Magazine Diario personale

Produttività, salari, occupazione

Da Gabriele Damiani
Verso la fine del Settecento – per l’esattezza a far tempo dal 1776 – Adamo Smith insegnò ai suoi contemporanei, come anche alle generazioni future, che la causa della ricchezza delle nazioni risiede nella divisione del lavoro.Grazie alla divisione del lavoro cresce infatti la quantità di prodotto per lavoro impiegato. Ossia, se più vi aggrada, cresce la produttività. Vale a dire il valore della produzione per addetto.Nel lungo periodo gli effetti dell’aumentata produttività sono stati socialmente strepitosi. Il popolo lavoratore, come lo si chiamava un tempo, ha smesso di morir di fame e d’essere sfruttato dai biechi capitalisti. Il salario reale ha superato il livello di mera sussistenza e l’orario di lavoro si è accorciato di quasi la metà. Le profezie ottocentesche di un barbuto filosofo tedesco, che molti avevano scambiato per oro colato, sono così diventate risibili elucubrazioni di un miope storicista.Nel lunghissimo periodo l’accresciuta produttività ha dunque consentito un miglioramento consistente delle condizioni di vita dei lavoratori dipendenti. E’ un fatto positivo che non va messo in discussione in nessun modo. La crescita della produttività può però presentare un aspetto negativo. Se difatti la produttività sale più della domanda aggregata, cioè del totale della spesa in beni di consumo e in beni d’investimento, si verificherà uno spiacevole aumento della disoccupazione.Negli ultimi decenni si è provveduto a contrastare la disoccupazione per mezzo di politiche economiche di sostegno della domanda aggregata attraverso un aumento della spesa pubblica. Tuttavia il salire delle spese statali ha alla lunga prodotto, come contraltare, un aumento della pressione fiscale. Ossia qualcosa di sfavorevole ai produttori. Dunque, agli investimenti. Dunque, alla domanda di lavoro.Ciò spiega perché il pieno impiego sia diventato una chimera. Un sogno irrealizzabile.Viviamo così in una situazione paradossale. Redditi pro capite tanto alti da non conoscere uguali nella storia si accompagnano a una disoccupazione alta e insopprimibile. Qualcosa, perciò, non funziona.Posto che la disoccupazione rappresenta la maniera più brutale per peggiorare la distribuzione del reddito, va da sé che ogni misura atta a ridurla debba essere ricercata a pié sospinto.La soluzione, in un’economia di mercato aperta agli scambi internazionali di merci, capitali e forza lavoro, è una sola. Gli ingenui potrebbero forse credere che essa consista nel ridurre i salari. Ma questo convincimento è falso. La riduzione dei salari avrebbe quale effetto la discesa dei consumi, quindi degli investimenti, quindi della domanda di lavoro. Tradotto in soldoni, la disoccupazione aumenterebbe. Affinché la riduzione della domanda interna dovuta al calo dei consumi sia più che compensata da un incremento delle esportazioni bisognerebbe infatti far scendere il costo del lavoro al livello dei paesi del terzo mondo. Impossibile.Per spingere le aziende a investire, e a impiegare quindi quantità aggiuntive di forza lavoro, è invece necessario ridurre in misura vistosa la pressione fiscale. Troppe tasse falcidiano i profitti, che sono il motore degli investimenti, e deprimono i consumi. Se le prospettive economiche rimangono negative perché il governo taglieggia investitori e consumatori, le imprese si trasferiscono all’estero e il numero dei disoccupati si moltiplica.Tutto ciò, nell’ultimo lustro, si è verificato nei paesi dell’Europa mediterranea, ai quali i tedeschi, al fine di danneggiarne gli apparati produttivi, hanno imposto politiche economiche procicliche. I tedeschi conoscono bene l’economia e sanno che più tasse significa più povertà.Volete diventare più poveri? Chiedete ai politicanti che vi governano di aumentare le tasse.Amen.

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