Magazine Racconti

Prodigio (Racconto onirico VIII)

Da Bruno Corino @CorinoBruno

W. Blake, Il vortice degli amanti
Scissioni... Nonostante la cucina fosse piccola, riuscimmo lo stesso a raccoglierci intorno al focolare. Io preferivo rimanere in piedi con le spalle rivolte verso il caminetto. Sulla mia sinistra s’era seduta Francesca, a destra Armando con a fianco mio fratello; in mezzo a Francesca e a mio fratello, c’era Cecilia. Dietro, alle loro spalle, avevamo disposto sopra il piccolo tavolo i bicchieri e i piatti della torta. Mio fratello stappò lo spumante e con i calici in mano facemmo un altro brindisi. Anche se le due ragazze avevano bevuto poco, rispetto a noi, si respirava nell’aria uno stato di effervescenza. Ravvivai il fuoco buttandoci sopra qualche pezzo di legna secca, poi mi accesi una Sanbenitos, e cominciai a buttar fuori il fumo. Pensavo a ciò che mio fratello mi aveva detto un momento prima, mentre stavamo sparecchiando, prendendomi in disparte. Mi aveva fatto intendere che le mie ultime osservazioni l’avevano un po’ allarmato. Aveva timore che volessi fare accenno a quanto m’era accaduto nelle notti precedenti. Lo rassicurai, dicendogli, sì, è vero, mi sentivo un pochino strano, ma ciò lo addebitavo al vino, e in ogni caso non avevo dimenticato la promessa fatta al mattino.
Il fatto era che quella fragranza, che per tutta la serata mi accompagnava, agiva su di me in modo inspiegabile; non era, in realtà, come avevo voluto far credere a Domenico l’effetto del vino a risvegliare in me quei pensieri; ma come avrei potuto spiegargli, in quelle circostanze, che era il profumo del corpo di Cecilia a scatenare  quelle riflessioni che finivano col sorprendere persino me stesso? O che percepivo la stessa fragranza delle notti scorse? E come facevo a dirgli che quella ragazza aveva addosso un effluvio particolare, che quando arrivava al mio olfatto provocava una metamorfosi al mio essere? Mi trovavo nelle stesso stato animo della sera di zio Giovanni, quando alla fine me ne uscii con quella frase enigmatica, che neanch’io compresi, con la differenza però che in quella occasione persino la mia voce m’era apparsa estranea, diversa, mentre ora lo erano soltanto le riflessioni che all’improvviso si cristallizzavano nella testa.
Quando intorno si ristabilì una certa calma, reggendo nella mano il calice dello spumante, Armando mi sollecitò dicendomi: «Allora, Giordano, parlaci del tuo racconto!». Aspirai un’altra boccata di fumo, e poi dissi: «Ancora non ho un’idea precisa su come svilupparlo…». «Ma di cosa parla?» Domandò Francesca. «Di un amore impossibile tra una donna sposata e un Vicario dell’inquisizione…». Vidi mio fratello che cominciava ad agitarsi sulla sedia, gli diedi un’occhiata per fargli capire di stare tranquillo e che non dimenticavo la promessa. «Un vicario?» Domandò Francesca: «Sarebbe a dire?». «Un vicario», spiegai, «è chi fa le veci di un’autorità in sua assenza o quando è impossibilitato ad esercitare direttamente il potere. Al tempo dell’Inquisizione, in ogni provincia c’era un Procuratore generale che affidava ai suoi vicari la giurisdizione delle singole città…». «Ma dove e in che epoca ambienterai questa storia?» Mi chiese ancora Francesca. «Diciamo che l’epoca l’ho precisata, più o meno si dovrebbe svolgere nei primi decenni del Seicento, quando i Tribunali dell’Inquisizione cominciano a ponderare con più prudenza i casi di stregoneria o di eresia», risposi aspirando un’altra boccata di fumo, poi incrociando lo sguardo di Cecilia, aggiunsi: «Il luogo, invece, è ancora vago…». «Perché non l’ambienti in Toscana?» Mi suggerì Cecilia.
