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Psicopatologia degli oggetti quotidiani

Da Miwako

PSICOPATOLOGIA DEGLI OGGETTI QUOTIDIANISorseggio da una vecchia tazza il routinario orzo caldo di cui avrete letto spesso se passate di qui. Quando rientro a casa dopo una serata passata fuori, in compagnia, ho sempre voglia di qualcosa di caldo. Evito giusto nelle nottate afose e affannose di piena estate, ma per ora, che la notte è ancora notte e la calura è ancora quella timida e altalenante dei primi di giugno, la consueudine mi tiene compagnia in queste tazze che appartengono più a questa casa che a me. Questa in particolare è grande e triste, quasi fa tenerezza nella sua irrimediabile bruttezza. E' giallo tenue, dipinta a pennellate casuali, pallide e disomogenee; un gruppo di fiori mal stilizzati decora una chiazza bianca lasciata appositamente a sinistra e a destra del manico ad ansa; una lunga cicatrice la solca verticalmente dal bordo fino al centro, conferendole quell'aria da sopravvissuta alla "Guerra dei Roses" che, in maniera incomprensibile pure a me che sto per scriverlo, è quasi piacevole. In realtà, credo che la misura in cui è piacevole, sia la misura in cui solo a casa propria, una tazza rotta, sbeccata, incollata, può risultare piacevole. Nell'ordine della familiarità delle cose, ecco. Penso che l'unico motivo per cui riesco a mantenere il grado necessario di distacco per affermare che è oggettivamente brutta,  sia il fatto che non mi appartiene. Se fosse realmente mia, se ce l'avessi portata io in questa casa, invece di trovarla qui, già sfigurata, le cose sarebbero diverse.
Credo che ognuno di noi, abbia oggetti brutti, rotti, malfunzionanti, da cui però non si vuole separare. E non mi riferisco al baule divorato dai tarli, dono della trapassata bisnonna, troppo facile. Mi riferisco a cose casuali, arrivate nelle nostre mani chissà per quali vie traverse, cui ci siamo affezionati chissà per quali motivazioni perverse; sto parlando di quel porta-spazzolini obsoleto, graffiato ovunque e che sul fondo ci cresce pure la muffa se non lo lavi una volta ogni due giorni; di quella pentola oscena il cui rivestimento esterno è stato completamente annerito dal fuoco; di quel barattolo del caffè di rara bruttezza che non ricordiamo nemmeno in preda a quale raptus sia stato acquistato. Oggetti che nessuno ci ha regalato, che non ci legano a qualcuno in particolare, che non sono belli e la cui funzionalità diminuisce col passare dei giorni, oggetti insignificanti, verrebbe da dire. E invece no. Noi, noi umani, noi esseri superiori, attribuiamo significato a tutto. 
La suocera ci regala (incredibilmente e) finalmente qualcosa di utile: un set di tazze da the, semplici, carine, comode e indistruttibili, che stanno alla giusta distanza tra il servizio in porcellana coi cherubini ereditato dalla trisvola (tenuto sotto apposita teca in vetro antiproiettile e sorvegliato da un boa constrictor), e quegli obrobri  sbeccati nel giro di una settimana, comprati di fretta dai cinesi il giorno prima che arrivassero gli amici dalla Basilicata per vedere la nuova casa, e noi cosa facciamo? Esultiamo per le nuove tazze ma quelle vecchie non le buttiamo, nossignore. LE METTIAMO DA PARTE, che non si sa mai. E' altamente probabile che non vedranno mai più una goccia di the, o di qualunque altro liquido, quelle tazze; eppure le teniamo la, in quella credenza in cui abbiamo ammassato una quantità e varietà di cose che negli anni abbiamo usato, che ora sono inservibili per qualsivoglia motivo, ma che fanno silenziosalemte (e il più delle volte inconsapevolmente, per loro e per noi; per loro è pure normale, per noi anche no) il loro dovere : contano il tempo. Il tempo che passa ma che non abbiamo mai lasciato andare completamente, il tempo che non riusciamo a trattenere e facciamo finta di poter misurare, il tempo che fu, che ora non è più, ma che quei cocci, in qualche modo, ci danno l'illusione di poter richiamare, quasi palpabile, quasi vicino, quasi reale. 
A pensarci bene, è affascinante, triste, romantico, decadente, realizzare come ci attacchiamo inevitabilmente agli oggetti per simulare una continuità, per aggrapparci disperatamente ai giorni che ci sono filati inevitabili tra le caviglie come l'acqua di un torrente di montagna, per fingere di possedere una connessione materiale con quelli che eravamo anni fa, quando dovevamo stare attenti a dove appoggiavamo la bocca per evitare di tagliarci, con quelle tazze malconce.A pensarci bene, è troppo tardi anche per me e questa tazza brutta e triste. Innanzi tutto perchè ho un debole per le tazze in generale; in secondo luogo perchè lei vede la mia bocca come io vedo la sua cicatrice da cinque anni buoni ormai, e questo le da diritto ad entrare a pieno titolo nella sfera dei miei oggetti quotidiani. Mi dispiacerà lasciarla quando me ne andrò di qui.Il romanticismo violento che mi assale in certe notti mi fa lo stesso effetto della febbre alta; mi da i brividi, le vertigini e mi porta a delirare. Seriamente. Come sono stupida.


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