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Qe: draghi usa l'arma "finale". ma il bersaglio?

Creato il 19 marzo 2015 da Vincitorievinti @PAOLOCARDENA
GUEST POST: di Francesco M. Renne (che ringrazio) da The Fielder. draghi l'arma Che, alla fine, anche alla Banca centrale europea l’ora del QE (quantitative easing, alleggerimento quantitativo) sia arrivata è sotto gli occhi di tutti. In una settimana d’attivazione della misura straordinaria temporanea (fino al 2016, da programma), non si può certo dire che non vi siano stati, per quanto in parte già «anticipati» dai mercati nei mesi scorsi, effetti concreti: un’ulteriore compressione degli spread a favore dei Paesi periferici, un progressivo calo del cambio col dollaro, euforia (a fasi alterne) in borsa. Se il bersaglio del Bazooka, come giornalisticamente viene definita la manovra di Mario Draghi, era favorire i mercati finanziari, gli emittenti periferici (come l’Italia), e indebolire l’euro (soprattutto rispetto al dollaro), allora ha centrato il bersaglio. Se era stimolare il «rilancio» dell’economia reale, invece, occorre ancora aspettare a giudicare. E qualche legittimo dubbio, sul fatto che davvero raggiunga anche quest’ultimo bersaglio, sembra comunque affiorare. Nel frattempo, l’irrigidimento (irrituale e dai toni a volte farseschi) della trattativa con la Grecia e i movimenti innescati sui cambi (dallo sganciamento, discutibile nei tempi e nei modi, del peg euro/franco svizzero, alle difficoltà danesi e d’altri limitrofi all’eurozona, fino alle future mosse della Fed sui tassi americani) fanno emergere un quadro non certo rassicurante in cui il fin qui vincente governatore Draghi dovrà muoversi. Ma andiamo con ordine e cerchiamo di rispondere ad alcune domande. Le domande di base, per i non addetti ai lavori (e anche per alcuni di questi, a volte), restano: che cos’è il QE? E perché ora? Il QE attivato dalla BCE è un programma straordinario di natura temporanea (indicativamente fino a tutto il 2016) d’acquisti diretti di titoli finanziari degli Stati appartenenti all’eurozona o d’enti sovrannazionali denominati in euro, essenzialmente sul mercato secondario (quindi non di nuova emissione). Così agendo, la BCE immette, a intervalli regolari, liquidità nel sistema pari all’ammontare dei titoli acquistati di volta in volta, fino a un totale di circa 1.000 miliardi da febbraio 2015 a tutto il 2016. Cioè all’incirca 60 miliardi al mese, inizialmente; poco più di 3 miliardi per ciascuna seduta borsistica. Gli acquisti verranno distribuiti fra i Paesi in rapporto alla quota di partecipazione al capitale della BCE stessa. (Per l’Italia, quindi, si parla del 17,5% del totale.) Il rischio insito in questi acquisti sarà per il 20% a carico della BCE e per la restante parte rimarrà a carico di ciascun emittente nazionale, mentre non potranno esser acquistati titoli con una concentrazione superiore al 33% per emittente e al 25% per singola emissione (da tre a trent’anni il range di durata individuato).
Questo programma «segue» gli interventi fatti sin qui a tutela dell’euro e dei mercati dell’eurozona, iniziati con la progressiva riduzione dei tassi(ora giunti al tasso negativo dello 0,20 sull’overnight dei depositi presso la BCE), continuati coi programmi di LTRO (prestiti agevolati alle banche dell’eurozona) e di T-LTRO (prestiti agevolati a seguito di rifinanziamento tramite cartolarizzazione di crediti alle imprese), e giunti sino al programma (già in essere) d’acquisto diretto d’ABS (asset-backed security). Manovre essenzialmente di credit easing, le prime; di quantitative easing, cioè d’immissione di liquidità per aumentare la massa monetaria, ora, a testimonianza di una mutata politica della BCE, via via sempre più a sostegno diretto (nel bene e nel male, e con le polemiche che tale scelta si porta dietro) dell’economia, anche supplendo alle mancanze della Politica (europea e d’alcuni singoli Paesi membri). Continuando ancora con le domande, manca all’elenco quella più importante: a che cosa serve? Gli obiettivi ambiziosi sono, in sintesi, rilanciare l’economia dell’eurozona, diminuire il costo del debito degli Stati, rilanciare il mercato del credito, e fermare la deflazione, riportandosi intorno a un tasso inflativo di poco sotto il 2%. Il ragionamento posto a base del QE si sviluppa in una concatenazione d’effetti «target» che si muovono su due piani paralleli tra loro, quello della finanza e quello dell’economia reale. In merito al primo, agendo tramite un incremento straordinario della domanda di titoli sui mercati finanziari, i