Aveva appena, appena finito di pronunciare il nome di questa regione, quando mi capitò la cosa più prodigiosa di tutta questa vicenda! Assistevo in presa diretta a una vera e propria scissione. Spiegare questo fenomeno così straordinario ed eccezionale, confesso che è la cosa più difficile che finora mi sia capitato. Qui non basta invocare le Muse per riuscire a descrivere quanto mi stava accadendo, ma mi devo lasciare alle spalle tutte quelle certezze a cui, fino a quel momento, avevo ancorato la mia esistenza. Dunque, nel momento stesso in cui Cecilia aveva terminata la sua frase, il mio cervello sembrava come se si fosse scisso in due dimensioni: la prima comprendeva la piccola cucina dove in piedi stavo parlando, la dimensione reale di quel momento; se chiudevo per un istante gli occhi alla mia immaginazione si sarebbe presentata quella scena; allo stesso tempo, però, era in grado di vedere, sempre con l’immaginazione, un’altra dimensione, un’altra scena; mi trovavo, per fare un paragone, nella condizione di chi riesce a parlare perfettamente due lingue senza generare mai confusione tra loro. Anch’io, infatti, distinguevo perfettamente le due dimensioni.
La scissione della mente, inoltre, riguardava anche il ritmo diverso delle percezioni; quando a parlare era Cecilia, i ritmi della percezione risultavamo raddoppiati: con una parte del cervello sentivo pronunciare le sue parole con lo stesso tono che avevo ascoltato sino a quel momento, e con lo stesso ritmo con cui anche gli altri la sentivano; con l’altra parte, invece, percepivo il movimento rallentato delle labbra, e sentivo la stessa voce melodiosa della donna che avevo ascoltata nella notte precedente. Inoltre, quel movimento rallentato della bocca aveva il potere di proiettare, nell’altra zona del cervello, delle immagini. A quel punto, un’altra parte del cervello si stava chiedendo quali delle due dimensione fosse quella reale. Era come se la realtà si fosse frammentata nelle sue sequenze spazio-temporali e avesse perso i suoi nessi logici. Le immagini arrivavano alla mente distanti l’una dall’altra, e si presentavano distintamente nel mio campo visivo, in cui ero contemporaneamente presente, allo stesso modo in cui erano contemporaneamente presenti alla mia coscienza.
«Allora? Ti sei imbambolato?» Mi sollecitò ancora Cecilia in quella duplice valenza di ritmo e di tono. Io ero rimasto come sospeso e assorto tra due realtà, e non sapevo sul momento cosa fare. Nella mente m’era apparsa una cittadina che poteva somigliare a San Gimignano o San Miniato, con le sue antiche torri, il Duomo con il massiccio campanile, il mercato, la piazza attraversata da carrozze che sollevavano al loro passare una nuvola di polvere, gente dalla foggia dell’epoca, le botteghe con le insegne esposte… dico che poteva somigliare, perché io non sono mai stato in quei luoghi, non li ho mai visti come li vedevo in quel momento; avevo una rappresentazione di quella cittadina allo stesso modo in cui in questo istante potrei rappresentarmi la piazzetta del mio paese; non una scena particolare, legata a un ricordo preciso, bensì una rappresentazione sintetica di tutte le scene racchiuse nella mia memoria…
Osservavo Armando, mio fratello, Francesca per notare in loro un minimo cambiamento, una lieve sfumatura, se anche in loro la percezione della realtà si fosse modificata, e osservavo anche Cecilia per capire se fosse consapevole del suo sdoppiamento; ma tutto mi appariva come al solito… «Sì», dissi, gettando il filtro della sigaretta nel fuoco, ch’era rimasto appeso tra le dita, «potrebbe essere una cittadina toscana… lei era sposata a un ricco mercante di quella città… lui, invece, era un frate francescano intorno ai trentacinque anni…». Non so dire se i presenti avessero letto nei miei gesti e nelle continue esitazioni un comportamento singolare o se avessero percepito il mio turbamento interiore; forse, mio fratello qualcosa presagiva, forse aveva intuito che io ero vittima di qualche sortilegio, ma ormai mi sembrava del tutto rassegnato a non porsi più tante domande. «Come si sono conosciuti?» Domandò Armando. «A questo ancora non ci ho pensato…» Risposi io. «Forse il loro amore era il frutto di un ricordo adolescenziale…» Disse Cecilia; e di nuovo, come era accaduto durante il primo intervento un’altra immagine apparve nella mente: vedevo una ragazza adolescente camminare per strada accompagnata da una donna anziana; ebbi un sobbalzo…
