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Psyco contro Psycho: la Forza Distintiva dell’H!

Creato il 23 luglio 2013 da Dietrolequinte @DlqMagazine

Mario Turco 23 luglio 2013 Psyco contro Psycho: la Forza Distintiva dell’H!

Per una volta ci cospargiamo il capo di cenere e rendiamo giustizia alla lungimiranza dei distributori italiani. Quando nel 1960 lo Psyco di Sir Alfred Hitchcock fu portato nelle sale gli anglofoni addebitarono a un madornale refuso o, peggio ancora, a un inspiegabile ottundimento mentale la sincope della lettera h dal termine americano. Fu invece con il più lungimirante degli sguardi che essi previdero la possibilità di un remake che dovesse distinguersi dall’originale già dal suddetto carattere. Sarcasmo a parte, potremmo fare di questo inopinato assist la pietra angolare di una riflessione sulla costituzionale impossibilità di qualunque film a essere riprodotto in una copia carbone. Gus Van Sant infatti con il suo remake shot-for-shot (inquadratura per inquadratura) Psycho del 1998, girato quasi quarant’anni dopo quello del maestro inglese, ha sollevato un’ulteriore, interessante questione critica su una modalità di fare cinema massicciamente preponderante nella Hollywood degli ultimi anni. È degno di nota come questo esperimento stilistico foriero di spunti analitici sia venuto proprio da un autore che nella sua filmografia alterna coscienziosamente drammi indie quali Paranoid Park o Elephant (a nostro parere un po’ sopravvalutati) ad afflati retorici quali Will Hunting e Scoprendo Forrester. Il lungometraggio di Van Sant funziona quasi esclusivamente come cibo per i gourmet-critici poiché perde già dagli intenti il suo carattere fruitivo per il grande pubblico.

Psyco contro Psycho: la Forza Distintiva dell’H!

Le grandi case di produzione, in ciclica ricerca di denaro da fagocitare nelle sale, sopperiscono alla latitanza di nuove storie spacciandone alcune vecchie (quelle meno famose) come spose inviolate. Ciò che interessa loro è calamitare la stragrande, ignorante (nessun tono denigratorio, si capisce) e pagante massa verso le casse offrendo loro uno spettacolo che valga quella scelta. È la predominanza della sala sulla TV: il cinema va gustato nella sua esperienza straordinaria, unica, irripetibile, come se fosse ancora una lanterna magica, un balocco per bimbi pronti a lasciarsi incantare dalla magnificenza di mezzi e dalla sortita esotica. Finora ha quasi sempre funzionato così: una legge non scritta della fabbrica dei sogni dice che trascorso un lasso di tempo ragionevole tutto può essere rimasterizzato e presentato sotto una pellicola virginale. Fino al 1998 anche i classici furono soggetti a remake, come lo Scarface di Howard Hawks riportato a nuova vita da Brian De Palma. Nonostante la loro caratura perfino questi soggetti cadevano infatti nel vischioso dimenticatoio della massa e la loro riproposizione veniva però affidata a registi di forte successo contemporaneo accompagnati dalla presenza di divi stellari.

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Lo Psycho del 1998 ha invece rappresentato il primo caso di remake di un tòpos sia critico che pubblico, di un elemento fondante dell’immaginario cinematografico creato da «il più grande creatore di forme del ventesimo secolo», come definisce Jean-Luc Godard il buon zio Alfred. Gus Van Sant, autodichiaratosi affluente alla corrente dei peana tributata ad Hitchcock dai critici dei Cahiers du Cinéma e dai registi della Nouvelle Vague, sceglie un approccio squisitamente ortodosso, quasi devoto, colmo di un rispetto filiale. Nella sua opera cerca infatti di attuare uno strano ibrido di cinema replicante che, lo ripetiamo, proprio in virtù del suo insuccesso e delle sue contraddizioni, gemma riflessioni ad hoc. Innanzitutto bisogna chiarire l’equivoco principale: non si tratta di una copia perfetta e, nonostante alcune dichiarazioni rilasciate dallo stesso autore (si veda tra le tante quella del documentario di Mark Cousins, The Story of Film), né vuole esserlo. Per gran parte della pellicola assistiamo a una virtuosistica messa in scena che riempie di stupore lo spettatore per similarità con l’originale sia per tagli di montaggio che soprattutto per scenografia e commento musicale.

Psyco contro Psycho: la Forza Distintiva dell’H!

Ma la scelta di Gus Van Sant di omaggiare tra i tanti capolavori de “il maestro del brivido” proprio questo si spiega sin da subito con il fascino che il tema della dualità esercita sulla sua personalità. Il regista americano è fecondamente lacerato dalla tensione di misurarsi con il proprio idolo e al contempo dall’esigenza insopprimibile di deviare da quel dettato per approfondire alcuni temi che gli stanno particolarmente a cuore. In alcune scelte stilistiche si intravvede addirittura la voglia dell’allievo di superare il maestro, di andare oltre i limiti logistici, di budget e di censura del tempo. La scelta del colore innanzitutto: ovvio che una major americana non avrebbe permesso un tale azzardo a un prodotto già gonfio di problematicità come questo (il bianco e nero paradossalmente avrebbe fatto lievitare i costi). Ma se azzardiamo un’ipotesi possiamo anche scorgervi il tentativo di colorare la storia di Norman Bates, espressionisticamente dimidiata in due tragiche dimensioni nell’originale del 1960, di tutta l’ambiguità pastello del postmoderno. La fotografia satura, ustoria negli esterni e gotica negli interni, vuole spiazzare lo spettatore e non permettergli un facile avvicinamento empatico con il thriller.

