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Qualcosa da non rimpiangere.

Creato il 23 aprile 2014 da Dbellucci

Di recente ha fatto il giro del web un articolo dedicato a Bronnie Ware, un’infermiera australiana, che ha avuto modo (e forse anche adesso ha modo) di assistere persone gravemente malate durante gli ultimi giorni della loro vita. Ok, non vorremmo essere al posto di Bronnie – almeno non io – e tantomeno nei panni dell’ammalato. Dovrei dire, dell’ammalato terminale. Da parte mia non credo che sarò mai un infermiere, ma (mi duole dire) non ritengo così remoto, un giorno, di ritrovarmi sul letto a fare i conti coi miei rimpianti, aspettando che quel po’ di vita finisca di scorrermi fra le dita. Bronnie in effetti ha fatto proprio questo: ascoltare i rimpianti delle persone che non hanno più tempo. Vediamo allora quali sono, in ordine sparso:

1) “Avrei voluto vivere la vita secondo le mie inclinazioni e non secondo le aspettative degli altri”.
2) “Non avrei voluto lavorare così duramente”.
3) “Avrei voluto avere il coraggio di esprimere i miei sentimenti”.
4) “Avrei voluto restare di più in contatto con i miei amici”.
5) “Avrei voluto consentirmi di essere più felice”.

La cosa che più fa riflettere è la risposta alla stessa domanda, ossia “Che cosa più rimpiangi?”, fatti ai sani, a quelli che potenzialmente hanno tempo davanti a sé. Vediamo le risposte, sempre in ordine sparso, riportate da un noto giornale londinese dopo un sondaggio. Abbiamo:

1) Soldi (ne avrei voluti di più, non ho lavorato abbastanza duramente, non ho rischiato quand’era il momento, etc)
2) Viaggi (ho viaggiato poco)
3) Sesso (ne ho fatto poco, non l’ho fatto bene, non ci ho provato con questo/a, etc)

Sicuramente quando il tempo finisce viene a galla la sostanza del nostro cuore. Riflettendo sulle priorità mancate dei moribondi, vedo tra esse un legame che potremmo definire “fame di relazione” e “fame di autenticità”. Se vogliamo accorpare, “relazioni autentiche”. Questa è la fame attorno a cui si impasta la nostra natura. Funzioniamo così. Il fatto più ridicolo è il terrore che accompagna l’idea di provare a funzionare secondo natura, ossia vestendoci di relazioni autentiche. Aggiungerei io, con un po’ di leggerezza. Certo, Kundera diceva che la leggerezza è comunque insostenibile e la sua osservazione mi trova in perfetto accordo.

Riguardiamo quei cinque rimpianti. La maggior parte (ben tre, o comunque due e mezzo) esprime il bisogno di relazioni autentiche con gli altri: manifestare serenamente i propri sentimenti e la propria voce, curare i rapporti con gli amici e approfondirli, scivolare sulle aspettative degli altri cercando di salvaguardare la sostanza del nostro cuore. Segue poi la necessità di relazioni autentiche con se stessi: consentirsi di essere felice, che non è egoismo né sopravvivenza, ma coscienza dell’unicità e del valore della propria esperienza umana. Infine, necessità di una relazione autentica con il denaro e quanto ne deriva: non avrei voluto lavorare così duramente. Tra l’altro, è drammatico che questo punto sia l’esatto opposto di quanto detto da tutti noi, i vivi di domani (gesto scaramantico, ok).

Perché è difficile scegliere relazioni autentiche? Di che cosa si ha paura? La risposta che mi viene da dare apre la porta a un paradosso piuttosto amaro. Penso si tema la solitudine. Se non lavoro duramente, sarò solo e in difficoltà; se vivo come vogliono gli altri, se faccio ciò che gli altri si aspettano da me, se accetto la convezione, è meno probabile che mi ritrovi solo. Certo lavorare duramente richiede tutto il mio tempo e questo sacrifica alcune relazioni (i contatti con gli amici), ma è il prezzo da pagare per non essere disperatamente isolati da tutti domani.

Insomma, seguendo questo schema, si muore soli perché non abbiamo impostato la nostra vita sull’autenticità delle relazioni (con gli altri e con noi stessi) e non l’abbiamo fatto per timore di essere soli. Un meccanismo sofisticato e amaro, che tuttavia indica con chiarezza una direzione.



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