«Che ti succede?» Mi chiese qualcuno. «Niente, niente», dissi io, riprendendomi dall’emozione: «Cecilia mi ha dato un’idea brillante che mi ha di colpo illuminato!». «Diamine! Vedi che avevo ragione?». La guardai sorridendo, un sorriso che altri potevano interpretare come segno di gratitudine per ciò che mi aveva suggerito, ma il mio sorriso non era rivolto a lei, ma all’altra, a quell’altra che non capivo per quale via arcana parlava ora attraverso le sue labbra. Avevo visto nella mia mente la donna anziana bellissima, che stava insieme alla bambina della prima apparizione. Aveva soltanto una ventina di anni in meno, ma era lei, proprio lei… presentava lo stesso aspetto ieratico che mi aveva colpito in quella sera, ma nella nuova circostanza quell’aspetto era mitigato da un’aria soave, ilare, come se quella donna non avesse ancora conosciuto eventi tragici che avrebbero lasciato sul suo volto una maschera di incancellabile mestizia. Questa donna accompagnava una ragazza con un velo nero sul capo e insieme si dirigevano verso il Duomo, alle cui spalle un campanile alto e massiccio proiettava una lunga ombra. E poi vidi un ragazzo, esile, impacciato, che inciampava su un ciottolo, e che strappava un sorriso alla ragazza. La governante e la ragazza gli sono passati accanto, lui rimane fermo, imbarazzato, con gli occhi fissi nella polvere, a rimirare quel ciottolo maledetto, ma non appena lei si allontana, all’improvviso si gira e lancia al ragazzo uno sguardo fugace ma carico d’amore, il volto del ragazzo s’accende, s’illumina, e la sua felicità è all’apice…
Ora cominciava a capire: in quei sorrisi, in quegli sguardi accennati c’è iscritta tutta la loro tenera storia d’amore. E cominciavo a capire anche un’altra cosa: l’altra mi guidava attraverso le labbra di Cecilia. Vedevo, infatti, i loro destini, i loro percorsi… «Dunque», continuai, «i due nell’adolescenza erano segretamente innamorati, in seguito lui fu mandato in un convento francescano, come accadeva a tanti figli della piccola nobiltà dell’epoca, e lei dopo qualche anno finì con lo sposare un mercante…». «Come li chiamerai?». «Fiorenza ed Egidio…», dissi: «Dopo qualche anno la loro piccola storia d’amore non fu che un ricordo del passato; Fiorenza era tutta dedita alla casa e alla famiglia, Egidio prese i voti, diventò un frate francescano e cominciò a far carriera nel Tribunale dell’Inquisizione. Divenne, infatti, un inquisitore coscienzioso e preparato. Non c’era libro o manoscritto sull’argomento che lui non avesse letto…». «Ma gli inquisitori non erano domenicani?» Osservò mio fratello. «Non sempre, caro Domenico, non sempre…» Dissi. «Perché non ci parli anche del Procuratore generale?» Chiese Cecilia. «Il Procuratore generale?» Domandai come colto completamente alla sprovvista. «Credo che in questa storia avrà avuto un ruolo importante!» Disse tranquillamente Cecilia. «Un ruolo importante?» Facevo la figura dell’ebete, ripetendo a quel modo le parole di Cecilia, ma non avevo altra scelta, finché nella mente l’immagine non si materializzasse e non potessi interpretare i suoi suggerimenti. Vedevo il profilo di un uomo coperto con una mantellina bianca, e un copricapo della stessa foggia; stava ritto, in piedi, davanti a due uomini incappucciati, volti anonimi, chini, che vergavano con una penna d’oca alcune note su uno scranno massiccio su cui stavano dei grossi libri aperti; l’uomo con la mantellina aveva il braccio destro alzato e l’indice puntato in alto; da una finestra ad ogiva un fascio di luce penetrava e colpiva direttamente la sua faccia, e faceva risaltare il bianco di quella pelliccia; forse stava dettando un’accusa; ma non vedevo altro e quindi non capivo altro…
