè in fondo è solo un gioco. Un gioco della follia, direbbe Erasmo da Rotterdam.

Questa è la prima ottava, dove solo uno dei temi principali è stato espresso: la guerra tra Re Carlo e i Mori d’Agramante (e l’ancor taciuto Marsilio). Sì, certo, è stato fatto anche un elenco di sottotrame (siamo nell’ambito di strutture e sovrastrutture, dicevo all’inizio), ma per gli altri due temi portanti, bisognerà attendere la prossima ottava.

continua…

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