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Punti di vista. Una donna aggressiva e la perfetta omelette.

Creato il 08 ottobre 2015 da Unarosaverde

Sto riflettendo, in questo periodo, durante le tante ore che trascorro alla guida, che cambiando lavoro ho cambiato anche atteggiamento e che non so se la cosa mi fa piacere o meno. Vi spiego meglio.

Ho la presunzione, innata, della consapevolezza di essere intelligente. La ammetto senza rimorsi o pudori. L’ho sempre avuta, fin da piccola. Io riuscivo a fare tante cose che per molti erano complicate. E quelle che non riuscivo a fare – che non riesco, perchè così sono anche adesso – diventavano per me motivo di sfida personale: io DEVO impararle, fino a quando non arrivo a cavarmela bene. Non ho la pretesa di sapere tutto, non sono così accecata nella mia presunzione: ad esempio so che quello che riguarda molti ambiti – l’artigianalità della pazienza del movimento manuale, la propensione alla cura degli altri, la plasticità del gesto atletico, ad esempio – mi sono alieni, inarrivabili. Ma quello che ho e che so, cavolo, me lo tengo stretto e me lo porto in giro a bandiera. Non si arriva a quaranta e qualcosa anni senza aver capito come si funziona, non pensate?

Detto questo, dato che per me il periodo universitario è stato simile al medioevo per l’umanità, cioè ad una débâcle dell’intelletto, quando ne sono uscita col pezzo di carta, le ossa peste e una preparazione a dir poco sbrindellata, ho volato basso e adagio molto a lungo. Anni. Muta, con le manine che andavano, concentratissima e piuttosto pallosa. Nel frattempo ho provato a portare alla pari tutta una serie di abilità sociali che fino ad allora, nella mia immaturità di creatura abitante nei libri e non nella vita reale, non avevo avuto il tempo di coltivare.

Sono stata accusata di essere troppo poco agguerrita, al lavoro, nelle esperienze precedenti. Dove gli uomini graffiavano, grugnivano e pestavano le clave sulle scrivanie di vetro, io cercavo di arrangiarmi cercando di evitare i conflitti e parlare con le persone il più chiaramente possibile delle cose che stavo facendo e delle loro motivazioni. Con tanta, tanta pazienza. Quando l’infelicità per la fatica di arrivare in posti dove per altri le porte parevano sempre spalancate arrivava a valori non più compensati dalle altre condizioni al contorno, cambiavo posto, senza troppo casino. L’unica volta in sette anni, nel mio lavoro precedente, in cui mi hanno sentito controbattere decisa un mio superiore, è stato pochi giorni prima di licenziarmi. E brusco è stato anche il distacco, tra la loro grande meraviglia per un gesto che non si aspettavano – una costante, questa, della mia vita lavorativa: io mi dimettono e loro si incavolano perchè non se lo aspettano, chissà perchè – e il mio nervosismo per essermi arresa alla consapevolezza di aver sprecato tempo e di non essere stata capace, un’altra volta ancora, di trovare una via.

Dove lavoro adesso sono arrivata, senza nemmeno averlo premeditato, con l’atteggiamento ambivalente di chi ne ha piena l’anima delle dinamiche aziendali, si è resa conto di avere una solida professionalità acquisita in anni di esperienza, ha realizzato che questa professionalità ha sempre meno possibilità di essere accresciuta perchè più si sale più le scale sono ripide o non ti ci fanno nemmeno salire, e con la convinzione che, al compimento del ventunesimo anno di contribuzione, potrei chiudere baracca e burattini e dedicarmi ad un’economia di sussistenza e ad una vita contemplativa. Non so se ce la farò davvero mai, ma questo non significa che io non possa impegnarmi per farcela nè, tantomeno, che io non continui a desiderare, per soddisfazione personale e una certa etica del lavoro, di voler fare bene quello che faccio. Insomma, sto diversa da prima.

Mi sono accorta – e anche questo è arrivato senza premeditazione -, che è come se mi si fosse sturato il tappo: sembro un gatto che piscia sul territorio per delimitarlo. Reagisco alle provocazioni, accuso apertamente la negligenza e il lazzaronismo di certi colleghi, espongo il mio punto di vista in maniera decisa al mio superiore – che è pure il padrone dell’azienda per cui il giorno che gli girano la rischio -, ho perso certe remore di fondo legate alla buona educazione e al pudore. Però se da una parte sono orgogliosa di aver imparato alcune regole del gioco della competizione maschile, dall’altra queste reazioni che mi vengono adesso naturali  faccio fatica a lasciarle dove devono stare, cioè in uffcio, e a non portarmele addosso anche dopo aver timbrato il cartellino della sera. D’altro canto, se prima mi si richiedeva, per permettermi di fare carriera, un atteggiamento più deciso, adesso che ricopro un ruolo in cui la capacità di prendere decisioni e di esserne consapevoli è fondamentale, mi si dice che sono troppo brusca. Aggressiva. E pensate che arrossisco ancora: come diavolo fa una che arrossisce ad essere contemporaneamente aggressiva?! Sono diventata un ossimoro?!

Ed è così che ieri, durante la lezione di cucina, mentre la terza omelette di fila finiva spatasciata sul pavimento invece di girarsi elegantemente in padella – perchè, come dicevo prima, ogni volta che c’è da fare qualche cosa di manuale io esibisco il peggio di me – riflettevo anche sul fatto che lo stesso tipo di comportamento, declinato al maschile, è incoraggiato e apprezzato, mentre al femminile suona ostico e sgradevole. E che fare una omelette, a prima vista piatto stupido, è una cosa terribilmente seria. La quarta omelette mi ha sconfitto del tutto: l’ho passata ad un compagno di corso perchè la finisse e sono andata alla plonge, a sgrattolare via l’unto dalle bacinelle e l’amarezza dal cuore: fossi rimasta davanti al fornello, mi ci sarei accanita con un trinciante fino a ridurla a brandelli, per sfogare su di lei la mia frustrazione.

Dopo aver pianto sulle omelette e deciso che ne proverò a iosa nei prossimi giorni – qualcuno vuole un invito a pranzo? – , mi sono dedicata alla produzione delle orecchiette, sotto la gentile guida di un ragazzino barese e paziente.

Al ventesimo tentativo le orecchiette hanno cominciato a saltar giù dal mio pollice così come dovevano essere e, finalmente appagata, ho deciso che non c’è proprio niente che non funziona in me, ma è tutta colpa del mondo crudele.


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