Allora volli domandare direttamente a lei: «Perché, secondo te, questo Procuratore dovrebbe avere un ruolo importante?». «Perché, secondo me, è la chiave del loro tragico destino!» Rispose Cecilia. «Questa potrebbe essere un buono spunto!» Osservò Francesca. «In che modo, possiamo tirare in ballo questo personaggio?» Chiese perplesso Armando! «Questa, Giordano, è una storia di segreti!» Rivelò Cecilia. La parola ultima pronunciata aveva scatenato nella mia mente una tempesta di immagini. Avevo bisogno soltanto di un attimo di tempo per tradurla in parole, ma ormai la trama era chiara, ordinata, precisa. «Scusate», dissi, «ma ho la gola secca, forse ho fumato qualche sigaretta di troppo stasera…». «Sanbenitos…» Lesse Armando, prendendo il pacchetto sulla ciminiera: «Che sigarette sono? “Mady in Argentina”…». «Ma tu come fai a conoscere i particolari di questa storia…». Disse Francesca a Cecilia, sospendendo la domanda tra le labbra, come se fosse stata colta dal sospetto improvviso che tra me e Cecilia ci fosse una frequentazione precedente a questa serata, come se avessimo avuto io e lei già occasione di parlare di questa storia. «Ma che diamine, ragazzi! Non ci vuole mica tanta immaginazione per capire alcune cose!». Il tono di voce di Cecilia e il suo movimento delle labbra avevano ripreso il loro ritmo normale, come se il suo compito fosse ormai stato assolto. Diedi un’occhiata a Francesca: quel sospetto, che per un attimo le aveva attraversato la mente, s’era dileguato. Cecilia, infatti, appariva del tutto naturale nelle sue risposte, e ignorava completamente quanto era successo…
«Beviamo un altro po’ di spumante…». Propose mio fratello; e andò a riempire i bicchieri sul tavolo; ora che le cose mi erano chiare, ebbi anch’io un fremito di rabbia e di indignazione; la storia, che si snodava nella mia mente, non era una storia a lieto fine, era una storia tragica… tutto pensieroso e cupo strinsi il bicchiere che mio fratello mi aveva offerto. Questa storia, infatti, era una storia intessuta di segreti… Le immagini del passato erano apparse alla mia coscienza in modo sconnesso, come se avessi visto una serie di fotogrammi in cui risultava assente la sequenza temporale, per cui in un primo momento non mi era facile ricostruire lo sviluppo della trama; tuttavia, una volta che le avessi messe in ordine nella mia mente, il processo temporale delle immagini cominciava a delinearsi. Le immagini, infatti, andavano a formare tre blocchi di azione, costruite intorno ai tre segreti che ogni personaggio custodiva nella propria coscienza.
M’era apparsa l’immagine di un uomo torturato e tormentato nell’animo; era un frate francescano, che pregava in ginocchio sotto una croce, come se chiedesse perdono per i suoi peccati; in un’altra immagine vedevo un gruppo di persone intorno a un tavolo; la stanza era in penombra, in alto da un foro arrivava un raggio di luce che illuminava il viso di una donna; al centro della stanza c’era un vecchio, in piedi, che con le mani congiunte, toccava con le punta delle dita il raggio di luce mentre si proiettava sul viso della donna; poi, ho visto il frate prosternato davanti all’uomo con il mantello d’ermellino; si stava confessando; vedevo le mani dell’uomo con il mantello dare una assoluzione; il francescano volgeva lo sguardo al cielo; poi ho visto la donna quasi nuda sulla rastrelliera, in una camera di tortura, e l’orrenda figura mascherata del carnefice, e degli uomini incappucciati che annotavano ogni movimento delle sue labbra; ho visto una casa in fiamme; e ho visto l’uomo dalla mantellina sorridere di un riso diabolico, la sua bocca lasciva, le labbra penzolanti come due molluschi; e ho visto la donna e il vecchio delle mani congiunte, con indosso un abito giallo, su una carretta… e il frate appeso che oscillava lieve da una corda…
«Alumbrados…». Pronunciai a un certo punto, come se mi fossi ridestato da uno stato di trance. «Cosa hai detto?» Sentivo una voce domandare. «Alumbrados…» Ripetei. Non so come quella parola fosse affiorata o sgorgata dalla mia mente; non saprei dire in che luogo l’avessi letta, e in che tempo. Era come se fosse rimasta sepolta nella memoria, e all’improvviso fosse affiorata. Nel preciso istante in cui la pronunciai conoscevo il senso che aveva in quella storia. «Gli Alumbrados», spiegavo ai presenti, «erano convinti di possedere un’illuminazione dello Spirito Santo che consentiva loro di cogliere per visione diretta l’essenza di Dio e di partecipare alla sua vita intima ed ineffabile… attraverso l’annichilimento dei sensi, l’anima poteva udire la parola di Dio…»; feci una pausa: «Da noi erano conosciuti come quietisti… secondo il loro credo mistico il rallentamento delle percezioni, cioè dei sensi, apriva l’anima a una visione illuminata dello Spirito… i loro esercizi spirituali consistevano nell’annullare il più possibile le sensazioni del corpo per intensificare quelle dello spirito… cercavano la luce interiore e hanno ricevuto quelle delle fiamme…».