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Van Sant decide di usare tutti i mezzi tecnici del proprio decennio e realizzare alcune inquadrature che Hitchcock a suo tempo si rammaricò di non poter girare. Celebre in questo senso la prima inquadratura aerea del film. Grazie alle meraviglie del digitale finalmente possiamo zoomare direttamente, senza le dissolvenze e le mezze panoramiche dell’originale, dal cielo verso la stanza d’albergo occupata da Marion e Sam. Ecco svelata la falsatura, non solo temporale ma anche ideologica che separa i due lungometraggi tra loro. Van Sant può adesso realizzare quella scena esattamente come era prevista nella sceneggiatura e lo fa. Si avvale di una tecnica superiore che gli permette di superare quell’impedimento al quale Hitchcock dovette ovviare in altro modo. Ma prendiamo un’altra sequenza, una delle più famose della storia del cinema, quello dell’assassinio di Marion nella doccia. Anche lì Hitchcock dovette misurarsi con la censura del tempo, sia a priori che a posteriori. A posteriori fu costretto ad eliminare alcuni fotogrammi della schiena di Janet Leigh sfregiata dalle coltellate e altri frame dove i seni e i glutei erano visibili. Ma fu soprattutto prima che il regista inglese dovette immaginare quell’omicidio sapendo che non avrebbe potuto mostrare l’affondamento del coltello nella carne.

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Come la siepe de L’infinito di Leopardi questo ostacolo si rivelò provvidenziale poiché, come è noto, egli ricorse alla felice scelta di quel montaggio serrato, quelle 70 inquadrature in appena 45 secondi di pellicola, che richiesero ben sette giorni di riprese. Perché, caduti ormai quei rigidi canoni estetici, Van Sant non ha ad esempio omologato la violenza della scena a quella ben più esplicita del cinema a lui contemporaneo? Perché ammodernare qualcosa e altro no? Perché rendere credibile agli occhi smagati di fine secolo i quattrocentomila dollari (quarantamila nell’originale) del furto, alcuni dialoghi (quello della scena iniziale tra i due amanti) e non altri (il petroliere che flirta con Marion con le stesse parole e gli stessi modi)? In fondo, nonostante gli intenti avanguardistici e i richiami (confusi) alla serialità della pop art, Psycho resta e resterà sempre un remake discrezionale di Psyco e, proprio in virtù della sua somiglianza con l’originale, a differenza dei suoi colleghi non potrà mai esimersene dal confronto. Nei due omicidi Van Sant appone la sua firma e quella del cinema postmoderno inserendo immagini subliminali che rompono e alterano la continuità della suspense classica. Amplia inoltre la semiologia degli specchi rendendo ancora più pervasiva la loro presenza: si veda la tendina della doccia che assomiglia a un vetro smerigliato di reminiscenza baconiana.

Psyco contro Psycho: la Forza Distintiva dell’H!

È soprattutto a livello concettuale, mi si perdoni l’uso di un termine così cristallizzato, che l’autore americano riscrive i maggiori allontanamenti. Innanzitutto rende esplicito i pruriti del baronetto inglese: Sam appare nudo nell’albergo e Marion mostra inavvertitamente il deretano quando scivola ormai morta sulla vasca. Crede poi doveroso strigliare l’etica benpensante dei Sixties facendo del gay Norman un libidinoso eterosessuale. Si spiega così l’assurda scelta di inserire la masturbazione dell’albergatore al motel mentre spia di soppiatto la svestizione di Marion. Innanzitutto Hitchcock nel suo film badò bene a non addebitare all’orientamento omosessuale del protagonista la causa della sua follia omicida. Non inserì quella scena semplicemente perché avrebbe rivelato subito la laidezza di Norman e il colpo di scena dell’uccisione di Marion sarebbe stato meno violento. Quando, nell’opera di Van Sant, vediamo quell’atto onanistico intuiamo che nulla andrà più bene, anzi, è lì che vediamo Anne Heche morire. Il film si mostra allora per quello che è, un esperimento tassidermico che congela la forma nella posa esatta della morte. Ecco, in fondo cos’è Psycho: un monumento funebre a Psyco, da visitare a giorni alterni nella piattezza del cinema odierno.

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COMMENTI (1)

Da OK MORANDO SERGIO Crocefieschi Genova Malpotremo Lesegno Italia Argentina San Morando
Inviato il 29 ottobre a 19:03
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A volte la realtà sorpassa il film stesso come quanto è accaduto a Borgo San Dalmazzo in Provincia di Cuneo Italy..donna trovata mummificata nascosta da..Simile al film di Hichcock Psyco meglio con H: PSYCHO. Morando