corsi (i prezzi quotidiani, per intendersi) tenderanno a salire, mentre i tassi (intesi come rendimento effettivo a scadenza per un nuovo acquirente) a scendere, riverberandosi tal effetto sui tassi richiesti per nuove emissioni di debito di pari natura. Inoltre, l’immissione di liquidità e il calo dei tassi conseguente mirano a fare scendere il rapporto di cambio euro/dollaro, soprattutto in relazione all’annunciato ipotetico rialzo dei tassi, in quell’area, nel secondo semestre. In merito al secondo piano, l’aspettativa sta nell’innescare un effetto «sostituzione», poiché, se a cedere quei titoli saranno soprattutto banche ed enti finanziari, queste avranno più liquidità, ritrovandosi al contempo con rendimenti medi attesi sui mercati obbligazionari più bassi e quindi meno convenienti, da destinare a nuovi crediti all’economia reale, fungendo così da volano per il rilancio dell’economia e, indirettamente, dei corsi azionari in borsa. Sul funzionamento di tale «sostituzione» sta anche il primo dubbio concreto. Infatti, a fronte di una riduzione dei rendimenti medi attesi, spostarsi sul credito alle PMI o sull’azionario nei mercati comporta un’assunzione di rischio diversa e spesso maggiore, soprattutto nei finanziamenti diretti alle imprese. Ciò soprattutto proprio nei Paesi periferici (e quindi in Italia), per il maggior impatto dato della perdurante crisi sui bilanci aziendali (in Italia i tassi d’ingresso in sofferenza dei prestiti sono pressoché triplicati negli ultimi tre anni), cui vanno aggiunte, nel nostro caso, le debolezze sistemiche di un sistema imprenditoriale sottodimensionato per fatturato, mediamente sottocapitalizzato e sostanzialmente sovresposto verso indebitamento a breve termine (e quindi a revoca). Non è pertanto detto che la «sostituzione» avvenga in automatico, né che, ammesso che possa avvenire senza riforme strutturali interne sul «fare impresa», non abbia un effetto controproducente sulla stabilità delle banche (e quindi del risparmio). Quindi, «funzionerà»? Sui mercati finanziari sta già funzionando. I tassi BTP sono scesi sotto l’1% e venerdì scorso (dopo una sola settimana d’attività del Bazooka) si posizionavano intorno a 1,15%. Lo spread è sceso fino a 85–86 punti base. Il cambio euro/dollaro, infine, è sceso fin verso la parità (era 1,35 solo qualche mese addietro), a 1,05–1,06. Anzi, la velocità degli effetti finanziari (nel calo dei tassi) solleva un secondodubbio operativo, sulla durata del programma di QE. Infatti, se continuasse questo trend, ci si troverebbe nella situazione di raggiungere in anticipo i limiti massimi prefissati, essendo stato fissato un limite dato dal non poter acquistare titoli con rendimento negativo superiore al tasso BCE (ora dello 0,20%, e alcune emissioni dei Paesi membri più virtuosi lo stanno già raggiungendo). Ciò comporterebbe una scelta difficile per Draghi, che si vedrebbe costretto a una nuova manovra sui tassi (alzando il tasso negativo) in controtendenza alle aspettative sulle scelte della Fed, ovvero rallentare il flusso di liquidità sul sistema (diminuendone l’effetto potenziale d’acceleratore dell’economia), ovvero ancora anticipare la conclusione del programma (riducendo le chance di ripresa per quei Paesi che non saranno immediatamente reattivi alle misure adottate fin qui). Sull’economia reale, dunque, il giudizio non può che restare «sospeso», almeno fino al dissiparsi dei due dubbi suesposti. Cui, a onor del vero, vanno aggiunti quelli derivanti dal caso Grecia, dalle tensioni dovute ad alcuni focolai d’instabilità geopolitica (Ucraina–Russia su tutte), dalle future mosse (non affatto necessariamente «compiacenti») delle altre banche centrali (Fed su tutte), e dall’impatto della svalutazione di questi mesi, che contrariamente alle aspettative salvifiche di molti, pur favorendo le esportazioni, non pare stia dando i frutti diffusi auspicati (e inizia a generare qualche squilibrio dal lato importazione energetica e di materie prime). Insomma, alla luce di tutto ciò, resta un’ultima domanda, per concludere. Mario Draghi ha (per ora) salvato l’euro, stretto tra i bisogni (colpevoli, a volte) dei Paesi periferici, le regole (sensate, a dirla tutta) d’ingaggio della BCE (che qualcuno vorrebbe troppo frettolosamente cambiare), le pressioni speculative (inevitabili) sui mercati finanziari, e l’intransigenza (in parte comprensibile, anche se politicamente inopportuna) dei tedeschi. Riuscirà, col suo Bazooka, anche a salvare l’economia dell’eurozona? contatti: [email protected]

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