«D’accordo», obiettò mio fratello, «ma non capisco perché a quest’ora ci vieni a parlare di queste cose…». «… perché la mia storia parla di questa setta quietista… Fiorenza, dopo molti anni, quando rivide l’amore della sua adolescenza, che, nel frattempo, era diventato un inquisitore, cioè un persecutore della sua fede, scoprì che quell’antica passione s’era conservata intatta nel suo cuore e amò il frate con tutte le sue forze… anzi, entrambi furono travolti da quella passione turbinosa… ma Fiorenza non rivelò mai il segreto della sua iniziazione…». «Ma s’erano entrambi così religiosi, ognuno a modo suo, come riuscivano a conciliare il loro amore con la fede?» Domandò Francesca. «Infatti, il frate francescano viveva la sua condizione peccaminosa tormentando la coscienza… fustigando i sensi… non trovando pace al suo senso di colpa; gli alumbrados credevano a una condizione di impeccabilità, per cui qualunque atto commettessero, anche se si trattava di un atto di libidine, non poteva venir loro imputato, in quanto era da ritenersi una prova del Maligno, da Dio permessa… perciò Fiorenza non si sentiva affatto tormentata dal senso del peccato…».
«E poi cosa accadde?» Domandò Cecilia quasi trepidante. «Accadde che un giorno il frate vicario, sempre più schiacciato dal peso della sua colpa, confessò i suoi peccati al Padre Procuratore…». Ero stanco di stare in piedi, mi sedetti accanto ad Armando, guardai a lungo le fiamme del caminetto, e avvertivo in quella stretta cucina un’aria di imbarazzo, come se non riuscissero a spiegarsi la causa del mio improvviso mutismo, ma non avevano il coraggio di interrompere quella mia meditazione assente…
«Poi accadde ciò che il frate non si aspettava: il Padre Procuratore accusò la donna di essere una serva del demonio… di essere un’eretica… aveva corrotto alcuni suoi servitori e scoperto la setta… la fece torturare, fece scattare il reato di recepito, o accoglienza, e fece bruciare la sua casa… e questo fungo velenoso fece tutto questo quando scoprì il suo vizio segreto: la confessione del frate aveva scatenato in lui una gelosia folle… il Procuratore provava per il suo pupillo un’attrazione illecita, ma prima della confessione tale attrazione era rimasta latente… soltanto quando il suo superiore ascoltò il suo delfino parlare d’amore nei confronti di quella donna, egli fu accecato dalla gelosia e dall’odio… e non ebbe pace finché non la mandasse al rogo insieme a tutti i suoi accoliti e al loro maestro…».
«E il frate che fine farà?» Domandò Francesca. «S’impiccò…». «Devo dire che come storia mi è piaciuta, però, secondo me, dovresti cambiare il finale; fai, ad esempio, che il frate farà di tutto per salvare la sua amata…» Disse Armando. «Purtroppo», dissi io mettendogli una mano sulla spalla, «non siamo noi a scegliere il finale di partita, ma lo decidono gli sviluppi del gioco…».
continua...


Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :

Magazines